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Liberazione dall’Egitto

36: Io sono Colui che sono

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Esodo 1-4

Proprio fin dal principio, il libro di Esodo ci presenta circostanze diverse da quelle di Genesi. Esodo ci da la storia non di una famiglia ma di un popolo. La transizione viene fatta proprio nei primo versi di Esodo.

Il popolo d’Israele sarebbe dovuto entrare nel patto di Dio come popolo. Il libro di Esodo intende condurci a questo fine sin dall’inizio. L’istituzione del patto al Sinai è il reale contenuto di questo libro.

Di conseguenza, dobbiamo guardarci dall’enfatizzare eccessivamente la liberazione del popolo dall’Egitto. Questa liberazione fu solo un mezzo per raggiungere lo scopo: stabilire il patto. In un senso spirituale, il patto viene prima; la liberazione dall’Egitto deve essere vista come derivare dal patto. Anche qui vale la Parola del Signore: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e queste cose vi saranno sopraggiunte” (Mt. 6:33).

Quando il Signore chiese a Faraone di lasciar andare Israele un viaggio di tre giorni nel deserto per fare sacrifici a Lui, non stava facendo una richiesta ingiusta. Tali sacrifici al Signore avrebbero dimostrato che Israele era un popolo libero, ma il fatto decisivo, ovviamente era che Israele era il popolo di Dio — non il popolo di Faraone. “Israele è mio figlio, il mio primogenito”. Faraone e l’Egitto erano stati chiamati ad essere i preservatori di Israele, ma solo temporaneamente. Ora Faraone avrebbe dovuto decidere se riconoscere che Israele era il popolo di Dio.

In questi capitoli di Esodo, il Signore incontra il suo popolo parlando a Mosè. Poiché il Signore scelse di parlare a lui, Mosè fu chiamato ad essere il capo del popolo. Gli anziani avrebbero dovuto dire a Faraone: “L’Eterno, il Dio degli Ebrei ci è venuto incontro”. Pertanto la chiamata di Mosè non fu inizialmente una chiamata a condurre Israele fuori dall’Egitto. Mosè doveva essere un mediatore tra Dio e il popolo in modo che il Signore potesse incontrare il popolo per mezzo di lui.

Il Signore aveva trattato con la famiglia patriarcale mediante il patriarca stesso o mediante uno dei membri della sua famiglia. Ora che c’era un popolo pattizio, qualcuno avrebbe dovuto servire come capo di quel popolo. Questo sviluppo è una chiara prefigurazione del Cristo. Così, è curioso anche che il Signore faccia qui riferimento ad Aaronne come “il Levita” che è una chiara indicazione della futura chiamata della casa di Levi a servire come mediatore. Non dobbiamo trascurare il fatto che insieme a Mosè ci fosse il sommo sacerdote il quale rimaneva il rappresentante spirituale del popolo davanti a Dio quando il loro governante terreno se ne fosse andato.

In aggiunta al bisogno per un capo del popolo, c’è un’altra rivelazione nei primi capitoli di Esodo, ovvero la necessità di espiazione che è presentata un po’ più avanti con l’istituzione del culto sacrificale. Anche questo è una chiara prefigurazione del Cristo. La necessità dell’espiazione influenzò anche la storia correlata nei primi capitoli di Esodo. Per certo, alcune indicazioni della necessità dell’espiazione erano già state date ai patriarchi, per esempio nell’istituzione della circoncisione. Gli olocausti non erano ancora distinti dai sacrifici per il peccato, come lo furono poi nelle leggi date al Sinai. E l’elemento della espiazione nel rito della circoncisione viene fortemente alla ribalta nella minaccia alla vita di Mosè che portò Sefora a circoncidere suo figlio.

