INDICE:

20. Il coinvolgimento del Signore
      nella sofferenza umana

Giobbe 2-39

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È risaputo che i tre amici di Giobbe cercarono la causa della sua sofferenza in peccati specifici che avesse commesso. Tutto ciò che dissero punta in quella direzione.

Le loro parole irritarono grandemente Giobbe perché non sapeva cosa rispondere. Tutto quello che potè fare fu negare quei peccati specifici, concordando in generale che il peccato è presente nella vita umana, inclusa la sua: “Chi può trarre una cosa pura da una impura?” (14:4). Siccome non c’erano gravi peccati specifici da indicare, la ragione della sua sofferenza doveva risiedere altrove. Ma dove?

Più Giobbe veniva portato dai ragionamenti dei suoi amici a negare tali peccati più era tormentato dall’inevitabile domanda: Perché dunque questa sofferenza? Fuori di sé a causa dei loro argomenti arrivò al punto di negare che ci fosse qualche giustizia in Dio: “Egli distrugge l’integro e il malvagio” (9:22).

D’altro lato il suo cuore continuava ad aggrapparsi alla giustizia di Dio. Voleva comparire davanti al tribunale di Dio e difendersi perché era consapevole che Dio lo avrebbe trattato con giustizia e non semplicemente secondo la sua potenza.

Benché fosse indubbiamente buona cosa che Giobbe insistesse sulla giustizia di Dio, c’era in lui un atteggiamento di sfida, un arrogante assunto che Dio dovesse rendere conto delle proprie azioni. Qui Giobbe rivelò la sua ignoranza del patto: nel patto Dio può essere per noi e contro di noi allo stesso tempo. È per noi e ci tiene per amore di Cristo. Dall’altro lato, quando la sua divina volontà lo desidera, può dirigere l’attenzione alla bruttura dei nostri peccati. In quel senso, può essere contro di noi. Non che qualche specifico peccato faccia sì che si volga contro di noi. Egli può rivelare la nostra natura peccaminosa semplicemente per darci una più profonda conoscenza di noi stessi ed esaltare in noi il suo onore. Così, quando è contro di noi è allo stesso tempo per noi.

Elihu, il quarto amico di Giobbe tocca un tasto diverso. Non parla di  sofferenza come punizione ma la chiama castigo per la nostra purificazione e sottolinea che dobbiamo soffrire per capire chi siamo.

È degno di nota che Elihu menzioni l’Angelo dell’Eterno (33:23-24). Evidentemente l’Angelo dell’Eterno era conosciuto all’uomo prima del tempo di Abrahamo: Gesù Cristo si era già rivelato alle nazioni. Elihu osserva che l’Angelo dell’Eterno può parlare di riconciliazione ovvero di espiazione. Prende il posto dell’uomo. Abbiamo qui un’indicazione che il patto implica un Mediatore.

Infine il Signore, il Dio pattizio, risponde a Giobbe dalla tempesta. La nostra prima impressione della sua Parola è che il Signore non riveli di sé nulla di nuovo, niente che Giobbe non abbia già detto in principio. Giobbe stesso aveva riconosciuto la maestà di Dio nelle opere delle sue mani. E allora che c’è di nuovo in questa rivelazione?

Quando Giobbe parlava metteva al centro se stesso, Giobbe era l’asse attorno a cui girava tutto. Su quella base era disposto a riconoscere la maestà del Signore. Ma quando Dio cominciò a parlare la cose cambiarono. Giobbe fu abbassato. Era come se Giobbe avesse detto: “Qui c’è Giobbe e chi è Dio?” Ora divenne: “Qui c’è Dio che è eternamente fedele e chi è Giobbe?” Per produrre il cambiamento Dio indicò la sua grande potenza nella natura, in particolare nel mondo animale.

Un tema fondamentale nelle parole del Signore è il suo coinvolgimento nella sofferenza di Giobbe. Quando Dio parla, riconosce come proprio questo mondo con tutta la sua disperazione e sofferenza. Egli aveva preso questo mondo, con tutto il suo peccato e la sua sofferenza dentro al suo patto di grazia. Perciò continua ad accettare questo mondo ogni giorno, completo con le opere di satana, come abbiamo visto nel capitolo precedente. 

