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47: Impotenza

Marco 15:21-47

Sebbene Cristo abbia deposto la sua vita volontariamente, visto che nessuno gliela prese contro la sua volontà, possiamo lo stesso parlare della sua impotenza. Si arrese a quell’impotenza volontariamente. Nel farlo manifestò il suo potere sulla carne. Quel potere si mostrò ripetutamente, per esempio, quando gridò con gran voce nel momento in cui morì.

La sua  impotenza era il risultato di essere stato abbandonato da Dio. A questo abbandono si era arreso da sé. L’abbandono di Dio fu la causa della sua morte fisica. “Fisica” si riferisce alla vita nella sua debolezza, il risultato del peccato, l’elemento mortale della vita che deve essere distrutto. Questo elemento mortale o debolezza della carne gli rende possibile essere abbandonato da Dio, essere sottoposto alla morte finale.

Benché Cristo stesso fosse senza peccato, patì la morte nella sua pienezza perché il nostro peccato gli era stato caricato. Come risultato della sua morte, l’elemento mortale che c’è in noi è già stato vinto al punto che i credenti non possono più essere abbandonati da Dio.

Poiché fu abbandonato da Dio non poteva più avere alcun potere sulla vita. Mediante il suo soffrire guadagnò per il suo popolo l’eterna comunione con Dio, e in quella comunione, potere sulla vita, il diritto di mangiare dell’albero della vita.

          Concetto principale: Cristo soffre l’impotenza nella morte.

          Impotente nella sua sofferenza. Dal cortile del pretorio di Pilato i soldati condussero Gesù fuori dalla città. I criminali venivano sempre crocefissi fuori dalla comunità. Anche il Signore Gesù Cristo fu espulso dalla comunità. Lui che è il nostro Capo e che prese su di sé i nostri peccati fu giudicato non più degno della società umana.

Fuori dalla città fu crocefisso su una collina chiamata Golgota. Dapprima vollero dargli da bere del vino come sedativo ma lui rifiutò. Si arrese volontariamente al proprio patire. Dopo tutto, non aveva forse vinto la carne? Poi procedettero a giocarsi ai dadi le sue vesti, come fosse già morto.

Sopra la sua testa Pilato aveva fatto collocare un’iscrizione che dichiarava quale fosse il motivo della condanna: “Il Re dei giudei”. Pilato usò il pretesto per terrorizzare chiunque avesse similmente voluto resistere l’autorità dell’imperatore. Né Pilato, né i giudei avevano capito il tipo di regalità di cui Gesù era andato parlando. In ogni caso, la gloria della sua regalità fu temporaneamente offuscata dal potere dell’impero romano.

Ai suoi due lati crocifissero pure due assassini. Perfino nella sua morte, dunque, fu annoverato tra i trasgressori. Fu coperto di vergogna per i nostri peccati, e nella vergogna dei nostri peccati fu fatto diventare un pubblico spettacolo.

Per lunghissime ore fu sottoposto a quest’amara sofferenza e a questa vergogna. Lui, il Cristo,  Colui che era stato mandato a redimere il mondo e che per il suo potere porterà un giorno questo mondo a completa redenzione, pendeva dalla croce, impotente. Si era arreso volontariamente al proprio destino e fu volontariamente privato di ogni potere. Sulla croce non poteva nemmeno muoversi e ogni forza distruttiva dominava su di lui. In questo modo patì per noi. E tuttavia, a causa dei nostri peccati anche noi meritiamo di essere consegnati alle potenze della distruzione.

          Schernito per la sua impotenza. Molte persone passarono davanti a quel posto terribile. Si fermavano, scuotevano il capo nella loro falsa compassione e ridevano di lui per la sua impotenza: “Salva te stesso e scendi dalla croce”. Gli anziani del popolo seguirono l’esempio e fecero commenti sarcastici. Aveva effettivamente salvato altri, dicevano tra loro, ma era ovviamente incapace di salvare se stesso. Se avesse dato ora loro un segno e fosse sceso dalla croce avrebbero creduto in lui. Pensavano così di aver trionfato su Gesù che non erano mai riusciti a eguagliare negli scambi verbali. Perfino gli assassini che erano stati crocefissi con lui lo ingiuriavano.

Gli anziani avevano ragione: Gesù aveva salvato altri ma non poteva salvare se stesso. Non gli era permesso salvare se stesso se voleva salvare altri. Espiando i loro peccati per mezzo di questa sofferenza, fu capace di salvare altri. La salvezza viene dalla grazia di Dio che Gesù ottenne.

Che ordalia deve essere stata per Gesù questa berlina! Eppure la sopportò. Aveva conquistato la vittoria nel Getsemani ed era pertanto preparato a soffrire, anche fino alla morte.

          Impotente come risultato dell’abbandono. Gesù patì sulla croce dalle nove del mattino fino a mezzogiorno. Com’era possibile che fosse stato consegnato a tutta quella sofferenza, a tutte le forze di distruzione e in ultimo perfino alla morte? Avvenne perché Dio lo aveva abbandonato. Se un uomo ha comunione con Dio ha anche potere di vivere, ma se Dio lo abbandona, è soggetto alla distruzione.

Dio abbandonò Gesù sempre di più. Che terribile esperienza deve essere stata per lui visto che bramava la comunione con Dio più di qualsiasi altro uomo. Nessuno potrà mai comprenderlo. Quando il legame con Dio si spezzò, morì mille morti. Tenebre totali e l’inferno stesso lo sommersero. Patì la morte eterna.