Questo elemento inoltre domina la prima parte di questo libro della bibbia. L’oppressione di Israele in Egitto non deve essere vista prima di tutto come persecuzione da parte di Faraone. Se Faraone fosse stato l’ostacolo maggiore non saremmo capaci di spiegare la visione del pruno ardente nel quale Dio inequivocabilmente mostrò che il suo zelo e la sua giustizia accendevano il fuoco della purificazione fra il popolo, e che era solo per grazia che non ne erano consumati. La persecuzione in Egitto doveva insegnare a Israele che era un popolo sotto sentenza di morte.  Per mezzo della loro miracolosa crescita numerica perfino durante il tempo di oppressione gli Israeliti dovevano imparare che il miracolo della grazia dà vita. Nel raccontare ai fanciulli questa oppressione dobbiamo dirigere la loro attenzione non a Faraone prima di tutto ma al Signore.

Contro questo retroterra, il significato del nome Yahweh diventa chiaro: “Io sono colui che sono”. Ciò che questa espressione trasmette, prima di tutto, è che Dio è se stesso, governato da nulla al di fuori di se stesso, e che sceglie il suo popolo per grazia sovrana anche se essi meritano la morte. Il nome indica inoltre che Dio rimarrà lo stesso lungo tutta l’eternità perché non può mai essere sopraffatto da qualche cosa esterna a sé, che è fedele nel suo patto, e che la sua grazia non è sopraffatta dai peccati del popolo. Questo nome è ora pienamente fatto conoscere. Dio ha eletto il suo popolo nel Mediatore, e per amore del Mediatore concede ad quelli che appartengono al suo popolo il perdono dei loro peccati.

Che l’istituzione del patto sia l’obbiettivo fin dall’inizio del libro di Esodo è evidente dall’incontro del Signore con Mosè sul Monte Horeb. Il Signore da un segno a Mosè: dopo la liberazione dall’Egitto, il popolo avrebbe servito il Signore proprio presso quella montagna. Ciò che i patriarchi e Giuseppe videro nelle loro visioni profetiche fu principalmente l’esodo — e non l’istituzione del patto. Tuttavia è il secondo evento a dominare la storia della liberazione di Israele dall’Egitto. Il libro di Esodo ci aiuta a comprendere il reale scopo di questa liberazione.

          Concetto principale. Il Signore incontra il suo popolo nel Mediatore.

          Nella fornace ardente dell’Egitto. Durante la vita di Giuseppe e negli anni immediatamente successivi la sua morte, il popolo d’Israele si moltiplicò grandemente. Il loro numero crebbe continuamente ed era ovvio che la benedizione del Signore era su di loro.

Infatti, gli Israeliti erano il popolo che possedeva la promessa: Dio voleva essere il loro Dio. Tuttavia, gli Israeliti erano peccatori quanto ogni altra nazione.  Potevano continuare ad esistere e a vivere in patto con lui solo per la grazia del Signore. Ma prima di prendere l’intera nazione sotto il suo patto il Signore volle che gli Israeliti comprendessero che meritavano la morte a causa dei loro peccati e che rimanevano in vita solo a motivo della sua grazia. Per realizzarlo il Signore fece venire su di loro l’oppressione degli Egiziani.

Faraone temeva la crescita del popolo e pensò di poter usare la crudele oppressione per fermarli dal moltiplicarsi. Non funzionò. Avvenne invece un miracolo: più erano oppressi e più crescevano di numero. Questo miracolo mise la paura nel cuore degli Egiziani i quali cominciarono a temere gli Israeliti (Es. 1:12). Ciò nonostante continuarono a perseguitare gli Israeliti e pertanto si misero contro Dio. Faraone comandò perfino alle levatrici di uccidere alla nascita i figli maschi degli Israeliti. Ma le levatrici non obbedirono gli ordini di Faraone e Dio le benedì per questo. Il loro comportamento era un’indicazione che Dio era dalla parte di Israele. Infine Faraone decretò che tutti i figli maschi degli Israeliti fossero gettai nel Nilo appena nati. Se gli Israeliti avessero avuto solo figlie avrebbero dovuto sposarsi con gli Egiziani e si sarebbero quindi mescolati.