In Cristo, il Capo, che fu egli stesso reso perfetto mediante la sofferenza (Eb. 2:10), Dio ristabilisce questo mondo nel patto di grazia. Cristo è il Crocefisso, e ancora siede sul suo trono come l’agnello che fu ucciso. In questa dispensazione del patto di grazia, il mondo porterà sempre il marchio della croce.

Dio vuole santificare il mondo mediante la sofferenza. Attraverso quella sofferenza e santificazione, però, il mondo sarà completamente rinnovato e diventerà di nuovo perfetto. Coloro i quali appartengono al Signore sono ben consapevoli di questo piano della grazia di Dio perché è stato loro rivelato nella sofferenza centrale di Cristo sulla croce. In questo modo i credenti lo possono trovare anche nella loro sofferenza.

          Concetto principale: Il Signore è contro di noi nella sofferenza,
ma allo
 stesso tempo è per noi nel Cristo.

          Ondeggiamento interiore.  Di nuovo gli angeli e satana vennero a presentarsi davanti al Signore, e di nuovo il Signore chiese a satana dove fosse stato come fosse un estraneo. Quando satana diede la medesima risposta di prima, il Signore richiamò nuovamente la sua attenzione su Giobbe, che ancora serviva il Signore con rettitudine malgrado Egli si fosse volto contro di lui in risposta alla sfida di satana.

Satana fece ora al Signore la sua richiesta definitiva. “Ma se tu attacchi la sua pelle e ti prendi la sua buona salute vedrai che romperà con te”. Il Signore decise di sottoporre Giobbe anche a questa prova nella speranza di rivelare la gloria della sua opera in Giobbe. Giobbe diventò dunque una vittima? No, perché il risultato fu la santificazione di Giobbe nel servizio del Signore. Giobbe divenne un esempio per tutto il popolo di Dio.

Dio mise Giobbe nelle mani di satana ma gli comandò di non togliergli la vita. Allora satana colpì Giobbe con la peggior forma di lebbra. Molto presto Giobbe si trovò seduto su un mucchio di cenere ad usare un coccio per grattarsi.

Anche la moglie di Giobbe aveva sofferto. Anche lei aveva perso tutti i suoi figli. Ma siccome nel suo cuore non era legata al Signore la sua sofferenza non era la stessa di Giobbe. Il dolore interiore di Giobbe era molto più intenso, infatti la sua malattia e la perdita dei suoi figli e delle sue ricchezze erano solo parte della sua sofferenza.

In passato Giobbe aveva assunto in fede che la sua prosperità fosse un segno del favore di Dio. Ma cosa avrebbe dovuto pensare del Signore ora che tutto gli era stato portato via? Non capiva come il Signore, che sicuramente lo amava, avesse potuto permettere che gli accadesse tutto questo.

Sua moglie si beffava di lui perché continuava a fidarsi del Signore. Lo provocò dicendo: “Rompi con Dio, anche se significa la tua morte” Ma in Giobbe tutto si ribellava contro quel suggerimento. In amore nato dalla fede si prostrò davanti al Signore e disse: “Se abbiamo ricevuto il bene da Dio perché non dovremmo ricevere anche il male? Dio non ha forse il diritto di trattarci secondo il suo beneplacito?”

Tuttavia, benché Giobbe si sia espresso in questo modo a parole e non abbia peccato con la sua bocca, nel suo cuore infuriava un uragano. La domanda non se ne voleva andare: “Perché Dio ha permesso che questo mi avvenisse? Non partecipo più nel suo amore? Mi ha voltato le spalle nella sua ira? Se è così, perché?”

Ribellione. Quando Elifaz, Bildad e Tsofar udirono ciò che il Signore aveva fatto al loro amico Giobbe vennero a offrirgli le loro condoglianze e a consolarlo. Ma dapprincipio quando lo videro non lo riconobbero nemmeno. La condizione di Giobbe li lasciò ammutoliti e sconcertati: per sette giorni e sette notti stettero seduti accanto a lui senza dire una sola parola.

