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DANIELE 1

L’OFFENSIVITÀ DI DANIELE

 

Il libro di Daniele, che comincia molto innocentemente con un capitolo riguardante la dieta di quattro giovani, è ciò nonostante uno dei libri più esplosivi di tutta la storia umana poiché assume in ogni punto una filosofia della storia che è anatema per l’uomo autonomo. Non solo questo concetto della storia è assunto come articolo di fede, ma è confermato nei fatti stessi, nei piccoli dettagli della storia, come manifestato da un Dio Sovrano il cui eterno decreto segna la caduta del passero e conta il numero dei capelli dell’uomo. (Mt. 10:29-30). Affermare questa fede retrospettivamente è una cosa, affermarla prospettivamente un’altra. In Daniele è affermata in prospettiva e verificata dal corso di uomini e di imperi, ammesso che Daniele sia da prendere così come si presenta.

Ma, è comunemente affermato che Daniele sia essenzialmente un falso, e da datarsi non dal sesto secolo prima di Cristo, dai giorni dall’Impero Caldeo e della potenza Medo-Persiana, ma dal periodo dei Maccabei: 168-165 a.C.. Le supposte basi per tale affermazione sono nella critica testuale, la presupposizione è una filosofia della storia radicalmente opposta a Daniele. Nei termini di questa presupposizione, Daniele è un libro completamente impossibile ed offensivo; non può essere vero, perché la sua veracità richiederebbe un rovesciamento di ogni concezione e filosofia della storia accettata dall’uomo moderno. Di conseguenza è un’opera crassa e cruda, troppo sfacciata nel suo soprannaturalismo per poter essere accettabile in qualche senso.

L’offensività di Daniele, comunque, è l’offensività di tutta la Scrittura, poiché qui sono concentrati elementi basilari della fede Biblica in termini netti e convincenti che non consentono una lettura “poetica” ma richiedono, con aspra insistenza, una sottomissione che l’uomo autonomo trova intollerabile. Quest’offesa può essere riassunta in quattro punti, ciascuno dei quali implica credenze di vasta portata.

Prima di tutto, Daniele è un’offesa perché manifesta in termini inevitabili il concetto biblico di Dio: Dio il Signore, il sovrano, non-creato, ontologico Signore YHWH, Colui che è, accanto al quale non c’è nessun altro. Questo Dio deve essere chiaramente distinto dal dio dei critici testuali, che non sono atei, nel fatto che affermano di avere fede in un dio, ma credono in un dio che è essenzialmente Valore, oppure egli stesso un essere tra esseri, un anziano cittadino dell’universo. Il dio Valore è l’epitome del bene, del vero, e del bello, l’essenza di tutte le virtù che l’uomo apprezza. Questo dio Valore trova espressione nell’uomo e attraverso l’uomo, cosicché, la famosa frase omiletica recita: “Dio non ha mani da poter usare se non le mie”. Questo, nei termini di Daniele è un concetto blasfemo, poiché Dio il Signore è autosufficiente e completamente indipendente dalla sua creazione, non avendo in alcun modo bisogno delle sue creature per agire o per manifestare Se stesso. Nei termini di questo concetto di Dio come valore e del corollario di questa credenza: “Dio non ha mani da poter usare se non le mie”, né la creazione né la redenzione possono essere spiegati in termini Biblici. La storia Biblica, le piaghe d’Egitto, il passaggio del Mar Rosso, i miracoli di Daniele, la nascita verginale e la resurrezione, tutti questi e gli altri, quando siano mantenuti, sono svuotati del significato Biblico e subordinati ad un nuovo tipo di storicità nella quale l’esistenza e la consapevolezza dell’uomo sono supreme, e le attività di Dio sono nascoste e offuscate. Il limitato dio dell’essere è di nuovo marcatamente diverso dal Dio delle Scritture. Poiché egli è solamente un aspetto dell’universo, per quanto ne sia un aspetto superiore, non può controllare ciò di cui egli stesso è un prodotto. Il suo potere è perciò limitato, nascosto e vago, e la sua “rivelazione” non meno incerta. Solamente un Dio auto-sufficiente, sovrano e onnipotente può dare una rivelazione di sé piena e sufficiente. Nell’uomo, potenzialità e realtà non sono mai uguali e, di conseguenza, l’uomo non può mai pienamente rivelare se stesso, perché non può né conoscere se stesso perfettamente, né controllare in modo assoluto le sue realtà presenti e future. Ma, poiché il Dio sovrano delle Scritture non ha in se stesso elementi inconsci, è autosufficiente e onnipotente, e perché, conoscendo se stesso perfettamente, Egli può conoscere tutte le sue attività presenti e future pienamente e perfettamente, la sua rivelazione è inevitabilmente piena e sufficiente e non può che essere tale. Egli è immenso e inesauribile ma mai nascosto o inconscio in alcun modo. Poiché Dio non è mai nascosto a se stesso, la sua rivelazione è inevitabilmente trasparente e libera dalla prospettiva di sorprese future e nascoste. Perciò, ne consegue inevitabilmente che, se il Dio di Daniele è il vero Dio, la sua rivelazione sarà sia infallibile sia chiara, e Daniele è stato con la stessa inevitabilità un terreno di prova e campo di battaglia di quella fede. Se la rivelazione è nascosta nella Bibbia, allora anche Dio è nascosto nell’universo. Se nuove rivelazioni di nuovi aspetti della verità o di nuove verità fossero possibili, sarebbe perché un Dio mutevole e parzialmente inconsapevole è incapace di una rivelazione completa. La Scrittura infallibile e inerrante è la sola parola possibile da un Dio onnipotente e sovrano, e la dottrina della parola infallibile è il corollario inevitabile della dottrina dell’onnipotenza di Dio. La natura di Daniele ci costringe a fare questa associazione, e perciò questo Libro è importante per le sue evidenti implicazioni quanto per il suo contenuto immediato.