Da un lato, Dio era contro il popolo d’Israele, infatti, l’oppressione di Faraone era opera sua. Dio stava semplicemente usando Faraone come suo strumento. Eppure rimane il fatto che Faraone sferrò l’oppressione contro Israele per odio, anche se Dio intese che fosse per loro una benedizione. Pertanto Faraone era comunque colpevole.

Dall’altro lato, Dio stava favorendo il suo popolo e lo stava benedicendo. In questo periodo di prova e di oppressione la gente dovette imparare che avevano guadagnato la morte e che era loro concesso di continuare a vivere solo a motivo della misericordia di Dio. L’intero popolo d’Israele tipizzò il Signore Gesù Cristo il quale fu caricato dei nostri peccati e morì per ripristinarci al favore di Dio. Nello stesso modo noi dobbiamo morire al peccato per vivere nella grazia di Dio.

          La preparazione del mediatore. Dopo che Faraone aveva dato l’ordine che tutti i neonati Israeliti maschi fossero gettati nel Nilo, ad Amram e Jokebed nacque un figlio maschio come terzogenito. Questo bambino era eccezionalmente bello. Non riuscirono a mettersi il cuore in pace che fosse nato solo per morire poco dopo. Perciò, in fede, sua madre lo nascose per tre mesi. E quando non potè più nasconderlo lo pose astutamente in un cesto di giunchi e lo lasciò andare alla deriva sul Nilo in una zona ove la figlia del Faraone veniva spesso a bagnarsi.

Proprio come Jokebed sperava la figlia del Faraone trovò il bambino e decise di tenerlo. Jokebed fu perfino assunta per allattare il bambino e allevarlo per la figlia del Faraone. La figlia del re gli mise nome Mosè, che significa tratto dall’acqua. Una volta che fu cresciuto lo adottò come figlio.

Colui che Dio aveva scelto come mediatore per il suo popolo fu minacciato di morte fin dal giorno della sua nascita. In questo aspetto fu un tipo del nostro Mediatore Gesù Cristo la cui vita fu minacciata fin dal principio a motivo dei nostri peccati.

Il quel bambino Dio aveva provveduto il futuro capo di Israele. Se il popolo d’Israele doveva vivere in patto col Signore avrebbe avuto bisogno di un capo che lo rappresentasse davanti a Dio. Il nostro Capo è il Signore Gesù Cristo, che fu anche il vero Capo del popolo d’Israele. Mosè fu solo un tipo del Cristo.

A corte di Faraone, Mosè fu istruito in tutta la sapienza degli Egiziani. Eppure quella educazione non inclinò il suo cuore verso l’Egitto. Continuò a considerarsi un membro di Israele e sentì l’impulso di impugnare la causa del suo popolo oppresso.

Un giorno, quando aveva circa 40 anni, Mosè uccise un egiziano che aveva picchiato un ebreo. Il giorno seguente cercò di separare due ebrei che stavano litigando. L’azione di Mosè rivelò l’impulso dello Spirito di Dio che lo legava ad Israele e gli aveva fatto impugnare la causa del proprio popolo. Ma se Mosè sperava di rappresentare quel popolo davanti a Dio e di essere il rappresentante di Dio per quel popolo avrebbe dovuto attendere il tempo deciso da Dio. Una persona che detiene tale posizione riuscirà a fare qualcosa solo se segue la chiamata di Dio.

Fino a quel momento le azioni di Mosè erano state motivate interamente in modo autonomo. Perciò non si trattenne nemmeno dal commettere omicidio. I mezzi che aveva scelto erano empi. Quando scoprì che la gente sapeva dell’omicidio che aveva commesso e che Faraone stava cercando di ucciderlo fuggì dall’Egitto. Rinunciò alla sua posizione privilegiata a corte perché era legato al suo popolo. Così il suo viaggio fu intrapreso in fede.

Mosè fuggì nella terra di Midian e si ritrovò nella casa di Reuel o Jethro, un sacerdote che probabilmente viveva nella penisola del Sinai. Questa penisola confinava con l’Egitto e si estendeva solo un po’ oltre il Monte Sinai o Horeb. Lì pascolò le pecore di Jethro e Jethro gli diede in moglie sua figlia Sefora.

