INDICE:

9

Nono Comandamento

1. Tentare Dio

 

Il nono comandamento: “Non farai falsa testimonianza contro il tuo prossimo” (Es. 20:16), è stato ampiamente travisato a significare: “Dirai la verità a qualsiasi persona che possa chiederti qualsiasi cosa, sempre e in qualsiasi circostanza”.

Il 5 ottobre, 1959, chi scrive tenne una lezione in una conferenza per insegnanti di scuole cristiane a Lynden, Washington. La sostanza della lezione, con l’aggiunta di materiale, fu più tardi pubblicata in un libro: Intellectual Schizophrenia. Sia al tempo della lezione sia dopo la pubblicazione, vari ecclesiastici “riformati” hanno aspramente attaccato chi scrive per le sue osservazioni su Rahab e la bugia che disse riguardo alle spie israelite che nascose e cui salvò la vita. Fu evidenziato che:

Rahab dovette fare una scelta: 1) poteva dire la verità e consegnare le spie, due uomini pii, alla morte. 2) poteva mentire e salvare loro la vita. Questo è il tipo di situazione che il moralista odia e rifiuta d’accettare. Ambedue i corsi d’azioni implicano del male per quanto il moralista cerchi di negarlo. La domanda è: Qual’è il minore dei mali? Le nostre scelte sono raramente tra bianco o nero; raramente abbiamo il lusso di poter fare una scelta assoluta. Ma quello che abbiamo è la continua opportunità di prendere decisioni nei termini di una fede assoluta, per quanto grigia possa essere la situazione nell’immediato. Rahab ebbe questa fede. Che abbia mentito o no fu relativamente irrilevante paragonato alla vita di quei due uomini pii. Mentì e salvò loro la vita. Per questo, Giacomo l’ha evidenziata, insieme con Abrahamo, come un caso di fede vitale, di fede che non era una mera opinione ma una questione di vita e d’azione (Gm. 2:25). Anche Ebrei 11:31 evidenzia quest’azione come un caso di vera fede. Cercare di estrapolare da quest’azione qualcosa di lodevole mentre la si condanna per la menzogna è un’inutile evasione e una violazione dell’unità della vita. Rahab chiaramente mentì, ma la sua menzogna rappresentò una scelta morale contrapposta al mandare a morte i due uomini pii, e per questo Rahab divenne un’antenata di Gesù Cristo (Mt. 1:5). Per il moralista è impostante rimanere in piedi nella propria giustizia autonoma, e l’alternativa di Rahab è intollerabile perché rende a volte inevitabile qualche tipo di peccato. Per la persona pia, che non si poggia sulla propria giustizia ma sulla giustizia di Cristo, la propria purezza non è l’essenza della questione ma lo è che sia fatta la volontà di Dio. E Dio, in quella situazione, certamente volle che fosse salvata la vita alle due spie, non che l’individuo potesse farsi avanti in grado di dire: io non dico mai bugie.

Ma, il moralista ci dice che se Rahab avesse detto la verità. Dio sarebbe stato costretto a onorare la sua integrità e salvare lei e le spie, e Rahab aveva l’obbligo di dire la verità indipendentemente dalle conseguenze. Qui sono implicate diverse fallacie caratteristiche del moralismo:

    1. Si sostiene che la scelta morale implichi una questione razionale non complicata.
    2. È sempre una scelta tra assoluti giusto e sbagliato.
    3. La questione centrale è sempre la preservazione della purezza morale dell’individuo anziché un fattore trascendente.
    4. La giustizia poetica è sempre operativa; la virtù viene sempre salvata e premiata, e la verità trionfa sempre.