Questa dottrina di Dio è offensiva perché l’uomo, col suo antropocentrismo ribalterebbe il ruolo di Dio e usurperebbe il suo trono. In questi termini l’uomo diventerebbe conoscibile e Dio non conoscibile, l’uomo si presenterebbe rivelato e Dio diverrebbe nascosto. Ma le Scritture affermano il contrario: “Il cuore dell’uomo programma la sua via, ma l’Eterno dirige i suoi passi.” (Pr. 16:9). “I passi dell’uomo sono dall’Eterno; come può quindi l’uomo conoscere la propria via?” (Pr. 20: 24) Se il decreto sovrano è di Dio e non dell’uomo ne consegue che l’uomo non può comprendere le sue stesse proprie vie. Per prima cosa la determinazione ultima non è sua e al massimo egli è solo parzialmente consapevole della sua propria natura. In secondo luogo, mancando sia la pienezza della consapevolezza epistemologica che la maturazione storica, egli stesso non è ancora completo. Terzo, ciò significa che non solo buona parte della sua vita è ancora inconscia, ma, più di questo, deve ancora nascere nel suo inconscio perché è ancora futura almeno a quel grado di manifestazione. Di conseguenza, le psicologie, psichiatrie e teologie che ascoltano l’antica sirena: “conosci te stesso”, ricercano una manifesta impossibilità. Quale che sia la misura di conoscenza di sé che l’uomo possa avere, può averla solo nei termini dell’interpretazione che Dio pone su di lui come creatura: ribelle o redenta. Poiché la causalità primaria della sua vita rimane in Dio, nessuna vera interpretazione o comprensione della sua vita è possibile separatamente da Dio. Dio, d’altra parte, essendo onnisciente e onnipotente, è conoscibile, non avendo una natura nascosta né alcuna tensione sub- conscia, ma non è conoscibile dall’uomo esaustivamente, perché conoscere Dio esaustivamente richiederebbe che l’uomo avesse una mente uguale a quella di Dio, ma Egli può essere ed è conosciuto veramente e coerentemente attraverso la sua auto-rivelazione. La nostra conoscenza di Dio è analogica della conoscenza divina. Benché la conoscenza di Dio da parte dell’uomo non possa essere esaustiva o comprensiva, cioè totale, in virtù della creazione ad immagine di Dio è vera conoscenza, mentre la conoscenza esaustiva, totale si trova solo in Dio. Dio conosce se stesso completamente perché “l’essere di Dio ha la stessa estensione della sua auto-consapevolezza” [1]. L’essere di Dio e la sua conoscenza di sé sono identiche, mentre per l’uomo non esiste tale identità tra l’essere e la sua conoscenza analitica, né può esistere, poiché tutta la sua conoscenza è sintetica e dipende da riferimenti a cose altre da se stesso. Perciò, la sostituzione della psicologia per la teologia e la psicologia della religione per la filosofia della religione, è un’indicazione del rovesciamento radicale dei ruoli di Dio e dell’uomo. Coinvolge una ricerca di una sapienza impossibile ed inesistente nei termini di un’autonomia dell’uomo che è mitologica e irrazionale. Il Dio di Daniele è il Signore sovrano che infrange le illusioni di autonomia dell’uomo e umilia la sua affermazione di conoscenza. I sogni perciò, hanno una parte importante in Daniele; l’uomo è tormentato dal fantasma del futuro e dell’ignoto e reso conscio, contro la sua volontà, della temerarietà della propria ribellione e della pazzia delle proprie affermazioni.