Durante i suoi anni nella penisola del Sinai Mosè imparò ad aspettare. L’impulso di impugnare la causa del suo popolo era ancora molto vivo in lui ma lui era molto lontano da loro. Lì soffrì di nostalgia, cosa che è evidente dal nome con cui chiamò il suo primo figlio: Gershom, dicendo: “Io sono forestiero in terra straniera”. Siccome aspettò e aspettò senza che ci fosse soluzione in vista, il suo affidamento su se stesso fu spezzato. Mosè imparò ad arrendersi a Dio, che era il solo modo in cui avrebbe potuto diventare un mediatore per il suo popolo e un tipo del Signore Gesù Cristo.

          Chiamato dal Signore. Dopo lungo tempo Dio si ricordò del suo popolo e misericordiosamente si volse verso gli Israeliti per amore del patto che aveva fatto con i patriarchi. Sentì che ormai c’era stata abbastanza oppressione. Adottò il popolo d’Israele nel senso che volle che Israele, come nazione, imparasse del suo patto. Perciò volle che Israele come popolo sperimentasse il suo favore.

Per il Signore era giunto il tempo di chiamare Mosè per guidare il popolo. Un giorno, mentre Mosè era col gregge sul Monte Horeb, il Signore gli apparve in un roveto ardente. Il roveto era in fiamme ma non ne veniva consumato. Quando Mosè si avvicinò per osservare meglio questa scena eccezionale, Dio gli disse che era disceso per liberare il suo popolo. Dio ora desiderava dimorare in mezzo al suo popolo col suo speciale favore e Mosè avrebbe dovuto condurre il popolo fuori dall’Egitto.

Più tardi Mosè avrebbe capito il significato del pruno ardente. Dio col suo zelo e la sua giustizia, era in mezzo al suo popolo durante il tempo dell’oppressione in Egitto. Tuttavia, a motivo della sua grazia, Israele non fu consumato.

Ora Mosè era diventato una persona diversa. Non si sentì degno di stare davanti a quel popolo al servizio di Dio. Perciò Dio promise a Mosè che sarebbe andato con lui. Per mostrare a Mosè quant’era sicuro che l’obbiettivo sarebbe stato raggiunto, Dio dichiarò che il popolo lo avrebbe servito proprio in quello stesso luogo.

Né il popolo né la loro liberazione fu la cosa principale in questa rivelazione. Più importante di tutto era il nome del Signore. Che il popolo avrebbe invocato al Monte Horeb. Per amore del nome del Signore la loro liberazione era certa. Per questa ragione, la predizione che il popolo avrebbe adorato Dio sul Monte Sinai sarebbe stata un segno per Mosè.

Allora Mosè chiese al Signore con quale nome avrebbe dovuto annunciare Dio al popolo. Percepì che stava per giungere una nuova rivelazione del Signore e si chiedeva come sarebbe stata. Il Signore rispose dicendo il suo nome a Mosè: Yahweh, ovvero “Io sono colui che sono”, o “sono quello che sono”. Ciò che Dio stava ora rivelando era che avrebbe permesso che il popolo d’Israele vivesse in patto con lui per la sua grazia sovrana, e che la sua grazia non sarebbe mai stata sopraffatta dal peccato del popolo. Così gli Israeliti avrebbero imparato a conoscerlo lungo le loro generazioni. Dio disse inoltre a Mosè che Faraone avrebbe rifiutato di lasciar andare i popolo, che Dio avrebbe operato miracoli in Egitto, e che alla fine il popolo sarebbe stato libero d’andarsene, carico dei tesori d’Egitto.

Ma come poteva Mosè aspettarsi che il popolo gli credesse? Ormai Mosè aveva compreso che Dio stesso avrebbe dovuto preparare un posto per lui e per il suo messaggio nel cuore della gente. E che il Signore intendeva farlo. Non solo aveva dato al popolo il mediatore, aveva anche dato il popolo al mediatore. Nella stessa maniera, il Signore vuole preparare  nei nostri cuori un posto per Cristo il nostro Mediatore, e vuole dare noi a Lui.