Ma questo non è il cristianesimo biblico ma deismo del XVIII secolo con una forte vena di Regina delle Fate di Spenser! Paolo potè dire, echeggiando il Salmista (Sl. 44:22) “Per amor tuo siamo tutto il giorno messi a morte; siamo stati reputati come pecore da macello” (Ro. 8:36). Che la Scrittura affermi un trionfo finale dell’uomo pio (differenziandolo dal morale) è fuori discussione, ma non afferma il concetto della giustizia poetica. Non possiamo permettere che una falsificazione così radicale della fede sia proiettata sulle Scritture.

La dottrina della giustizia poetica in effetti richiede che siano riscritte le Scritture, la storia e la letteratura …[1]

Questi critici hanno insistito che Dio benedirà e libererà la persona che dice il vero sempre. Bisogna aggiungere che questi difensori del dire il vero sono stati in tutti i tempi notori bugiardi. Sentono di avere un diritto di negare di aver fatto una dichiarazione se non viene riprodotta perfettamente, parola per parola, fino all’ultima sillaba. Questo ragionare farisaico è caratteristico del loro modo di pensare.

Ma Dio richiede proprio che diciamo la verità tutte le volte? Una tale proposizione è altamente discutibile. Il comandamento è molto chiaro: non dobbiamo fare falsa testimonianza contro il nostro prossimo, ma questo non significa che il nostro prossimo, o i nostri nemici abbiano sempre il diritto d’avere la verità da noi, o qualsiasi parola da noi su cose che non sono di loro interesse e sono invece di natura privata per noi. Nessun nemico o criminale ha alcun diritto di sapere sul nostro conto cose che possono essere usate per farci del male. Le Scritture non condannano Abrahamo e Isacco per aver mentito per evitare omicidio e violenza carnale (Ge. 12:11-13; 20:2; 26:6, 7); al contrario, ambedue vengono riccamente benedetti da Dio e gli uomini che li hanno posti in quella infelice posizione vengono condannati o giudicati (Ge. 12:15-20; 20:3-18; 26:10-16). Nelle Scritture esempi simili abbondano. Nessuno che stia cercando di farci del male, di violare la legge con riferimento a noi stessi o ad altri, ha diritto alla verità.

Più ancora, dire la verità a uomini malvagi e con ciò consentire loro di attivare la loro malvagità si può definire con fondamento scritturale una malvagità. Asaf dichiarò: “Se tu vedi un ladro, tu prendi piacere d’essere in sua compagnia, e ti fai compagno degli adulteri” (Sl. 50:18 Vecchia Riveduta). Vedere un ladro e stare zitti è partecipare al furto. Vedere uomini progettare furto od omicidio, e poi rispondere in verità riguardo a dove si trovino l’uomo, la donna o i beni che intendono uccidere, violentare o rubare, è essere partecipi del loro reato. Tale dire la verità diventa quindi partecipazione in un crimine. In questi termini, se Rahab avesse detto la verità, sarebbe diventata complice della morte di due uomini.

Il fatto che il nono comandamento non richieda o comandi la resa della privacy è stato riconosciuto da molto tempo ed è diventato legge. Il Quinto Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti del 1787 dichiarò che nessun uomo “sarà obbligato, in nessun processo penale, a testimoniare contro se stesso”. [In Italia è diventato la legge che consente la “facoltà di non rispondere”.] Un uomo può confessare; può scegliere di testimoniare a proprio favore, nel cui caso non deve spergiurare, ma non può essere costretto a testimoniare contro se stesso. Se testimonia a proprio favore, non gli possono essere fatte domande estranee al caso in questione. Per questa ragione il cristiano deve opporsi all’uso del “lie detector” con chiunque, volontario o no, perché il soggetto può essere indotto a testimoniare su questioni estranee e con ciò verrebbe invasa la sua privacy.

Per tornare alla questione del dire la verità, il cristiano è sotto l’obbligo davanti a Dio di dire la verità tutte le volte che esista una comunicazione normale. Questo dire la verità significa, non l’esposizione della nostra privacy, ma fare una testimonianza vera in relazione al nostro prossimo. Non è applicabile ad azioni di guerra. Spiare è legittimo, come lo sono tattiche ingannevoli in battaglia. La protezione dai ladri richiede segretezza e muri.

