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DANIELE 6

REGNO, GIUSTIZIA E MONOTEISMO

 

L’esperienza, eminenza e integrità di Daniele fu riconosciuta da Dario il Medo, che primo su tutti lo fece presidente sui 120 principi che governavano il suo regno [1]. Questo generò non poca gelosia. Come ha osservato Joseph Parker riferendosi a questo passo: “ogni primato deve essere pagato”. Se quel primato è in fedeltà e giustizia come quello di Daniele, dovrà essere pagato doppio. Le richieste livellanti del male sono per una democrazia dell’essere, una democrazia cosmica nella quale tutte le distinzioni sono annullate in favore di una genericità che sfuoca identità, responsabilità e significato. Gli uomini malvagi cercano di rendere tutto malvagio; gli uomini che sono un fallimento domandano un fallimento universale. E gli uomini che non sono capaci o non vogliono sollevarsi al di sopra della loro condizione cercano selvaggiamente di livellare ogni eminenza in una comune democrazia di mediocrità e di sconfitta. La democrazia è il grande amore dei falliti e dei codardi della vita, ed include un odio per le differenze, perché la libertà è inseparabile dalle differenze, dalle distinzioni, dai discernimenti e dalle sagge discriminazioni. Ma la libertà è un nemico per quelli che odiano la responsabilità, e di conseguenza deve essere distrutta perché principio aristocratico per lasciare il posto per la “libertà” della democrazia totale, che è la fine di ogni significato, discriminazione, divisione, sia buona che cattiva, nel nome di questa virtù superiore, l’unità mistica e l’assorbimento dentro la massa dell’umanità caduta e corrotta. “Ogni primato deve essere pagato”, o con la guerra totale contro un mondo ostile, o con una radicale concessione e sottomissione a quel mondo. Religiosamente e politicamente Daniele rifiutò di cedere anche di un centimetro.

Il suo punto di vulnerabilità, conclusero i suoi nemici politici, era la sua fede religiosa. Perciò, Dario fu persuaso d’emanare un interdetto “in base al quale chiunque durante trenta giorni rivolgerà una richiesta a qualsiasi dio o uomo all’infuori di te, o re, sia gettato nella fossa dei leoni” (6:7). Questo decreto, una volta promulgato, non poteva essere rovesciato “in conformità alla legge dei Medi e dei Persiani, che è irrevocabile” (6:8).

Parecchie credenze politico-religiose molto importanti vengono qui focalizzate, tutte considerazioni di permanente rilevanza ed importanza.

1) Il regno sacerdotale del monarca è qui manifesto in un concetto altamente sviluppato. Il sacerdote-re era il mediatore tra Dio e l’uomo, e l’anello di congiunzione tra cielo e terra, una Torre di Babele vivente e il punto di continuità tra i due mondi.

2) Di conseguenza, la buona vita era possibile solo nei termini di quell’ordine manifesto in quel sacro anello e mediante d’esso, senza il quale non poteva esistere nessun vero ordine. Fare una petizione, attraverso il re quale mediatore, pregare nel suo nome come i Cristiani ora pregano “nel nome di Gesù” era così il dare testimonianza della pietra angolare della società e del fatto fondamentale della vita.

3) La legge fondamentale di ogni essere era espressa in e per mezzo del mediatore-re, nei suoi interdetti (divieti) ufficiali o nelle sue dichiarazioni ex cathedra. Queste leggi erano sicuramente nei termini di situazioni storiche concrete ma erano ciò nonostante leggi fondamentali relative alla storia e perciò inalterabili.

4) Il sacerdote-re era quindi il punto focale di cielo e terra e la voce della legge, e legge incarnata, eppure allo stesso tempo, in un senso veramente reale, sotto legge, legato dalle proprie stesse dichiarazioni e impossibilitato a rovesciarle, come testificano sia Daniele 6:14 sia Ester 1:19 e 8:8.

