41: Davanti a re e governatori

Atti 24-26

Cristo aveva predetto a Paolo che sarebbe finito di fronte a re e governatori (vedi Atti 9:15; e cfr. Marco 13:9). Questa profezia fu adempiuta nel resoconto che Paolo dovette fare davanti a Felice, Festo e Agrippa. Ogni volta i suoi discorsi furono quindi non solo un resoconto della sua condotta personale ma una testimonianza del vangelo.

Il modo di testimoniare fu diverso in ciascuna delle tre occasioni, a seconda della persona a cui Paolo stava parlando. Felice era il despota arbitrario, l’uomo che offendeva i diritti dei Giudei. A lui Paolo parlò del giudizio a venire. Festo fece un gran caso del fatto che i romani non avessero l’abitudine di consegnare qualcuno alla morte solo come favore a terze parti. Paolo dichiarò a Festo di essere disposto a morire se lo meritasse; il vangelo, spiegò, non si fa beffe della giustizia dello stato ma anzi la sostiene. Agrippa sapeva della rivelazione di Dio nella sua Parola, specialmente da suo padre, Erode Agrippa  I. Paolo lanciò un attacco diretto ad Agrippa attirando la sua attenzione su quella rivelazione.

          Concetto principale: La testimonianza a Gesù Cristo raggiunge
                                                  anche re e governatori.

          La testimonianza riguardo al giudizio a venire. Quando Paolo giunse a Cesarea, fu tenuto in custodia nel palazzo di Erode a disposizione del governatore Felice. Cinque giorni più tardi il sommo sacerdote Anania e diversi membri del Sinedrio arrivarono per presentare al governatore le loro accuse contro Paolo. Il loro consigliere giuridico era un certo Tertullo.

Questo Tertullo era versato nell’arte dell’adulazione perché cominciò lodando il governatore e ringraziandolo per tutto ciò che aveva fatto per i Giudei. Si trattò di pura scaltrezza perché Felice era odiato con tutto il cuore dai Giudei per le discriminazioni che subivano. Dopo di ciò Tertullo elencò le lamentele: a) Paolo fu descritto come un agitatore fra tutti i Giudei in tutto il mondo; b) era il capobanda della fanatica setta dei Nazareni; e c) aveva profanato il tempio. Lo avrebbero giudicato secondo la loro legge, aggiunse Tertullo, se Lisia non lo avesse strappato dalla loro custodia. Felice avrebbe potuto interrogare le persone che erano state testimoni del crimine di Paolo per corroborare le accuse. Va senza dire che tutti i membri del Sinedrio confermarono le accuse del loro avvocato.

La presentazione delle accuse fu estremamente astuta. Niente destava paura nei romani più velocemente delle voci di sedizione. In più, Felice ora aveva una scusa per il suo trattamento dispotico e arbitrario dei Giudei: poteva incolpare i Nazareni. Oltre a ciò, i romani sanzionavano le sette religiose dei popoli soggetti e la profanazione di qualsiasi tempio era un reato punibile. Tertullo cercò di tenere celato il fatto che non ci fossero testimoni oggettivi della presunta profanazione del tempio presentando i membri del Sinedrio come “testimoni”.

Nella sua difesa Paolo si astenne dal leccare i piedi. Osservò però che Felice era stato governatore dei Giudei per molti anni ed era pertanto familiare coi loro costumi. Questo rese ancor più facile a Paolo produrre la propria difesa. Erano trascorsi solo dodici giorni da quando Paolo era giunto a Gerusalemme pertanto non c’erano state molte opportunità per sollevare una folla. Anzi, a quel riguardo nessuno lo aveva nemmeno visto parlare alla gente. Ammise di appartenere alla setta che Tertullo aveva definito “dei nazareni”. Tuttavia, questa non era una setta dissenziente: i suoi membri servivano il Dio dei loro padri secondo la sua Parola. Paolo ebbae un’opportunità di dire ciò che Dio aveva rivelato nella sua Parola e lo disse in modo tale che avrebbe toccato Felice, la cui coscienza era disturbata dal proprio pregiudizio.

Paolo parlò della resurrezione dai morti, tanto dei giusti che degli ingiusti, indicando con ciò il giudizio che un giorno toccherà a ogni uomo. Disse di sforzarsi di mantenere una coscienza pulita davanti a Dio e davanti agli uomini. Con questo non intese che era senza peccato ma che era pronto a confessare i propri peccati davanti a Dio e agli uomini. Si sentiva libero perché sapeva di avere pace con Dio. È probabile che Felice ne sia rimasto  profondamente offeso, specialmente quando avvisato di come il governo dovrebbe porsi rispetto a Dio!

Paolo poi procedette a parlare delle proprie questioni. Era venuto a Gerusalemme per consegnare le offerte raccolte da tutto il mondo. Oltre a ciò, aveva portato sacrifici nel tempio. Alcuni Giudei dell’Asia Minore lo avevano avventatamente accusato di profanare il tempio ma non potevano provarlo. Questi accusatori avrebbero dovuto presentarsi ma non lo avevano fatto. Di regola, nemmeno il Sinedrio era in grado di portare alcuna accusa contro Paolo visto che aveva parlato loro solo della resurrezione.