Credere che si possa dire la verità in una situazione paragonabile a quella di Rahab, e che Dio miracolosamente libererà noi e e gli uomini la cui vita è in ballo, non è solo stolto ma è anche teologia demonica. Sostenere che Dio ci debba liberare in tali circostanze è essere colpevoli della tentazione satanica: tentare Dio. La seconda tentazione di Satana a Gesù Cristo, il secondo o ultimo Adamo, fu che si gettasse dal pinnacolo del tempio e costringesse Dio a salvarlo. Gesù rispose a Satana: “È anche scritto: Non tentare il Signore Dio tuo” (Mt. 4:7). Gesù Cristo rese chiaro che nessuno può mettere Dio alla prova o imporgli di fare qualcosa. Nessuno può sventatamente esporre due uomini alla morte con la pretesa che il suo dovere è di dire la verità indipendentemente dalle circostanze, aspettandosi che Dio salvi gli uomini che egli stesso rifiuta di salvare. Fu Satana a sostenere che l’uomo ha il dovere di mettere Dio alla prova: “Ha Dio veramente detto?” (Ge. 3:5).

In riferimento a questo, la posizione di John Murray, un teologo straordinario, ha bisogno d’essere esaminata. Nel rispondere alla domanda: “Cos’è la verità?” Murray dichiarò:

La risposta di nostro Signore a Tommaso: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv. 14:6) indica la direzione in cui troveremo la risposta. Dovremmo tenere presente che “il vero” nell’uso di Giovanni non è tanto il vero in contrasto col falso, o il reale in contrasto col fittizio. È l’assoluto in contrasto col relativo, ciò ch’è di valore ultimo in contrasto con ciò ch’è derivato, l’eterno in contrasto col temporale, il permanente in contrasto col temporaneo, il completo in contrasto col parziale, il sostanziale in contrasto con le ombre [2] .

Gesù, dichiarando di essere la verità: “sta enunciando il fatto stupefacente che egli appartiene a ciò ch’è di valore ultimo, l’eterno, l’assoluto, il non derivato, il completo”[3]. Verità fa riferimento alla “santità dell’essere di Dio in quanto Dio vivente e vero. Egli è il Dio di verità e ogni verità deriva la propria santità da lui”[4]. Murray riconosce la validità dell’occultamento di verità:

È assolutamente vero che le Scritture legittimano l’occultamento della verità da chi non abbia il diritto di riceverla. Riconosciamo immediatamente la giustizia di ciò. Come sarebbe intollerabile la vita se fossimo costretti a mettere a nudo tutta la verità. E l’occultamento è spesso un obbligo che la verità stessa richiede. “Chi va in giro sparlando svela i segreti, ma chi ha lo spirito leale cela la cosa” (Pr. 11:13). È inoltre vero che spesso gli uomini perdono il loro diritto di sapere la verità e noi non siamo sotto l’obbligo di fargliela avere [5].

Però, nel discutere il caso di Rahab, e casi simili nelle Scritture, Murray equivoca:

Non dovrebbe rimanere inavvertito che le Scritture del Nuovo Testamento che commendano Rahab per la sua fede e le sue opere fanno un’allusione unicamente al fatto che ricevette le spie e le mandò via per un’altra strada. Non si può sollevare nessuna questione sull’appropriatezza di queste azioni o d’aver nascosto le spie agli emissari del re di Gerico. E l’approvazione delle azioni non porta con sé, per via logica o in termini di un’analogia fornita dalle Scritture, l’approvazione della specifica bugia detta al re di Gerico. È teologia strana quella che insisterà che l’approvazione della sua fede e delle sue opere nel ricevere le spie e nell’aiutarle a fuggire debba includere l’approvazione di tutte le azioni associate con la sua lodevole condotta [6].