Secondo, Daniele è offensivo perché presenta profezia predittiva nella sua forma più chiara, non poetica, schietta e non confondibile. Scritto, secondo la sua stessa dichiarazione, nel sesto secolo a. C. da Daniele, traccia il corso dell’impero per secoli in avanti, presenta la venuta di Cristo e la costituzione della chiesa, e fa tutto ciò con la specifica e singolare confidenza che questa non solo è la rivelazione di Dio, ma anche la manifestazione della normale e continua attività di governo di Dio sull’uomo e sulle nazioni. E questa è una pietra d’inciampo, uno scandalo. L’uomo e le nazioni vogliono credere nella loro autonomia, nella loro indipendenza da Dio, preferiscono considerarsi artefici del proprio destino, fautori e formatori; creatori, non creature. Ma contro tutto questo, Daniele afferma enfaticamente che Dio è il solo agente indipendente della storia, sia creatore che governatore del tempo e dell’eternità. Dio, che determina ogni cosa, e nel quale viviamo, ci muoviamo e siamo (At. 17:28), determina ciascun nostro oggi e domani e conosce e determina la storia perché conosce e determina se stesso. Come Dio non ha in se stesso potenzialità inesplorate, né qualsivoglia sub-conscio, conosce se stesso e governa se stesso in modo assoluto, così la storia, sua creazione, non ha potenzialità inesplorate al suo interno né elementi inconsci che possano svilupparsi separatamente dall’eterno decreto di Dio. Le nazioni sono un nulla davanti a lui, ed Egli muove uomini e nazioni ed imperi per i propri fini, non per i loro. Egli usa tutta la storia e non è mai usato da essa, la piega, la modella, la forma nei termini del suo scopo eterno e nessuno può fermare la sua mano. Ma gli uomini cercano un Dio che possano usare, non un Dio che usa loro e da questo nasce l’offensività di Daniele. Profezie predittive così specifiche rendono inevitabile la subordinazione del tempo al decreto eterno.