La storia secolare da ampia conferma di questa posizione dei monarchi Medo-Persiani. Diodoro Siculo riportò l’impossibilità di Dario III di revocare la sua affrettata condanna a morte di Charidemos. Quinto Curzio scrisse “I persiani adoravano i loro re tra gli dei” [2]. Plutarco registrò un simile rapporto nel suo Temistocle, citando Artabano a Temistocle che cercava udienza con Serse:

O straniero, le leggi degli uomini sono diverse, e una cosa è onorevole per un uomo e un’altra per un altro, ma è onorevole per tutti onorare ed osservare le proprie leggi. È l’abitudine dei Greci, si dice, onorare, sopra tutte le cose, libertà ed uguaglianza, ma tra le nostre molte eccellenti leggi, noi reputiamo questa la più eccellente, onorare il re e onorarlo in quanto immagine del grande preservatore dell’universo, se dunque, acconsenti alle nostre leggi, e ti prostri davanti al re e lo adori, tu puoi sia vederlo sia parlargli, ma se tu pensi in un altro modo, devi fare uso di altri che intercedano per te, perché non è qui costume nazionale che il re dia udienza ad alcuno che non si prostri a terra davanti a lui.

Tale concetto non era affatto limitato ai Persiani. I Greci deificarono le loro città-stato e considerarono la polis in se stessa il locus della divinità, talché la loro “democrazia” era una democrazia delle divinità. Questo concetto di vero ordine e di divina mediazione è l’inevitabile concomitanza di ogni teoria sociale, incluse quelle che negano il soprannaturale, o che perfino negano il concetto di verità in favore del relativismo o del pragmatismo. Per la democrazia la voce del popolo è la voce di Dio, vox populi, vox dei; per il Marxismo la dittatura del proletariato è storia giunta al centro incarnato, ed il pragmatismo, con tutte le sue dichiarazioni d’essere un pensiero anti- metafisico, è basato su una serie di supposizioni a priori che riguardano la natura ed il destino dell’uomo che sono sconcertanti atti di fede. Non esiste teoria sociale che non abbia la propria “voce della legge” il proprio grande mediatore ed anello tra processo e realtà, tra tempo ed eternità, tra la storia e l’ordine finale del tempo, tra Dio e l’uomo. Chiese, governi, scuole e filosofie tutte profferiscono anelli, mediatori, e voci di legge e, sia che ammettano la realtà di Dio oppure no, cercano di rendere temporale l’eternità e con ciò dare significato, scopo, e direzione al tempo e alla storia. Ciascuno promette all’altro tolleranza, concesso che la propria primaria dichiarazione di Verità sia riconosciuta. Adora Dio, ma prima inchinati allo stato quale vero, reale ordinamento dell’uomo. La religione, l’esperienza privata e la cultura possono essere tollerate purché sia prima ammesso il primato dell’ordinamento democratico. Ciascuna filosofia, chiesa od ordinamento politico insiste su questo punto: “Io sono la porta. Il vero ordine non è ottenibile senza di me”. Contro tutto questo Cristo parlò come il solo vero mediatore, il legame tra cielo e terra nella sua incarnazione, ma una unione senza confusione delle due nature, talché Dio rimane Dio e l’uomo rimane uomo. Nel dichiararsi l’unica vera porta, Gesù dichiarò che tutti quelli che cercavano di entrare nel regno, nell’adempimento dell’uomo e della storia, da qualsiasi altra porta altra da Lui erano ladri e briganti che ricercavano la morte dell’uomo e la distruzione di ogni ordine (Gv. 10). Dio e l’uomo devono essere uniti se l’uomo e la storia debbano essere salvati e compiuti, ma senza confusione, perché quella tentazione alla confusione è la tentazione satanica “sarete come Dio” (Ge. 3:5). Questa confusione significa la distruzione della storia e dell’uomo, significa il tentativo di rendere eterno il tempo e il processo, e negare il fatto della creazione e la necessità di crescita, sviluppo e maturazione. Significa la fine del tempo, e la fine del significato del tempo. I costruttori culturali di piramidi di ogni generazione cercano di arrestare il processo e la decomposizione e di rendere eterni i loro ordini, reali o sognati, ma invano perché la confusione (tra il divino e l’umano) è impossibile, e il tentativo viene confuso dalla confusione di Dio (Ge.11:1-9). In Cristo, i due ordini, tempo ed eternità, Dio e l’uomo, vengono uniti, incarnati, ma senza confusione, cosicché è possibile la redenzione della storia, è effettuata la salvezza dell’uomo, e preservata l’integrità del tempo. Il Concilio di Calcedonia, riconoscendo questo fatto, diede alla storia Occidentale il suo fondamento per la libertà, la libertà di funzionare come processo nel tempo e tutti i tentativi medievali e moderni di arrestare il tempo non hanno avuto successo nel negare quella vittoria. Calcedonia (451 D.C.) dichiarò in parte che questo “uno e lo stesso Cristo” è:

Figlio, Signore, Unigenito, riconosciuto IN DUE NATURE, SENZA CONFUSIONE, SENZA CAMBIAMENTO, SENZA DIVISIONE, SENZA SEPARAZIONE: la distinzione delle nature non essendo in alcun modo annullata dall’unione ma anzi, la caratteristica di ciascuna natura essendo preservata e unita per formare una persona e una sostanza, non come divise, separate in due persone, ma uno e lo stesso Figlio e unigenito Dio la Parola, Signore Gesù Cristo; proprio come i profeti fin dall’inizio parlarono di lui e nostro Signore stesso ci ha insegnato, e i credi dei Padri ci hanno consegnato.

Gli stratagemmi con i quali l’uomo ha cercato di raggiungere quella falsa unione di cielo e terra non sono solo istituzionali ma anche esperienziali, come testimoniano l’ascetismo e il misticismo. Così uno studioso del passato nell’analizzare San Massimo Confessore, ha scritto. “La deificazione è il sommo adempimento della capacità di Dio della natura umana…deificazione e salvezza sono la stessa cosa” [3].

Che sia nell’esperienza, o nella persona, o nell’ufficio, o nell’istituzione, l’obbiettivo è il legame tra il tempo e l’eternità, la rappresentazione o manifestazione dell’ “immagine del grande preservatore dell’universo” in modo che l’uomo possa sfuggire dal tempo, o che la storia possa essere fermata da quell’ordine manifestato.

Daniele, comunque, rifiutò di farsi deviare dalla legge di Dario dentro al timore o al compromesso. Infatti, la sua reazione al decreto, che egli riconobbe essere mirato a lui, fu la preghiera: “Quando Daniele seppe che il documento era stato firmato, entrò in casa sua. Quindi nella sua camera superiore, con le sue finestre aperte verso Gerusalemme, tre volte al giorno si inginocchiava, pregava e rendeva grazie al suo Dio, come era solito fare prima” (6:10). Daniele non era mediatore in Babilonia, ma in Gerusalemme in rovine, nel tempio tipologico, in quell’altare in cui Cristo ed il suo sacrificio erano stati presentati ritualmente. L’impossibilità che il tempio di Gerusalemme fosse realmente la casa di Dio, cioè Lo contenesse, era stato dichiarato da Salomone alla sua dedicazione, al cui tempo anche il significato tipologico fu alluso nell’indicazione che tanto Israeliti che stranieri avrebbero pregato “rivolti a questo tempio” (1Re 8) [4].