Contrariamente a Murray, noi dobbiamo insistere che è teologia molto strana quella che ammetterà che Dio approvò la fede e l’azione di Rahab, ma che la bugia su cui si fonda l’intero salvataggio sia in qualche modo cattiva. La posizione di Murray non ha evidenza scritturale: implica tagliare erroneamente la parola, cercando di dividere un’azione da se stessa e negando che la lode di Dio di quell’azione fosse effettivamente lode.

Lo stesso non-senso farisaico è coltivato riguardo alle levatrici che salvarono la vita di bambini israeliti che avrebbero dovuto essere uccisi alla nascita. Secondo Murray:

Viene fatto appello alla prevaricazione delle levatrici in Egitto per legittimare il non-vero in appropriate condizioni. “Le levatrici risposero al Faraone: ‘Perché le donne ebree non sono come le egiziane, ma sono vigorose e, prima che la levatrice arrivi da loro, hanno già partorito’. Or DIO fece del bene a quelle levatrici; e il popolo moltiplicò e divenne straordinariamente forte” (Es. 1:19,20). La giustapposizione qui potrebbe sembrare porti con sé l’approvazione della risposta a Faraone …

Comunque, pur concedendo che le levatrici dissero una non-verità e che la loro risposta era effettivamente falsa non c’è lo stesso alcuna legittimazione per concludere che il non-vero sia approvato e ancor meno che il motivo sia il non vero quando leggiamo: “Or Dio fece del bene a quelle levatrici” (Es. 1:20). Le levatrici temettero Dio nel disobbedire al re ed è perché temettero Dio che il Signore le benedì (cfr. vv. 17, 21). Non è per nulla strano che il loro timore di Dio sia coesistito con la loro infermità morale. Il caso è semplicemente che non si può citare nessuna legittimazione per il non-vero da questa occorrenza più di quanto si possa fare dai casi di Giacobbe e di Rahab [7].

Questo è un’allucinante modo di ragionare. Murray chiama la relazione delle levatrici “prevaricazione” e “non vero”; chiamiamolo, più onestamente, una bugia. Ancor di più, cosa chiameremo la separazione che Murray fa tra la bugia che salvò la vita di bambini condannati a morte dalla benedizione di Dio sulle levatrici? È chiaramente presentata come causa ed effetto. Le levatrici mentirono perché temettero Dio più di Faraone. Il loro timore di Dio fu manifestato precisamente nella bugia, probabilmente a rischio della loro vita, per salvare la vita dei bambini pattizi di Dio. Contrariamente al Murray, la loro bugia non fu “infermità morale” ma coraggio morale, proprio come quello della bugia di Rahab. L’infermità morale in questione è interamente quella di Murray e dei suoi pupilli. Faraone era in guerra con Dio e con Israele; Israele era stato schiavizzato, la sua popolazione abusata, e i suoi neonati sentenziati a morte. Questa era chiaramente una guerra; ancor peggio, era omicidio all’ingrosso legalizzato. Le levatrici mentirono a faraone per salvare la vita dei bambini. Fu chiaramente mentire; fu chiaramente giustificato. E fu chiaramente benedetto da Dio.

C’è qui una lunga tradizione di filtrare il moscerino e inghiottire il cammello. Sant’Agostino si abbandonò in ragionamenti peculiari per accettare la dichiarazione delle Scritture riguardo alle levatrici, dichiarando: “Poiché se una persona che è abituata a dire bugie per fare il male giunge a dirle per fare il bene, quella persona ha fatto un grande progresso”[8]. In altre parole, le levatrici erano state terribili bugiarde, ora erano migliorate: mentivano per una buona causa! Per Agostino: “Queste testimonianze dalle Scritture non hanno altro significato che non dobbiamo mai, mai mentire”[9]. Se diciamo sempre la verità, sosteneva Agostino, strapazzando un testo: Dio provvederà sempre una via d’uscita (1 Co. 10:13)[10].