Terzo, Daniele è offensivo a motivo dei suoi miracoli, miracoli la cui natura implica certe cose riguardo a Dio e alla storia. Nell’antichità era comune la fede che la verità di una religione fosse manifesta nel successo che avrebbe portato all’uomo. Il pragmatismo antico considerava la religione strumentale all’uomo. La verità di una religione dipendeva dai suoi risultati. Se gli dèi d’Egitto davano successo all’Egitto essi erano fin lì veri. Se Babilonia guadagnava la preminenza, allora anche i suoi dèi guadagnavano la preminenza. Daniele 1:2 indica che Nebukadnetsar, nel portare gli utensili del tempio da Gerusalemme alla casa del suo dio, espresse con ciò la preminenza della sua fede a la necessaria posizione di subalternità e servitù della fede di Giuda alla sua fede. Alla base di questa pratica c’è un orientamento centrato sull’uomo: Dio deve essere giudicato nei termini della sua usabilità, di ciò che può fare per l’uomo, e in quale misura lo fa prosperare, una fede che sfortunatamente è comune alla chiesa come al mondo. Questo pragmatismo e antropocentrismo si fonda ancora una volta sulla premessa dell’autonomia dell’uomo. Se l’uomo è da se stesso la verità o realtà finale, e la sua esistenza è la premessa basilare della sua fede, allora Dio e la religione non possono avere un carattere indipendente o una verità ma possono avere solamente un significato relazionale; non sono sostantivi ma aggettivi e perciò, come col modernismo, una fede mutevole è una necessità nei termini delle mutevoli condizioni e necessità dell’uomo. La rigidità della fede Biblica diventa prova di un falso razionalismo e dell’evidenza di irreligiosità, e la fede Biblica viene disprezzata, derisa e perseguitata. I miracoli di Daniele sono un affronto alla religione pragmatica e centrata sull’uomo, e giustamente, perché questi miracoli sono una dichiarazione di guerra contro ogni simile fede che viene ridotta all’assurdità proprio mentre signoreggia su uomini di fede. Questi miracoli trascendono anche la fede della chiesa e rivelano la sovranità di Dio nella sua salvezza, il suo potere verso i deboli, e il suo disprezzo dei potenti di questo mondo.

Infine, quarto, Daniele è offensivo perché assume e afferma la totale provvidenza ed il totale governo di Dio, il quale governa, domina e revoca in ogni evento della storia fino al più piccolo dettaglio. Gli uomini preferiscono l’anarchia del caso che permette loro di essere dio sul loro piccolo angolo di caos, alla sovranità di Dio e alla Sua totale predestinazione di tutte le cose. Un Dio che può metterci, in lacrime, presso i fiumi di Babilonia o giovane e solo, prigioniero sotto istruzione nel palazzo di Nebukadnetsar, è un Dio che ovviamente governa e usa l’uomo e non è mai governato ed usato da esso. Questo non è ciò che l’uomo ha sempre cercato nella religione, alla quale egli si è rivolto per potere, guarigione, buona fortuna, in breve per una polizza assicurativa di responsabilità civile generale. Dio, in contraccambio per certe gentilezze dall’uomo, dovrebbe perciò essere posto in debito verso l’uomo e soggetto a chiamate d’emergenza, un Dio messo in reperibilità. Ma Daniele ed i suoi amici, per quanto innalzati nell’impero, sono sempre gli strumenti di Nebukadnetsar, ovvero dell’uomo, e al di la e al di sopra di ciò, strumenti di Dio. Tale Dio costituisce nei fatti una magra assicurazione all’uomo in cerca della propria esaltazione, ma costituisce la sola sicurezza e gioia per un uomo che sappia di essere una creatura.

Quattro tali uomini, uomini molto giovani, furono scelti da Babilonia dalla Giudea appena conquistata e portati al palazzo del re per un corso di studi triennale, a studiare lingue, astronomia, astrologia, matematica, storia naturale, agricoltura, architettura e scienze politiche. L’antico sogno della globalizzazione caratterizzò Babele, l’Assiria e la Caldea, e nazioni furono frantumate, popolazioni mescolate per rompere i legami nazionali e giovani uomini di nazioni conquistate venivano preparati a diventare alti funzionari per aiutare a mantenere la lealtà del loro popolo e per dare un carattere internazionale e cosmopolita all’impero. Questa diversità di leadership e lo scambio delle popolazioni avrebbe portato ad una società di “melting pot” dove avrebbe preso radice il concetto di mondo unificato (mondializzazione).