Il loro silenzio disse a Giobbe che non solo non riuscivano ad esprimere i loro sentimenti ma anche che lo consideravano maledetto. L’atteggiamento dei suoi amici non fece altro che confermare il sentimento che aveva: Dio era completamente contro di lui.

Infine Giobbe ruppe il silenzio dicendo che desiderava non essere mai nato. Arrivò al punto di maledire in giorno della sua nascita. Apparentemente Giobbe non poteva più fidarsi del Signore o credere che alla fine da tutto questo male sarebbe venuto del bene.

Perciò i suoi amici si sentirono obbligati a parlare. A turno si rivolsero a Giobbe ed egli rispose loro individualmente. Giobbe fu molto irritato da ciò che avevano detto perché non lo ammonirono secondo lo Spirito del Signore. Il loro ragionamento era questo: “Ogni uomo ha la felicità nelle proprie mani. Se vive una vita buona, Dio lo premierà, ma se fa il male Dio lo punirà”. In questo modo fecero dipendere il comportamento di Dio da quello dell’uomo. Per loro non è Dio a fare la prima mossa, abbracciando l’uomo nel suo favore e incoraggiandolo a credere. 

Giobbe si sentì ferire particolarmente quando essi argomentarono che “siccome Dio ti ha punito così severamente tu devi aver commesso qualche peccato particolarmente gravoso”. Bildad fu quello che provocò Giobbe più di tutti perché gli disse: “Tutti i tuoi figli sono morti. Devono essere stati terribili peccatori perché se c’è una cosa su cui puoi contare è che Dio è giusto”.

Questo ragionamento fece ribellare Giobbe contro Dio ancora di più. Non aveva soluzione e non conosceva risposta. Egli era un peccatore come ogni altro uomo, ma non aveva peccati di grande rilievo che si potessero indicare. Dio era veramente giusto? Raggiunse infine il punto in cui rifiutò di continuare a credere che Dio fosse giusto lamentandosi che Dio lo aveva trattato in maniera completamente arbitraria e non gli aveva dato la possibilità di difendersi.

La sua ribellione contro Dio divenne così forte che volle un mediatore tra sé e Dio. Fortunatamente le sue parole toccarono anche un’altra corda. Dal profondo gridò: “Io sono ancora un figlio di Dio, ma perché egli non mostra pietà di me, una creatura delle sue mani? Sicuramente Dio non mi ha abbandonato!” Era come se stesse implorando che l’amore di Dio appagasse l’ira di Dio. Non poteva credere che non ci fosse giustizia in Dio e continuava a dire: “Se solo mi potessi difendere! Ma Dio è così alto, così grande in maestà”. Riconosceva la maestà di Dio, quindi, ma non da un cuore ben disposto.

Lacerato dalla proprie sofferenze e tormentato dai suoi amici, Giobbe non poteva più aspettare in un’attitudine di fede, confidando che Dio avrebbe ancora fatto scaturire il bene da questo male. Giobbe non comprendeva che Dio nel suo patto può essere per noi e contro di noi allo stesso tempo. Dall’eternità ci ama in Cristo (e pertanto è per noi), ma può anche allontanarsi da noi per glorificare in noi il suo nome e santificarci. Non ha bisogno di peccati specifici da parte nostra come pretesto. Dio può opporsi a noi esaminando i nostri peccati e i peccati della nostra razza (nei quali partecipiamo) alla luce del suo volto.

Nella sua sofferenza, Giobbe non era più capace di aggrapparsi a Dio. Nessuno è stato capace di stare aggrappato al Signore nella profondità della sofferenza eccetto il Signore Gesù Cristo. Quando tutto fu contro di lui e fu completamente abbandonato da Dio non gli si ribellò contro. Mediante la sua potenza, farà vittoriosi anche quelli che gli appartengono.

          Il discorso di Elihu. Giobbe ricevette anche la visita di un quarto amico, Elihu. Siccome era molto più giovane degli altri tre stette zitto tutto il tempo che gli altri parlarono. Ma quando terminarono rivolse a Giobbe alcune parole.