Apparentemente i nemici di Daniele avevano in casa sia almeno un informatore da consentire loro di assicurare il suo arresto e la sua dichiarazione di colpevolezza, perché questa pratica privata fu conclusivamente provata in un udienza pubblica alla presenza di Dario e per la costernazione di quel monarca. Dario fu ora costretto dalla propria legge a sentenziare a morte il suo associato più fidato e primo presidente. Il suo dolore ed agonia sono evidenti, e la sua posizione, tragica. In quanto voce della legge, non poteva negare se stesso senza cessare di essere quel legame tra cielo e terra. Poteva indulgere in qualsiasi altro vizio, ma il suo ufficio e potere richiedevano questa irremovibile lealtà alla legge. Così la legge di Dario disse morte a Daniele, mentre il suo amore diceva vita, e i due non potevano stare insieme. In ogni struttura di pensiero non Biblica, questo conflitto compare in qualche forma, l’irreconciliabile, incolmabile abisso tra legge e amore. Fate che trionfi la legge, e la sua asprezza la trasformerà infine in un freddo schema di giustizia organizzata. Fate trionfare l’amore sulla legge, e nuovamente l’ingiustizia terrà banco perché l’antinomismo infetterà ogni baluardo d’ordine. La tensione tra la legge e l’amore è perciò una tensione continua che lavora alla dissoluzione di una civiltà dopo l’altra ed è oggi basilare a molta della tensione contemporanea, quando gli impulsi umanitari cercano di passare sopra alle richieste della giustizia rigorosa e ai dettami della sua legge. La tensione non è in alcun modo limitata all’ordinamento politico ma è endemica alla famiglia, società, scuola, e ogni altro ordinamento.

Solo nella rivelazione Biblica viene risolta la tensione tra legge e amore, con enormi implicazioni sociali e storiche, nella persona e l’opera di Gesù Cristo. Con la Sua perfetta giustizia e la Sua vicaria espiazione, le più rigorose richieste della legge e della giustizia furono pienamente conseguite ed adempiute, e gli statuti di Dio osservati fino ad ogni apice e iota, ma pure, in uno e lo stesso momento, l’amore di Dio per la salvezza fu manifestato in Cristo e per mezzo di Cristo. La croce è così il simbolo d’unità della legge e dell’amore in Gesù Cristo e la completa domanda e la piena integrità di entrambi. La radicale ingiustizia di ogni ordinamento separatamente da Cristo è così vinta da questa sintesi, e la realizzazione storica di un ordinamento fondato su questa unità, non ancora realizzato, viene resa possibile. I tentativi dell’uomo di creare un ordine equo e vivibile separatamente dall’espiazione sono stati condannati al radicale collasso, come testimonia il tentativo di Giulio Cesare di soppiantare la legge fallimentare con la sua clementia senza grazia [5]. L’amore o il perdono che non sia capace di rigenerare l’uomo diventano solo una licenza e un sussidio del male, e la legge è essa stessa ugualmente incapace di qualsiasi ruolo creativo e di funzioni rigeneranti.

Dario, preso da questa tensione, poté solamente gridare: “Daniele, servo del Dio vivente, il tuo Dio, …ha potuto…?”. (6:20). E Daniele, dal profondo della fossa dei leoni poté dichiarare che Dio aveva quella notte chiusa la bocca dei leoni e lo aveva liberato senza alcuna ferita. Il re, colmo di gioia, ristabilì Daniele nella sua posizione, e sentenziò i suoi avversari e le loro famiglie (un ingiustizia proibita in Dt. 24:16; 2Re 14:6) a quella stessa morte che avevano progettato per Daniele.

