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3: Mosso dalla sofferenza d’Israele

Giudici 10-12

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La chiave per comprendere le storie a cui ora rivolgiamo la nostra attenzione è Giudici 10:16, ove leggiamo che il Signore: “si addolorò per la sofferenza d’Israele”. A quanto pare la piena rivelazione della grazia di Dio nella liberazione operata per mezzo di Gedeone non aveva ricondotto Israele al Signore. Ma ora, sotto l’oppressione degli ammoniti a levante e dei Filistei a ponente, il popolo gridò al Signore. Benché avessero tolto di mezzo a loro gli dèi stranieri e servissero il Signore, la loro conversione non veniva completamente dal cuore. Di conseguenza il Signore disse che non li avrebbe più liberati. Che gridassero invece agli dèi che avevano scelto d’adorare.

Questa dichiarazione fatta dal Signore non significa che avesse ritirato il suo eterno favore per il suo popolo in Cristo. Ciò che significa è che non voleva che sperimentassero il suo favore in quel periodo. Non avrebbe dato loro la piena comunione pattizia. Si sarebbe invece tenuto a distanza.

Allo stesso tempo non volle essere spettatore della loro sofferenza senza fare nulla per alleviarla. Quando i nemici trionfavano su Israele, la sofferenza della nazione rattristava il Signore per amore del suo nome. Era ancora vincolato al suo popolo nella grazia in Cristo. Tuttavia non poteva in quel tempo darsi a loro. Si trattenne, proprio come a volte un padre mantiene una distanza da suo figlio, né interferendo né punendo nella speranza che alla fine il figlio si penta. E alla fine Israele si pentì per mezzo della guida spirituale e della riforma di Samuele.

Poiché Dio non si dava al suo popolo essi non potevano darsi a lui in fede. Nemmeno il giudice Jefte potè farlo. In effetti leggiamo che lo Spirito del Signore venne su Jefte. Lo Spirito aprì il suo cuore in modo tale che egli vide cosa il Signore voleva essere e poteva essere per il suo popolo (Vedi Ebrei 11:32-34).

Ciò che mancava in Jefte — come nel resto del popolo di Dio — era una continuata totale resa in fede alla misericordia del Signore. Ciò è evidente dal giuramento che fece.

Un giuramento può essere un segno di resa in fede. Facendo il giuramento uno accetta le promesse del Signore in fede. Fu in quello spirito che Giacobbe un tempo aveva fatto un giuramento. Ma quello non è il modo in cui Jefte considerava il giuramento che fece. Lo considerava invece una conquista da parte sua, una conquista con cui avrebbe ripagato il Signore per il suo favore verso di lui e verso il popolo. Di qui l’assurda promessa: “ciò che uscirà dalle porte di casa mia per venirmi incontro quando tornerò vittorioso dai figli di Ammon apparterrà all’Eterno, e io l’offrirò in olocausto”. Non sarebbe stata una questione di ciò che il Signore avrebbe scelto ma di ciò che il caso avrebbe deciso. Jefte non stava offrendo un sacrificio come un segno che consacrava la sua vita completamente al Signore; stava esprimendo la sua volontà di essere sottoposto alla sofferenza purché il Signore gli desse la vittoria.

Che questa fosse di fatto la sua attitudine è evidente dal suo dolore quando venne il momento di sacrificare la sua unica figlia. Non fu ripieno della gioia del vero sacrificio, un sacrificio in cui in realtà egli stesse dando se stesso. No, egli immaginava che il servizio del Signore richiedesse sofferenza e morte. Ma questa sofferenza lo colpì come troppo severa benché debba essere stato consapevole fin dal principio che qualche essere umano poteva dover essere sacrificato.

È chiaro che Jefte non conosceva cosa significhi riposare nella grazia di Dio il quale, mediante il sacrificio di Cristo, può essere per noi ogni cosa. Per Jefte doveva esserci un certo ammontare di sofferenza da offrire al Signore per ricambiare. Ci fa tornare in mente il giuramento di Ruben a Giacobbe: se Beniamino non fosse ritornato sano e salvo dall’Egitto, Giacobbe avrebbe potuto uccidere i suoi due figli (Ge. 42:37).