Di conseguenza, mentre erano in un senso prigionieri, vivevano nel lusso, mangiando una porzione del pranzo giornaliero del re. Secondo 1 Re 4: 22-23 La provvista di viveri di Salomone per ogni giorno consisteva in trenta cori di fior di farina e sessanta cori di farina ordinaria, dieci buoi ingrassati, venti buoi da pascolo e cento ovini senza contare i cervi, le gazzelle, i caprioli e il pollame ingrassato. (1 core = circa 350 Kg.) Possiamo sicuramente presumere che le provvigioni di Nebukadnetsar saranno state allo stesso modo lussuosamente abbondanti. Certamente tali lussi erano calcolati per indebolire vecchie lealtà già logorate dal tempo e dalla distanza, e per favorire nuove alleanze. Nei termini di questa opulenza YHWH e Giuda potevano entrambi divenire remoti e primitivi.

Ma Daniele decise in cuor suo di non contaminarsi con i cibi squisiti del re e con il vino che lui stesso beveva; e chiese al capo degli eunuchi di concedergli di non contaminarsi. (1:8) Daniele era sicuramente il capo di questi quattro giovani senza difetto (v.4) che chiaramente quindi non erano essi stessi eunuchi benché altri di stirpe reale fossero stati fatti eunuchi (cfr. Is. 39: 7), giovani uomini probabilmente di quindici, sedici anni al tempo della loro deportazione. La loro richiesta non implicava ascetismo ma due principi chiari e ben definiti. Primo, mangiare era a quel tempo un sacramento di comunione non solo con uomini ma anche con le loro divinità. In tale difficile situazione, il tipo di accomodamento, di facilitazione, permessa a Naaman nella casa di Rimmon (2Re 5: 18-19) non era possibile per i quattro giovani che se non avessero cominciato con una presa di posizione di principio non avrebbero potuto continuare in essa. La presa di posizione fu fatta diplomaticamente, con tutte le intenzioni di favorire il loro servizio a Nebukadnetsar per mezzo della loro maggiore lealtà a Dio. Secondo, se non riuscivano a prendere posizione su questioni semplici, come avrebbe resistito la loro fede alla prova delle pesanti responsabilità che sarebbero venute più avanti? La santità Biblica non è mai nei termini di principi astratti, o nei termini di ritiro dal mondo, ma nei termini d’affrontare i problemi e le lotte di questa vita vittoriosamente. Di conseguenza, il loro scopo era una preparazione nei termini delle necessità e delle lotte vere e reali. Nessun santo Biblico ha mai ricercato la santità in sé e per sé, essa fu un prodotto della sua fede ed un aspetto della sua forza. Il suo scopo non è la santità per sé ma la gloria di Dio e il suo proprio godimento della vita sotto Dio, perciò mai una fuga dal mondo, ma una preparazione per i problemi e le responsabilità nel mondo.

Il sostentamento richiesto al posto della carne e del vino del re furono legumi ed acqua, cose generalmente non offerte in sacrificio o consacrate sugli altari di Babilonia prima dell’uso normale. Fino al tempo in cui non avrebbero comandato sul proprio cibo, preferirono una dieta ristretta, per niente normale per gli Ebrei, e Dio li fece prosperare in essa.

Quando arrivò il tempo dell’esame, “su ogni argomento che richiedeva sapienza e intendimento e intorno ai quali il re li interrogasse, li trovò dieci volte superiori a tutti i maghi e astrologi che erano in tutto il suo regno” (1:20).

Giuda era in frantumi, Gerusalemme spogliata, e i suoi giovani migliori fatti servi della potenza di Babilonia. Ma quella stessa parola che richiede fedeltà ed obbedienza dai servitori (Cl. 3:22-25), dice anche chiaramente che essendo stati comprati a prezzo da Cristo (1 Co. 6:20), non possono mai diventare servi dell’uomo in senso abbietto, ma, nella loro obbedienza devono deliberatamente farlo “come al Signore e non per gli uomini” (Cl. 3:23). Tale servizio è possibile solamente se il Dio che si serve è Colui per il cui decreto i re regnano, il passero cade, e i padroni esercitano la loro autorità. Nei termini della sua sovrana volontà, Egli sarà servito, volontariamente o contro voglia, da ogni creatura, cosicché uomini di fede possono servire un Nebukadnetsar nella certezza che la gloria sarà di Dio. Questi quattro giovani uomini di Giuda agivano in questa fede e con questa certezza.