Niente di tutto ciò fu d’aiuto a Felice. Inoltre, le parole di Paolo circa la resurrezione dai morti lo preoccupò, probabilmente perché il Sinedrio era diviso sull’argomento. Perciò pospose il procedimento fino che Claudio Lisia fosse potuto scendere da Gerusalemme. Nel frattempo Felice alleggerì le condizioni di prigionia di Paolo; tutti i suoi amici ebbero il permesso di fargli visita e di prendersi cura dei suoi bisogni. Pertanto Paolo rimase in contatto con la congregazione del Signore.

Però felice continuò ad essere turbato. Era sposato con Drusilla, una Giudea che condivideva la sua vita di peccato. Alcuni giorni dopo, essendo a Cesarea con sua moglie, fece ricomparire Paolo con Drusilla presente. In quanto Giudea ella sarebbe stata meglio preparata a farsi un’opinione sulla questione. Nuovamente Paolo parlò della fede in Cristo mediante la quale abbiamo pace con Dio e una una coscienza tranquilla. Ma parlò anche di una vita di giustizia e autocontrollo che sono frutti della fede. Anche in questa occasione indicò il giudizio a venire.

Turbato dalla propria incapacità di risolvere il problema Felice pospose la cosa di nuovo. Allo stesso tempo sperava che Paolo gli avrebbe offerto una somma di denaro per il proprio rilascio. Perciò riprese in mano la faccenda diverse volte. Quante volte fu esposto al vangelo? Ma non servì a nulla: Felice continuò la sua vita di peccato. Due anni più tardi fu richiamato a Roma. I Giudei avevano molto di che lamentarsi di lui. Per mantenerli almeno ragionevolmente ben disposti nei suoi confronti, Felice lasciò Paolo in prigione. Così, il portatore del vangelo soffrì per mano della cattiveria del governatore. In questo riguardo Paolo partecipò alle sofferenze del suo Signore .

          Testimonianza riguardo alla giustizia. Quando Festo, il successore di Felice, arrivò a Gerusalemme, il sommo sacerdote e i suoi colleghi lo confrontarono con le loro accuse contro Paolo. Gli chiesero, a titolo di favore, che facesse trasferire Paolo a Gerusalemme così gli avrebbero teso un’imboscata e lo avrebbero assassinato lungo la strada. Altezzosamente Festo replicò che i romani non avevano l’abitudine di consegnare qualcuno ad essere ucciso a titolo di favore: i romani agivano rigidamente secondo la legge.

Festo rimase a Gerusalemme non più di dieci giorni. Quando giunse a Cesarea, fece comparire Paolo davanti a sé. Erano presenti anche i suoi accusatori da Gerusalemme. Di fronte a Festo, che aveva esaltato la giustizia romana, Paolo mantenne di non aver fatto nulla contro i Giudei o contro la legge dei Giudei, contro il tempio o contro Cesare.

Ora, la giustizia non era proprio sempre mantenuta così rigidamente dai romani, e talvolta anche il favore giocava un ruolo. Ciò divenne palpabile quando Festo suggerì che il caso fosse giudicato a Gerusalemme. Stava evidentemente progettando di accontentare i Giudei. Se fosse stato necessario, avrebbe sacrificato Paolo, doveva infatti aver notato quanto i Giudei odiassero Paolo.

A quel punto Paolo dimostrò, appellandosi all’imperatore, che il vangelo non temeva la giustizia nel mondo. Chiese di essere processato davanti alla corte più alta dell’impero. Nel mondo il vangelo e la giustizia non sono in contrasto l’uno con l’altro. Anche il governo ha il potere di amministrare la giustizia mentre rimane soggetto a Gesù Cristo, il Re dei re. Ciascun governo ha il dovere di proteggere la confessione del nome di Dio e la chiesa del Signore. Il governo non può più agire come se il vangelo di Gesù Cristo fosse cosa che non gli interessa. Il mondo intero, inclusi stato e governo, sarebbero stati coinvolti col Cristo. Questa è la ragione per cui Dio ha diretto gli eventi in modo tale che Paolo dovette andare a Roma.

Risolutamente, Paolo dichiarò che il vangelo non protegge l’ingiustizia. Se aveva commesso un reato ne avrebbe pagato il prezzo, perfino la morte. Infatti, il vangelo insegna all’uomo di assumere piena responsabilità per le proprie azioni, un senso di responsabilità ben più elevato di quanto sia mai stato presente nella consapevolezza di qualsiasi romano. Il vangelo svergognava il senso di giustizia di un romano. Ma poi Paolo richiese che giustizia gli fosse resa; non si sarebbe fatto consegnare al sinedrio perché il governatore rifiutava di accettare la responsabilità del giusto giudizio.