Pertanto il sacrificio di Jefte fu futile, superfluo. Per quanto concerne la questione di quale forma abbia preso il sacrificio, non credo che Jefte abbia effettivamente sacrificato sua figlia sull’altare e nemmeno destinata al servizio nel santuario. È più probabile che sia stata condannata ad una vita di solitudine e sterilità senza matrimonio o maternità o comunicazione con altri.

Per ambedue Jefte e sua figlia il sacrificio fu inutile. E Jefte non si preoccupò di chiedere la luce della Parola del Signore consultando il sommo sacerdote.

Questo episodio non si colloca nella luce della grazia di Dio in Cristo; si colloca nelle tenebre dell’ombra. Quando raccontiamo questa storia ai fanciulli dobbiamo perciò non dimenticarci di rammentare loro il sacrificio di Cristo come contrapposto al sacrificio fatto da Jefte.

Lungo tutto questo capitolo della storia d’Israele, il popolo esibì la stessa attitudine spirituale di Jefte. Infatti, fin dal principio avevano chiamato Jefte per la sua prestanza militare, non perché fosse stato designato dal Signore per essere il liberatore d’Israele. Jefte non si arrese incondizionatamente alla chiamata del Signore, rese invece il suo servizio condizionale al suo essere stabilito come capo del suo popolo. Voleva essere ripagato per il disprezzo che aveva sofferto in precedenza.

Anche la guerra civile tra Efraim e gli israeliti del Transgiordano mostra quanto poco il Signore fosse stato accreditato della vittoria. Jefte non fu capace di convincere Efraim su questo punto. Diversamente da Gedeone non riuscì a trovare parole per calmare la bufera.

          Concetto principale: Perfino durante un periodo di estraniamento, il  Signore
è mosso dalla sofferenza del suo popolo.

          Il Signore volta le spalle al suo popolo. Dopo il tempo di Abimelek, sorsero due giudici, Tola e Jair, a impedire che Israele si disintegrasse e fosse distrutto. Sono contati tra quelli che giudicarono Israele nel nome del Signore. Tuttavia non sappiamo nulla di ciò che fecero.

I giudici stavano diventando sempre più avidi di onori regali. Jair non fece eccezione. Ebbe 30 figli e cavalcava puledri d’asina. Fece sì che i suoi 30 figli avessero ciascuno una città propria.

Dopo la sua morte gli israeliti continuarono ad allontanarsi dal Signore e dal suo patto per adorare le forze della natura. Volevano onorare la creatura anziché il Creatore. Il Signore voleva dare loro il suo amore e la sua comunione ma essi rigettarono quella comunione. Impararono le vie dei canaaniti e degli altri popoli circonvicini e servirono le forze della natura usando i nomi dati loro da quei popoli. Era stata loro data la possibilità di diventare sempre più indipendenti in quanto popolo al quale il Signore aveva scelto di rivelarsi ma essi si abbassarono ad uno stato di completa dipendenza e di servile imitazione dei popoli pagani che li circondavano.

Poiché il popolo divenne estraniato dal Signore egli li lasciò cadere nelle mani degli ammoniti a oriente e dei filistei a occidente. Gli ammoniti in particolare li schiacciarono duramente. Conquistarono tutto il Transgiordano e addirittura attraversarono il Giordano a opprimere Efraim, Beniamino e Giuda.

Allora gli israeliti divennero terribilmente impauriti. La loro esistenza in Canaan era in ballo. In questa oppressione il Signore stava dimostrando che non aveva ancora mollato il suo popolo: volle farli ritornare a sé mediante il castigo. Però, siccome avevano abbandonato il patto, il Signore distolse la sua faccia da Israele.

Questo non cambiò quando il popolo gridò a lui nella sofferenza. Rimproverò il suo popolo per la loro mancanza di fede dopo che li aveva salvati così tante volte e disse che adesso avrebbero dovuto cercare aiuto dagli dèi che avevano scelto di servire.

Gli israeliti confessarono i loro peccati e continuarono a gridare al Signore. Fecero persino sparire gli dèi stranieri dal loro mezzo e ripristinarono il servizio al Signore. Tuttavia, poiché avevano disertato così persistentementeil Signore nei loro cuori, non ritornarono a lui veramente e la comunione non fu ripristinata. Il Signore non era disposto a tornare al suo popolo col suo pieno favore. Malgrado tutto, non poteva ignorare completamente le loro suppliche perché in Cristo erano ancora il suo popolo.  Poiché la loro sofferenza e il trionfo dei loro nemici lo rattristava voleva dare loro qualche sollievo. Avrebbe il popolo imparato la giustizia se avessero vissuto di nuovo in libertà? Nel futuro avrebbe mandato loro un profeta a guidarli nella riforma.