Il Signore diede a Mosè tre segni mediante i quali poteva dimostrare la sua chiamata. Mosè era il Mediatore. Perciò sarebbe stato capace di cambiare il suo bastone in un pericoloso serpente e poi cambiarlo di nuovo in bastone come strumento di benedizione. Poteva far venire malattia e maledizione, ma poteva anche fare in modo che la maledizione lasciasse il posto a benedizione e vita. L’acqua del fiume Nilo, che in Egitto era adorato come un Dio, poteva essere cambiata da Mosè in sangue, cosa che avrebbe fatto perire l’Egitto con tutti i suoi idoli. Mediante questi segni il popolo avrebbe capito per fede che la grazia di Dio era con Mosè il mediatore.

Mosè interrogò ulteriormente il Signore circa la propria chiamata. Sottolineò che non era eloquente ma lento a parlare. Come avrebbe dunque potuto essere il profeta del Signore al popolo e a Faraone? Il Signore rispose promettendo a Mosè di insegnargli cosa dire.

Fino a quel momento, Mosè aveva accettato la chiamata con cui il Signore era venuto a lui. Le sue domande riguardavano la posizione del Signore verso il popolo in quella chiamata. Ma quando venne il momento di dichiarare la propria disponibilità e dire: “Sono pronto”, Mosè si tirò indietro e chiese al Signore che mandasse qualcun altro. Allora il Signore si adirò e semplicemente comandò a Mosè di procedere.

Mosè divenne il mediatore, dunque, perché il Signore stesso fece in modo che fosse pronto e disponibile. Per incontrarlo a metà strada, Dio promise a Mosè che Aronne avrebbe parlato per lui. Ma ciò era la fine della questione. Il Signore disse: “Prendi il bastone e va!”. Per Mosè il bastone avrebbe significato la presenza di Dio.

Non dovrebbe chiunque tirarsi indietro dall’essere un mediatore tra Dio e il suo popolo? Nessuno è adatto ad assumere tale responsabilità. Solo il Signore Gesù Cristo fu in grado di calarsi in quel ruolo. Ma per mezzo dello Spirito di Cristo, Mosè era lungi dall’essere impotente. Quel bastone su cui si appoggiava era per lui un segno che Dio sarebbe stato con lui per mezzo dello Spirito di Cristo.

          Il ritorno di Mosè come capo del suo popolo. Allora Mosè andò da suo suocero e gli chiese il permesso di tornare in Egitto a raggiungere i suoi consanguinei. A quanto pare non gli fece menzione della sua chiamata; quello era qualcosa che Jethro non avrebbe ancora capito. Jethro lasciò partire Mosè.

Inoltre il Signore rassicurò Mosè dicendogli che il Faraone che un tempo aveva cercato d’ucciderlo era morto. A dorso d’asino e portando con sé sua moglie e le cose che possedeva, Mosè si diresse verso l’Egitto. In mano teneva il bastone che simboleggiava la presenza di Dio.

All’inizio di questo viaggio, il Signore disse a Mosè che avrebbe dovuto chiedere a Faraone di lasciar andare il popolo d’Israele in modo che potesse servire il Signore. Ma faraone avrebbe indurito il suo cuore e avrebbe rifiutato. Allora Mosè avrebbe dovuto dirgli che Israele era il primogenito di Dio. Era vero che tutti i popoli erano proprietà di Dio e che a tempo debito sarebbero stati adottati da Lui come suoi figli, ma a quel tempo Israele era ancora il solo popolo che Dio aveva adottato.

Se Faraone avesse scelto di trattenere da Dio questo suo figlio più vecchio e avesse rifiutato di permettere al popolo di Dio di servire il Signore secondo la sua volontà, Dio avrebbe ucciso il primogenito di Faraone. Questo avrebbe fatto sì che Faraone si rendesse conto di ciò che stava facendo negando al Signore il suo figlio. Faraone avrebbe imparato nel modo peggiore quanto Dio amasse il suo popolo.