In questo modo le questioni sono chiaramente focalizzate. Babilonia, echeggiando l’antico sogno di Babele di un mondo, di un paradiso senza Dio, un’unità cosmica fondata su un principio altro dal Creatore, aveva in Nebukadnetsar un brillante ed orgoglioso promotore di quella fede, un uomo dedicato a quell’unità e a quell’ordine che gli statisti hanno ricercato fin da quando Caino costruì la città di Enoch (Gn.4:17). Torkild Jacobsen ha descritto il concetto Mesopotamico primitivo:

Il fatto che l’universo Mesopotamico fosse concepito come uno stato, che gli dèi che possedevano e governavano le varie città-stato fossero legati insieme in una unità superiore, l’assemblea degli dei, che possedeva organi esecutivi per esercitare pressione esternamente quanto per applicare la legge e l’ordine internamente, ebbe vaste conseguenze per la storia Mesopotamica e per il modo in cui gli eventi storici furono giudicati ed interpretati. Esso irrobustì fortemente le tendenze verso l’unificazione politica del paese comandando perfino i mezzi più violenti a quel fine. Infatti, ogni conquistatore, se aveva successo, era riconosciuto come un agente di Enlil. Provvide pure, anche in tempi in cui l’unità nazionale era debole e le molte città-stato erano, per ogni scopo pratico, unità indipendenti, un retroterra in cui la legge internazionale poteva operare [2].

Questo retroterra, diede un principio di continuità e di terreno comune alle relazioni umane, una sottostruttura comune a tutti gli uomini, ovunque. Come apparirà più avanti, c’era coinvolto molto di più nel concetto di continuità, un principio di unità che rese possibile non solo l’unità politica e religiosa senza disgregazioni dei componenti, ma che rendeva anche tutti gli uomini costituendi una comune divinità se solamente si fossero adoperati con successo. Contro tutto questo, la fede di Daniele e dei suoi amici fu una forza aliena e disgregatrice, una rottura violenta della società umana. Un Dio come il Signore di Daniele, Adonai, era un Creatore troppo geloso, un Marito-Pattizio troppo esclusivo, e troppo alieno e discontinuo con l’universo dell’uomo per poter essere altro che un intruso offensivo all’uomo babilonese. La questione fu perciò chiaramente visibile.

Il concetto di continuità significava crescita e sviluppo (evoluzione) in dio come nell’uomo, mentre il Dio di Daniele è discontinuo con la sua creazione e al di là di crescita essendo Egli stesso l’onnisciente e onnipotente creatore di tutte le cose e di ogni crescita. Poiché Dio è assoluto nel suo essere, la sua parola e la sua opera inevitabilmente partecipano di quell’assoluta auto-consapevolezza che rende impossibile che abbia qualcosa di nascosto. Perciò, l’infallibilità della sua parola e la predestinazione di tutte le cose sono necessarie conseguenze del suo essere, né può alcun aspetto del suo essere e della Sua rivelazione venire limitato senza che questa limitazione sia estesa pure agli altri aspetti. Una parola nascosta significa elementi nascosti in Dio, un decreto limitato di nuovo introdurrebbe il nascosto nell’essere di Dio. Contro tutte queste divisioni, il libro di Daniele è un muro, e per i suoi critici, un’irriducibile offesa.

Note:

1 Cornelius Van Til, The Defense of the Faith; Philadelphia: Presbyterian and Reformed, 1955, p. 52.

2 H. e H. A. Frankfort, John A. Wilson, and Torkild Jacobsen, Before Philosophy. The Intellectual Adventure of Ancient Man; Penguin Books, 1949, p. 210


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