          Liberazione mediante divina compassione. Gli ammoniti radunarono un grande esercito per mettere ulteriore pressione a Israele. Anche gli abitanti di Galaad (in Transgiordano) misero insieme un esercito. Volevano affrontare gli ammoniti in una battaglia per la vita o per la morte. Da parte loro era un atto di disperazione. Tuttavia avvenne sotto la guida del Signore. Ma chi sarebbe stato il comandante nella battaglia?

A Galaad c’era un uomo di nome Galaad. Oltre ai suoi figli avuti nel matrimonio, ne aveva uno anche da una peccatrice straniera. Quel figlio fu chiamato Jefte. Egli fu bandito dai suoi mezzi fratelli e fuggì ai confini settentrionali di Galaad ove divenne il capo di una banda.  Intorno a lui si raccolsero uomini che per una ragione o un’altra erano degli sbandati. Divenne famoso come valente guerriero.

I pensieri degli anziani si rivolsero a Jefte e lo mandarono a chiamare con la promessa di farlo il loro governante se avesse vinto la battaglia. Jefte fece giurare espressamente gli anziani di Galaad su questo effetto. Alla presenza dell’esercito a Mitzpah, fu fatto un accordo solenne davanti al Signore. Jefte voleva quell’onore per lavare la vergogna che aveva sofferta per mano dei suoi mezzi fratelli.

Non si legge da nessuna parte che il Signore avesse designato Jefte a liberatore del suo popolo. Fu fatto chiamare perché era un potente guerriero. Jefte stesso non interpretò la richiesta del popolo come la chiamata del Signore che pretende la resa incondizionata. Ciò nonostante l’apparizione sulla scena di Jefte fu opera del Signore; era stato lui a scegliere Jefte perché fosse il liberatore del suo popolo. Spesso il Signore conduce il suo popolo sulla strada giusta mediante le loro incredule deliberazioni.

Le altre tribù rifiutarono di venire in aiuto alla chiamata di Jefte. Prima di unirsi agli uomini di Galaad in battaglia contro gli ammoniti egli cercò di convincere il re ammonita a ritirarsi. Quando il re rifiutò dicendo che gli israeliti avevano originariamente tolto la terra ai moabiti e agli ammoniti, Jefte replicò che la terra al tempo era appartenuta agli amorei e che Israele l’aveva tolta a loro. Per quella ragione, né Balak (il re moabita) né i suoi successori avevano mai disputato la rivendicazione territoriale di Israele. Ragionando ulteriormente su questa linea, Jefte disse: “Voi possederete tutto ciò che Chemosh il vostro Dio vi ha dato e noi ci terremo tutto ciò che il nostro Dio ci ha dato. Possa il Signore, che è giudice, decidere oggi tra il popolo d’Israele e il popolo di Ammon”.

Siccome gli ammoniti non gli diedero ascolto, lo Spirito del Signore venne su Jefte. Mediante quella potenza poteva diventare il liberatore d’Israele. Il Signore aprì il suo cuore talché credette nella potenza del Signore che avrebbe liberato Israele.

Fu dunque per fede che Jefte riuscì a liberare Israele. Tuttavia quella fede non liberò Jefte da tutte le nozioni errate riguardo al Signore e il suo servizio. Fece un giuramento al Signore che la prima persona che fosse uscita da casa sua per andargli incontro dopo la vittoria sarebbe stata bandita dalla società per vivere una vita di solitudine.

Malgrado le idee sbagliate di Jefte e l’incompletezza del pentimento del popolo, il Signore diede a Israele una completa vittoria per la fede che il suo Spirito aveva suscitato. Come risultato, Ammon fu reso impotente per molti anni. Quant’è vero che il sollievo che Dio concede al suo popolo spesso li copre di vergogna!

          Il sacrificio inutile. Quando Jefte ritornò, sua figlia, la sua unica, uscì ad incontrarlo danzando e suonando il tamburello. Ricordando il suo giuramento, si stracciò le vesti immediatamente e deplorò la sua promessa e il benvenuto che sua figlia gli aveva dato. La gioia della sua vittoria andò completamente in fumo. Sua figlia arrese se stessa dicendo che ciò che suo padre aveva promesso avrebbe dovuto essere eseguito.