Gesù Cristo è la luce del mondo. Solo per mezzo di lui vennero grazia e luce. E lui è il Capo del mondo. Se fosse stato abbandonato e lasciato nelle tenebre più totali, il mondo intero sarebbe un giorno stato perduto nelle tenebre più totali. Ciò divenne evidente quando il sole fu oscurato a mezzogiorno. Le tenebre eterne avrebbero un giorno sommerso il mondo intero se Gesù non avesse sopportato la sofferenza della completa solitudine.

In quell’oscurità, nascosto da ogni occhio, soffrì per tre lunghe ore. La sua sofferenza fu definitiva. Affondò sempre più giù. Divenne sempre più atterrito dalla profondità della sofferenza che risultava dall’essere abbandonato da Dio. “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Gridò. “Cosa è il peccato, comunque, e quanto abissale può essere la sua miseria. Raggiungerò mai il fondo di quella miseria?” Gesù dovette esplorare le profondità del peccato e i suoi effetti su Dio. A quella profondità Dio lo gettò. Affondò sempre più giù, sempre più giù, nella morsa di indicibile terrore, in totale impotenza. Quello fu il prezzo per la nostra espiazione.

Quando Gesù emise quel grido, aveva sondato le profondità del peccato. Con ciò rimosse il giudizio da noi. La prova di quella rimozione fu il ritorno della luce. Quando si fece un po’ di luce, lo scherno del Golgota riprese. Lo scherno imbarazzato servì a dissolvere la temibile impressione che le tenebre avevano fatto.

Siccome Gesù aveva gridato: “Elio, Eloi”, dissero beffardamente che aveva chiamato Elia a salvarlo. Quando qualcuno andò a bagnare le sue labbra con una spugna intinta nell’aceto, qualcun altro lo chiamò indietro, ma costui insistette dicendo che voleva vedere se Elia sarebbe venuto a salvarlo (vedi Matteo 27:48-49). Non gli era concesso di morire, non ancora.

          Impotente nella morte. Ma Dio decise diversamente. Gesù aveva compiuto l’espiazione per i nostri peccati e adesso gli era permesso morire. Non fu solo per porre fine alla sua umiliazione. Era stato abbandonato da Dio; ora veniva consegnato alla morte temporale. Anche la morte avrebbe dominato su di lui.

La morte temporale era entrata nel mondo perché noi spezzammo il legame con Dio e perciò la morte avrebbe soverchiato anche Gesù. Sopportò la presa violenta della morte come fosse stato trattenuto in catene.

Eppure si era volontariamente arreso a tutta quella disperazione, morte inclusa. Perfino nel momento della sua morte Gesù fu una vittima volontaria. Il potere di tutti i suoi nemici fu spezzato perché perché lui si arrese alle proprie sofferenze volontariamente per amore di Dio, per riconciliare il mondo a Dio.

Poiché Gesù era stato una vittima volontaria, la sua morte divenne un sacrificio espiatorio. Espresse la sua volontarietà e la sua vittoria nello spirito quando gridò a gran voce nel momento della morte. Perfino il centurione che stava a guardia su di lui vide un elemento di vittoria nella sua morte e proclamò: “Veramente quest’uomo era figlio di Dio”.

Poiché il suo soffrire e morire furono un sacrificio offerto a Dio, sarebbe diventato una benedizione eterna. Avrebbe conseguito una perfetta comunione tra l’uomo e Dio. Dio lo rivelò in quel momento stesso perché quando morì, la cortina del tempio fu lacerata in due. Fino a quel momento Dio aveva dimorato celato dietro la cortina, ma ora il suo popolo avrebbe avuto il privilegio di camminare in piena comunione davanti alla faccia di Dio.

          Impotente nella tomba. Di tutti i seguaci di Cristo, solo alcune donne e pochi discepoli assistettero alla sua morte. Avrebbe dovuto essere sepolto rapidamente, prima che cominciasse il sabato alle sei di sera.

Dio stesso si occupò della sepoltura. C’era un membro del sinedrio che, in fede, aveva visto il regno della grazia nelle parole e nelle azioni del Signore Gesù. Per timore dei giudei non aveva rivelato le proprie convinzioni. Ora però andò da Pilato e chiese il permesso di prendersi cura della sepoltura. La fede di quest’uomo, Giuseppe d’Arimatea, era genuina: quando sembrò che il Signore Gesù fosse perito, la sua fede non gli venne meno. Anzi, la dichiarò apertamente. Il corpo del Signore Gesù fu posto a riposare in una tomba nuova di proprietà di Giuseppe.

Gesù giaceva lì, impotente. Gli fecero quello che credettero giusto. Lo tolsero dalla croce, lo portarono via e lo trasportarono alla tomba. Lui pure, era entrato nel reame dei morti ed era stato consegnato all’oblio. E tuttavia, lo aveva voluto lui stesso. Per mezzo di tutto questo sopportò il giudizio sui nostri peccati. Noi siamo quelli che meritano di essere dimenticati per sempre. Per la sua volontarietà, Dio non lo consegnò alla corruzione nella tomba. Invece, la sua morte fu un sacrificio che compì pienamente la richiesta di Dio.

Attualmente sarebbe risorto. E per amore suo Dio non consegnerà all’oblio quelli che sono suoi. Con Cristo un giorno trionferemo sulla morte e la tomba e riceveremo la potenza per vivere.


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