Era strano che il Signore sollevasse questa questione del suo amore per il suo popolo all’inizio del viaggio di Mosè verso l’Egitto. La circoncisione era un modo di indicare che un certo popolo apparteneva a Dio. Mediante quel rito della circoncisione, il popolo di Dio portava il segno del suo patto. Tuttavia il secondo figlio di Mosè non era stato circonciso! Con ogni probabilità Mosè aveva circonciso il suo primo figlio contro la volontà di Sefora ma aveva perso lo scontro quando era nato il secondo.

Pertanto la famiglia stessa di Mosè, nel suo insieme, non portava il segno di appartenenza al Signore benché Mosè fosse stato chiamato ad essere capo del popolo. Quando il Signore sollevò questa questione Mosè deve essersi sentito oppresso. Il Signore venne a lui nel luogo ove si era fermato per la notte e cercò di prendere la sua vita, forse a motivo di questo sentimento. Dio può prendere la vita di qualsiasi uomo che non rispetti il segno del suo patto, che non si assicura che i suoi figli portino il segno di essere nascosti al sicuro col Signore nel suo patto, a qualsiasi costo. Quanto spesso oggi gli uomini trattano con leggerezza il segno del battesimo!

Dopo questi eventi, Sefora circoncise il suo secondo figlio con una selce affilata. Allora il pericolo che minacciava la vita di Mosè scomparve. Ma questo non conquistò Sefora al patto e al segno del patto perché accusò Mosè di esserle un marito di sangue. Lei lo aveva ricevuto indietro, come un tempo lo aveva ricevuto quando si erano sposati — ma solo mediante la cruenta operazione della circoncisione. Quanto poco capiva Sefora di quello che diceva!

Mediante questa circoncisione di suo figlio, Mosè non solo era stato restituito a sua moglie ma fu anche dato al suo popolo perché fosse il loro capo. Nello stesso modo, il Signore Gesù Cristo ci è stato dato per essere il nostro capo. Anche questo avvenne mediante lo spargimento di sangue, ma nel caso di Cristo fu sparso il sangue stesso del Mediatore. Pertanto Cristo è per noi uno sposo di sangue.

A quanto pare, dopo questo evento, Mosè rimandò a casa sua moglie. Avrebbe dovuto dirle del patto di Dio e della sua chiamata come capo del popolo. E a quel tempo Sefora non era in grado di condividere la sua vita in quella chiamata. Più tardi, dopo l’esodo dall’Egitto, ella lo raggiunse di nuovo (Es. 18:1-9).

Mosè proseguì per la sua strada da solo. Al Monte Horeb lo raggiunse suo fratello Aaronne, infatti il Signore si era rivelato anche a lui dicendogli di andare incontro a Mosè. Per divina istruzione, Aaronne poteva già riconoscere la chiamata di Mosè.

Insieme tornarono in Egitto e parlarono con gli anziani d’Israele. Mosè mostrò agli anziani i segni che il Signore gli aveva detto di usare. Il Signore aprì il cuore di quegli anziani a ricevere la sua Parola che venne a loro per mezzo di Mosè. Mosè fu dato al popolo come suo capo, e il popolo fu a sua volta dato a Mosè dal Signore. Ricevettero Mosè in questa luce e credettero che Dio stava visitando il suo popolo per liberarlo dall’oppressione.

A quel tempo, la loro convinzione era solo un credere nella liberazione che il Signore avrebbe dato per mezzo di Mosè. Perciò, quando giunse l’afflizione, la loro fede fu scossa severamente. Ma il primo legame tra il popolo e Mosè suo capo era stato stabilito. Quel legame esistette a motivo della Parola stessa del Signore parlata da Mosè.

Nello stesso modo, Dio ci ha dato il Signore Gesù Cristo come nostro Capo, ma anche noi dobbiamo essere dati a Lui. Dobbiamo accettarlo sulla Parola di Dio come nostro Capo e  Redentore.


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