Che cecità in quei due! Perfino il motivo alla base del giuramento di Jefte era sbagliato. Pensava che egli stesso avrebbe dovuto soffrire un po’ se il Signore avesse dato la vittoria. Questa sofferenza, che aveva preso su di sé di propria volontà, sarebbe servita come un tipo di sistemazione del debito di Israele verso il Signore —  come se il Signore non avesse liberato il suo popolo per pura grazia! Jefte non si rese conto che il favore mostrato a Israele sarebbe stato guadagnato completamente dal Cristo, che noi non possiamo mai ripagare al Signore la più piccola parte del nostro debito. Inoltre, per il Signore che significato poteva avere questo sacrificio? Il sacrificio della figlia di Jefte gli sarebbe stato gradito? Poteva fare qualcosa per espiare la colpa del popolo?

Nella loro cecità Jefte e sua figlia diedero esecuzione al giuramento.  Non chiesero al sommo sacerdote quale fosse la Parola del Signore. Ma la figlia di Jefte chiese una dilazione di due mesi; voleva del tempo per andare sui monti con le sue amiche e piangere il fato che la attendeva. Una volta che i due mesi furono trascorsi suo padre la bandì dalla società umana. Solo quattro giorni l’anno la ragazze Israelite potevano confortarla nella sua solitudine.

Fu un sacrificio senza senso e senza scopo. Il Signore non si aspetta che prendiamo su di noi la sofferenza per renderci graditi a lui. Il sacrificio necessario fu fatto dal Signore Gesù Cristo. Ha fatto lui quel sacrificio che espia completamente i nostri peccati. Dio ci mostrerà il suo pieno favore solo a motivo di quel sacrificio.

Di quel sacrificio ci possiamo vantare. E noi non saremo mai capaci di ripagare neppure la più piccola parte del nostro immenso debito col Signore. Noi mostriamo la nostra gratitudine accettando e godendo la vita che ci elargisce per amore di Cristo.

          Guerra tra fratelli. Alla notizia della vittoria gli uomini di Efraim si radunarono insieme. Il loro esercito attraversò il Giordano ed essi rimproverarono Jefte per non averli chiamati a unirsi alla battaglia contro Ammon. Anche loro avrebbero voluto l’onore della vittoria. Non passò loro per la testa che l’onore era dovuto solo al Signore. Minacciarono perfino di bruciare Jefte e la sua casa.

Diversamente da Gedeone, Jefte non trovò le parole per spegnere la loro ira. Li rimproverò di non essere venuti quando lui li aveva chiamati per la battaglia. In effetti disse loro che era stato il Signore a consegnare gli ammoniti nelle sue mani ma non trovò la forza per convincerli nel nome del Signore.

Ne risultò una guerra civile, una guerra tra fratelli. Nel combattimento prevalsero gli uomini di Galaad. S’impossessarono dei guadi lungo il Giordano e quando i fuggitivi arrivavano per attraversare facevano loro dire la parola shibboleth. Gli uomini di Efraim non riuscivano a pronunciare correttamente questa parola, dicevano invece sibboleth tradendo con ciò le loro origini. L’errore di pronuncia costava loro la vita. Caddero in tutto 42.000 uomini di Efraim.

Per mezzo di questa catastrofe il Signore giudicò Efraim per aver ricercato il proprio onore. Quando imparerà il popolo di Dio a non cercare la propria gloria ma solo a vivere col Signore?

Jefte giudicò Israele per sei anni. Fu sepolto a Galaad e onorato nella terra dei suoi padri. Qui vediamo il favore di Dio posarsi su Jefte. Egli non ci tratta come meritano i nostri peccati, e non ci castiga in base alle nostre colpe  (Sl. 103:10).

Dopo di Jefte vennero altri tre giudici dei quali sappiamo poco più che i loro nomi. La scrittura ci dice che anche loro dimostrarono una passione per circondarsi di onore e splendore regale. Gli uomini vanno sempre in cerca di qualcosa d’altro da ciò che il Signore ha dato loro. Dio ha esaltato il nostro Mediatore che fu il più infimo di tutti. Il nostro Mediatore esalterà tutti quelli che servono per amore di Dio.


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