Il decreto di Dario (6:25-29) mentre ha scopo commemorativo, e di auto- raccomandazione in riferimento a questo Dio Vivente di Daniele, riconosce la Sua onnipotenza e sovranità chiaramente e schiettamente. Ma, mancando così com’è di una relazione personale con quel Dio, e senza alcun senso dell’uomo come peccatore, non è una confessione di fede ma un riconoscimento di potenza. Questo è quanto poteva credere Dario, e onorando Daniele ulteriormente e attaccandolo più strettamente al proprio trono, come fece anche Ciro (6:28), Dario cercò di rafforzare il proprio trono quale legame vivente tra cielo e terra. Il politeismo non era stato necessariamente vinto, infatti, la molteplicità dell’uomo, le sue culture le sue potenze, era vista come controparte della molteplicità dell’ordine soprannaturale. L’unificazione dell’unico ordine, quello dell’uomo, sotto un grande sacerdote-re, significava anche la coalescenza dell’ordine soprannaturale in e attraverso quell’uno e lo stesso anello divino-umano: il grande sacerdote-re. Di conseguenza, mentre i grandi imperi dell’antichità si svilupparono e si espansero, furono caratterizzati da un doppio accento, primo, una sintesi culturale ed un amalgamarsi e, secondo, un sincretismo religioso, quando i vari dei e le varie fedi venivano focalizzate nel e per mezzo del rituale legame tra cielo e terra. Il monoteismo fu perciò uno sviluppo dell’impero, e un aspetto del suo concetto di unità.

Il monoteismo è, storicamente ed essenzialmente, un parente stretto del politeismo e un aspetto della stessa filosofia basilare. A prima vista questa sembra una radicale contraddizione, in quanto politeismo significa, come la parola stessa indica, una credenza in molti dèi, e il monoteismo una credenza in uno solo. Ma il politeismo non è solo una credenza in molti dèi, ma anche ed essenzialmente che dio è molti, cioè che egli è vario nelle sue forme e apparenze, spesso in contraddizione una con l’altra, cosicché egli è uno in essere benché illimitato nella diversità della sua natura come lo è la natura. Così politeismo ed enoteismo sono anelli vicini storicamente. Nell’enoteismo, sono riconosciuti molti dèi, e ciascuno è, per il momento adorato come la concentrazione di tutti gli attributi della divinità. Di conseguenza, troviamo, insieme al politeismo, un’ identificazione enoteista, talché Astarte e Chemosh sono collegati strettamente o identificati, benché radicalmente differenti, Giove e Zeus sono facilmente congiungibili e l’intero pantheon degli dèi può essere visto come diversi aspetti di quella diversità dell’essere. In periodi di stati in competitività o in guerra, l’aspetto politeistico era eminente, mentre l’imperialismo enfatizzava l’enoteismo e il monoteismo. È anche importante notare che il monoteismo filosofico e religioso moderno, riconoscendo la “verità” in o di tutte le religioni è fortemente enoteistico e lontano solo un passo dal politeismo.

Roma passò dal politeismo al monoteismo e all’enoteismo quando si sviluppò da repubblica ad impero. La sua politica religiosa la faceva capace di utilizzare pienamente ogni fede locale, mentre la onorava, la collegava all’Impero e all’imperatore. Così, alcune delle città più estranee furono anche le più devote aderenti al culto dell’imperatore senza staccarsi dal loro culto locale, come testimoniano Smirne e Pergamo. L’unità dell’Impero andava mano nella mano con l’enoteismo e il monoteismo, e questi due portarono direttamente alla fondazione del concetto centrale Romano: la legge. Basilare a questo sviluppo fu il concetto Romano di legge naturale, che era ius gentium, la legge degli stranieri o le legge delle nazioni, l’analogo giuridico del religioso enoteismo. Leggi straniere furono assorbite da Roma, come furono assorbiti culti stranieri, nel monoteismo dello stato. Ma l’enoteismo giuridico e il monoteismo erano alieni alla fede biblica quanto l’enoteismo religioso. La Bibbia non è né enoteistica né monoteistica, ma piuttosto trinitaria e teista, e il suo concetto soprannaturale di legge invalida sia la legge civile Romana sia la legge delle nazioni. L’opposizione Romana al Cristianesimo fu perciò basata su una perspicacia maggiore di quanto non lo sia l’opera di molti apologeti cristiani. La stessa tensione esiste oggi. Una fede che pone il politeismo Africano, il panteismo di Spinoza, il monoteismo unitariano, e l’enoteismo modificato di Toynbee tutti su un uguale livello come errori è un’offesa cardinale all’uomo imperiale, il cui impero deve essere onni-inclusivo ed il cui concetto di verità e potere è spesso strettamente legato con l’estensione geografica e con l’inclusivismo politico- religioso. Enoteismo e monoteismo, quali aspetti di una sola fede, sono nella natura dell’Impero come l’uomo lo sviluppa, e un aspetto dell’essere dello stato.