Le levatrici dovettero soffrire anche per mano di Calvino, nonostante la benedizione di Dio. Secondo Calvino:

Nella risposta delle levatrici si possono osservare due problemi visto che né confessarono la loro pietà con appropriata intelligenza e ciò ch’è peggio, sfuggirono mediante la falsità. … Perciò entrambi i punti devono essere ammessi, che le due donne mentirono e, siccome mentire dispiace a Dio, che peccarono. … Neppure c’è alcuna contraddizione con ciò nel fatto che siano state lodate due volte per il loro timore di Dio, e che c’è scritto che Dio le ricompensò; perché nella sua paterna indulgenza verso i suoi figli egli dà comunque valore alle loro buone opere, come se fossero pure, malgrado possano essere contaminate da qualche mistura d’impurità. Di fatto, non c’è azione così perfetta da essere assolutamente priva di macchia; benché possa essere più evidente in alcuni che in altri. … Così, benché queste donne furono troppo pusillanimi e timide nelle loro risposte, pure siccome avevano agito nella realtà con cuore e coraggio, Dio sopportò in loro il peccato che avrebbe meritatamente condannato [11].

Calvino avrebbe voluto che le levatrici non solo avessero detto la verità a Faraone ma anche che gli avessero data una testimonianza, convertendo l’udienza in una sorta d’incontro di testimonianza. Non solo una simile testimonianza non sarebbe stata possibile in un’udienza di corte, ma sarebbe stata immorale nei termini delle parole di Gesù Cristo: “Non date ciò che è santo ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con i piedi e poi si rivoltino per sbranarvi” (Mt. 7:6).

Molto altro nelle Scritture milita contro la convinzione di Calvino che le donne avessero dovuto dare una testimonianza a Faraone. Secondo Salomone:

Chi corregge lo schernitore si attira vituperio, e chi riprende l’empio riceve ingiuria. Non riprendere lo schernitore, perché ti odierà; riprendi il saggio, ed egli ti amerà (Pr. 9:7, 8).

Calvino era corretto in una cosa: le donne mentirono, ma, con buona pace di Calvino, Dio non disapprovò la loro azione in nessun modo.

Hodge, invece, citò il caso delle levatrici come “un’intenzione di ingannare” che non era “colposa”12. Però non sviluppò il punto e, sfortunatamente, la sua posizione ha avuto pochi seguaci. Park commenda le levatrici, ma fonda la loro azione nel suo aspetto “d’umanità” e la chiama “vera religione”, cosa che dà al testo una piega umanistica che nel testo non c’è [13].

Il teologo presbiteriano Dabney, nell’analizzare il significato del nono comandamento, dichiarò che: “L’uomo può uccidere, quando per Dio il diritto alla vita del colpevole decada, egli autorizza l’uomo a distruggerla in qualità di suo agente. Pertanto, io penso che propositi estremi d’aggressione ingiusti e maligni che puntino alla nostra esistenza stessa, costituiscano una perdita di diritto alla vita per il colpevole dell’aggressione” [14]. In questo modo, un’aggressione fuorilegge risulta in “una perdita dei diritti per l’assalitore colpevole” e Rahab, le levatrici e gli altri santi dell’antichità furono innocenti da infrazioni.