Dopo aver conferito col proprio consiglio, Festo decise di accondiscendere alla richiesta di Paolo d’un processo d’appello. Paolo si sarebbe difeso davanti all’imperatore. Sarebbe andato a Roma come prigioniero, sicuramente una situazione diversa da quella che aveva immaginato; ma quali che fossero le circostanze gli sarebbe stato permesso portare il vangelo nel palazzo dell’imperatore. Vita natural durante la offrì in sacrificio al Signore.

          Testimonianza riguardo la Parola di Dio. Quando furono trascorsi alcuni giorni, il re Agrippa, governatore di diverse provincie del nord, venne a a far visita a Festo e a dargli il benvenuto. Agrippa era accompagnato da sua sorella Berenice. Agrippa era uno dei figli di Erode Agrippa I che era stato re dell’intero paese. Agrippa aveva fatto istruire i suoi figli nella legge dei Giudei il più possibile, ma questi figli non impararono a piegarsi davanti alla Parola del Signore. Al contrario, si erano arresi ancor di più al peccato.

Durante questa visita Festo raccontò al re il caso di Paolo. Allora Agrippa espresse il desiderio di ascoltare Paolo egli stesso. Questo sarebbe avvenuto il giorno successivo. Poiché tanto Agrippa che Berenice apprezzavano fare esibizioni di grande splendore, tennero l’udienza in grande pompa. Festo indicò che gli sarebbe piaciuto avere il consiglio di re Agrippa riguardo a Paolo, un uomo che stava mandando davanti all’imperatore.

Paolo espresse la sua felicità per il privilegio di difendersi davanti ad Agrippa, sapendo che il re era specialmente familiare con tutto ciò che accadeva tra i Giudei. Spiegò quindi la sua istruzione di Fariseo e  ribadì che il suo processo riguardava la fede nella resurrezione dei morti. Ciò che era realmente in ballo era la resurrezione di Gesù Cristo, i cui frutti si potevano vedere nel suo popolo. In quella fede Paolo non aveva deviato dalla linea dei Farisei. La resurrezione dei morti era forse un’impossibilità per Agrippa e la sua famiglia? Agrippa conosceva la legge e i profeti riguardo la resurrezione.

Paolo poi raccontò ad Agrippa della propria fanatica opposizione al vangelo e di come il Signore lo avesse chiamato a proclamare il vangelo a Giudei e Gentili. Per mezzo di quella proclamazione tutte le nazioni dovevano essere convertite dalle tenebre alla luce e e dal potere di satana a Dio. Tutti avrebbero ricevuto il perdono dei peccati e un’eredità fra quelli che sono santificati per fede in Cristo. Sapendo che Agrippa viveva nel peccato, Paolo parlò deliberatamente di tenebre, del potere di satana e della luce del vangelo. Fin dalla propria conversione, Paolo era stato obbediente alla chiamata del Signore e ora testificava ad Agrippa della luce, della via. Eppure Paolo non disse niente che contraddicesse la legge e i profeti perché lì era scritto che Cristo avrebbe dovuto soffrire e resuscitare dai morti, dopo di che sarebbe diventato una luce per tutte le nazioni.

Quando Paolo fece riferimento al Vecchio Testamento, Festò esclamò ad alta voce: “Paolo, tu farnetichi, le molte lettere ti fanno uscire di senno”. Festo non capiva niente delle Scritture.

Paolo rispose che non farneticava ma diceva la verità, come Agrippa ben sapeva, infatti tutte le cose che riguardavano Gesù erano di dominio pubblico. Poi Paolo partì all’offensiva: “O re Agrippa, credi ai profeti?” E aggiunse: “Io so che ci credi”. Ra Agrippa sapeva che alcune cose erano state predette dai profeti. Purtroppo questo non significò che si sarebbe sottomesso in fede a ciò che i profeti avevano detto. Difatti non lo fece. Di conseguenza, la sua conoscenza testimoniava contro la sua coscienza. Ecco perché Paolo lo attaccò su questo punto. Ma Agrippa licenziò Paolo con sarcasmo: “Credi che in così poco tempo tu possa persuadermi a diventare un cristiano?” Paolo, con tutto il suo cuore rispose: “Volesse Dio che in poco o molto tempo non solo tu, ma anche tutti quelli che oggi mi ascoltano, diventaste tali, quale io sono, all’infuori di queste catene”. Stava pregando che tutti loro potessero vedere la luce del vangelo e perciò essere liberati dalle catene del peccato.

Ora il re aveva udito quanto bastava. Con Berenice e gli altri si alzò, decretando la fine dell’udienza. Il vangelo lo aveva lasciato indifferente. Nondimeno, la testimonianza aveva raggiunto anche questo re: Cristo aveva mantenuto la propria giusta rivendicazione che i re si sottomettessero a lui. Privatamente, Festo e Agrippa convennero che Paolo non avesse fatto nulla meritevole di morte e che avrebbe potuto essere liberato se non si fosse appellato a Cesare. L’atteggiamento delle autorità era ancora che il vangelo non le riguardasse.


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