Nei termini di ciò, l’Impero Romano poteva tollerare una diversità di fedi finché la loro unità in essenza poteva essere riconosciuta, e finché il culto dell’imperatore quale punto focale ed il ponte tra cielo e terra fosse mantenuto. Il Cristianesimo, la fede Biblica, fu perciò doppiamente offensiva perché: primo, proclamava un altro esclusivo mediatore, Gesù Cristo; e, secondo, sembrò peculiarmente e ostilmente politeista in paragone al deismo che sottostava a tutto il politeismo pagano. I credenti e i pensatori Greci e Romani non erano grossolani politeisti ma sofisticati deisti. Il Dio Trino era un’offesa permanente perché la sua autosufficienza era così evidente, così manifesta: Egli provvedeva il suo mediatore o anello, ed il suo proprio Spirito, contro le mediazioni dell’uomo, le sue aspirazioni, la sua ascesa. La Trinità ontologica, Egli stesso il principio fondamentale di unità e di molteplicità, creatore, redentore e sostenitore, troncava alla base l’autonomia dell’uomo ed i suoi sforzi religiosi e rendeva tutta la magnificenza dell’Impero vana nel suo sforzo di portare compimento all’uomo e alla società e di creare l’ordinamento definitivo. Di conseguenza, l’Arianesimo, il subordinazionismo, il monofisismo, il Nestorianesimo e altre eresie, ed occasionalmente anche il Giudaismo (come nel regno Khazar), divennero gli inutili rifugi dell’uomo dalla mostruosa potenza del Dio trino nella sua piena-sfericità e co-eguaglianza di potenza, potenza che distruggeva e distrusse le dichiarazioni dell’Impero e della religione di essere l’anello, il legame divino-umano. Il regno ed il sacerdozio di Cristo troncarono alla base re e sacerdoti umani e la definitività del suo ufficio di profeta significò la fine della religione quale agente creativo ed indipendente; a tutti ora veniva richiesto di essere o ministeriali (servitori) oppure criminali. Progressivamente, perciò, a mano a mano che la questione veniva focalizzata, il patronato della vera cristianità divenne sempre meno possibile per lo stato. La facilità con cui Dario pagò tributo a Dio diventa sempre meno praticabile a uomini il cui mediatore e dio sia lo stato. A questo riguardo, la Russia Sovietica manifestava un grado più alto di auto-consapevolezza epistemologica di quegli stati che sono ancora capaci di pagare un ipocrita tributo a Dio mentre in realtà gli fanno la guerra. Questa ipocrisia non fu presente in Dario, perché la tensione fondamentale non era ancora focalizzata. La tensione della nostra epoca testimonia della sua esistenza ed è perciò il precursore della sua soluzione.

Note:

1 Riguardo all’identità di Dario, si veda John C. Whitcomb, Jr., Darius the Mede; Philadelphia: Presbyterian and Reformed Publishing Co., 1959; si veda pure Yamauchi: op. cit., p. 89.
2 Si veda Young, Keil e Delitzsch, H.C. Leupold, Commentari, ad. loc.
3 Polycarp Sherwood, Traduzione con introduzione, St. Maximus the Confessor, The Ascetic Life, the Four Centuries on Charity; Ancient Christian Writers, Vol. 21, London: Longmans, Green, 1955, p. 71.
4 Riguardo a questa pratica si veda Robert Dick Wilson, Studies in the Book of Daniel; Seconda serie; New York: Revell, 1938, p. 241ss.
5 Si veda Ethelbert Stauffer, Christ and the Caesars; Philadelphia: Westminster, 1955, p. 42-53.


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