Le Scritture effettivamente parlano a lungo del fatto che mentire sia odioso a Dio (Pr. 6:16-19; 12:22; Le. 19:11; Cl. 3:9, ecc.). Di Satana è detto che è il padre della menzogna (Gv. 8:44; At. 5:3). Quelli che criticano Rahab e le levatrici (quanto Abrahamo, Isacco e altri) evitano di citare versi come 1 Re 22:22, 23, dove si dice che Dio pone uno spirito di menzogna in bocca ai falsi profeti per ingannare un falso re. Il motivo è che milita contro il loro assolutismo. E questo è il nocciolo della questione. Assolutizzeremo, in stile platonico, il dire la verità come fosse una parola, un’idea, o un universale al di sopra di Dio, o Dio solo è assoluto? Assolutizzare il dire la verità è rendere assurde le Scritture perché Dio solo, nel suo potere sovrano, è assoluto. Dire la verità è sempre in relazione a e nei termini del Dio assoluto e la sua legge. L’uomo ha l’obbligo di parlare il vero in tutte le circostanze morali, ma non può permettere che un malvagio sia agevolato a rubare, uccidere o stuprare perché gli ha detto la verità, la verità deve sempre fare riferimento ad un Dio assoluto piuttosto che ad un’idea assoluta.

Il Catechismo Minore di Westminster, con le risposte alle domande 77 e 78 ci porta al cuore della questione:

D. 77. Cosa ci richiede il nono comandamento?

R. Il nono comandamento ci richiede di attestare sempre la verità e di promuoverla nelle relazioni interpersonali, come anche la buona reputazione nostra e degli altri, specialmente quando siamo chiamati a rendere la nostra testimonianza.

D. 78. Cosa ci proibisce il nono comandamento?

R. Il nono comandamento proibisce ogni cosa che nuoce alla verità ed è ingiurioso alla buona reputazione nostra e degli altri.

Se questa legge non ci permette di nuocere “la buona reputazione del nostro prossimo” quanto meno ancora ci sarà consentito di aiutare uomini malvagi a rubare la sua proprietà, violentare la sua donna, e ucciderlo? Dire la verità in tali circostanze non è una virtù ma codardia morale.

Il concetto di dire la verità implicito nei critici di Rahab, delle levatrici e di Abrahamo, Isacco ed altri è in relazione a una dottrina pagana della santificazione. Nel paganesimo, la perfezione dell’individuo autonomamente ottenuta è l’ideale religioso e lo scopo della santificazione. L’individuo perfetto è il suo scopo ultimo. L’obbiettivo raggiunto, che sia dai Sufi o da Buddha non fa riferimento a Dio e al suo ordine-giuridico e, molto spesso poco riferimento anche agli altri uomini. L’io è il mondo della santità pagana, e la perfezione dell’io l’obbiettivo. Il risultato è un concetto di santità e di dire la verità che sono astratti, ovvero astratti dalla realtà di Dio e dalla sua legge e dalla realtà di un mondo in guerra. Un moralismo astratto, non- cristiano può pertanto dichiarare che sia santo dire la verità ai nemici e con ciò portare all’uccisione di amici, vicini, o persone care, perché la sola questione è la purezza astratta dell’anima. Tale dottrina è chiaramente non- cristiana.

Note:

1 R. J. Rushdoony: Intellectual Schizophrenia, Culture, Crisis and Education; Philadelphia: Presbyterian and Reformed Publishing Company, 1961, 1966, 1971, p. 79 s.

2 John Murray: Principles of Conduct; Grand Rapids: Eerdmans, 1957, p. 123.

3 Ibid., p. 124.
4 Ibid., p. 125.
5 Ibid., p. 146.

6 Ibid., p. 138.
7 Ibid., p. 131 s.
8 Sant’Agostino: De Mendaco, 7, in Nicene and Post-Nicene Fathers, Prima Serie, III, 460.

9 Ibid., p. 476.

10  Ibid., p. 477.

11  Calvin: Commentaries on the Last Four Books of Moses, I, 34 s.

12  Charles Hodge: Systematic Theology; New York: Charles Scribner’s Sons, 1891, III, 440.

13  J. Edgar Park, “Exodous” Interpreter’s Bible, I, 856.

14  Robert L. Dabney: Syllabus and Notes of the Course of Systematic and Polemic Theology; Richmond, Virginia: Presbyterian Commettee on Publication, 1871, 1890, p. 425 s.


Altri Libri che potrebbero interessarti