Elihu non guardò alla situazione di Giobbe come gli altri tre. Infatti ebbe alcune cose incoraggianti da dire a Giobbe. Era consapevole che la sofferenza dei credenti non è una punizione o alcun tipo di ritorsione per qualche specifico peccato che hanno commesso. La considerava invece un castigo inteso a metterli alla prova e perfezionarli. L’Angelo dell’Eterno, che Elihu conosceva, si sarebbe assicurato che il credente non perisse nel suo soffrire perché un giorno avrebbe espiato i peccati dei credenti.

Elihu disse a Giobbe anche che avrebbe dovuto considerare le sue prove e sofferenze un incontro con Dio. Se siamo credenti, allora siamo effettivamente figli di Dio e lui ci ama. Ma non siamo degni di essere figli di Dio e noi cominciamo a rendercene conto quando Dio si volge contro di noi.

Non c’è dubbio che Giobbe ascoltò con attenzione quelle parole di Elihu. C’era in esse molto di vero e avrebbero potuto portare Giobbe più vicino alla soluzione dei suoi problemi. Sfortunatamente Giobbe era così  disperatamente infangato nella propria ribellione che le parole di Elihu non furono sufficienti a riportarlo di nuovo sulla giusta strada. Dio stesso avrebbe dovuto rivolgersi a lui.

È esattamente quello che Dio fece. Ma quando il Signore si rivolse a Giobbe, si stava rivolgendo anche a noi. Assicuriamoci di accettare questa come sua Parola!

          La risposta del Signore.  Il Signore infine parlò a Giobbe dalla tempesta. La risposta che Giobbe ricevette non fu quella che si aspettava. Giobbe voleva giustificarsi davanti a Dio e chiedergli perché gli avesse causato tutta quell’amara sofferenza. In effetti voleva chiamare Dio a rendere conto.

Dio fece vedere a Giobbe la sua maestà in quella tempesta. Anziché dare a Giobbe la possibilità di fare domande, il Signore cominciò a interrogare Giobbe: “Puoi tu comprendere la mia sapienza nell’intera creazione?” Poi Dio gli mostrò qualcosa della sua sapienza nella creazione, in particolare nel mondo animale.

Dio parlò della sua maestà. Proprio come Giobbe aveva fatto in precedenza, ma ora la situazione era completamente rovesciata. Giobbe era partito da se stesso come punto centrale e aveva poi proceduto a riconoscere la maestà di Dio. Non aveva veramente visto quella maestà né si era inchinato a Dio da un cuore disposto. Quando fu il turno di Dio di parlare, egli dichiarò. “Eccomi in tutta la mia maestà. Chi sei tu paragonato a me?”. Allora Giobbe fu abbassato e collocato nella cornice di pensiero adatta per ascoltare il Signore. Fintantoché diamo valore alla nostra sapienza le nostre orecchie non sono aperte al messaggio del Signore.

C’era molto che Giobbe avrebbe dovuto udire. Il Signore gli permise ora di comprendere che a motivo del patto egli era vincolato alla sua creazione con tutti i suoi enigmi e sofferenze. Malgrado tutto il peccato che c’è nel mondo e la miseria che ne proviene, Dio era ancora disposto a chiamare il mondo cosa sua. E perché il mondo era suo avrebbe sempre fatto in modo che dal male procedesse il bene.

A quel punto Giobbe disse: “Non ho più niente da dire”. Giobbe stette zitto e cominciò ad ascoltare. Questo è il modo in cui trovò Dio e il suo amore, perfino nella sua sofferenza.

Anche noi riconosciamo l’amore di Dio nella sofferenza più intensa che il mondo abbia conosciuto, ovvero la sofferenza del Cristo sulla croce. Dio lasciò soffrire Cristo perché espiasse i nostri peccati, per salvarci. Sicuramente dovremmo dunque riconoscere lo stesso amore di Dio in tutta la sofferenza che porta nella nostra vita. Possiamo trovare questo amore, comunque, se ascoltiamo la sua Parola in fede e ci prostriamo davanti a lui. La sua Parola è la Parola del suo amore per noi in Cristo.


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