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APOCALISSE 22:6-26

LA STELLA DEL MATTINO

 

In Apocalisse 22:6-21 Giovanni, ricevuta la rivelazione, incontra nuovamente Gesù il quale compare come il vero autore e la fonte della rivelazione. L’angelo che dà la visione al comando del Signore allontana da sé l’adorazione e la indirizza verso il Signore. Viene affermata la totale santità del libro e ne viene proibita la manomissione. C’è una preghiera di chiusura al Signore e una benedizione per chi legge la profezia. Il libro echeggia auto-consapevolmente il Vecchio Testamento. Rist ha osservato:

È stato notato precedentemente che non solo Giovanni vuole che il suo libro sia considerato una profezia divinamente rivelata, ma che lo vorrebbe altresì posto alla pari coi libri del Vecchio Testamento (cfr. 1:3). Pertanto, la prima e l’ultima beatitudine sono pronunciate su coloro che lo considerano tale e che sono guidati dai suoi insegnamenti (1:3; 22:7). Se invece, in antitesi ad esse, qualcuno prende alla leggera la profezia e aggiunge ad essa qualsiasi cosa, Dio stesso lo priverà della sua parte dal libro della vita dalla santa città [1].

In un senso molto reale Apocalisse conclude la Scritture. Parla deliberatamente come parola finale. Mosè, in Deuteronomio 4:2 dichiarò: “Non aggiungerete nulla a quanto vi comando e non toglierete nulla…” Altre parole sarebbero state aggiunte da altri, ma la rivelazione sarebbe una parola non mutevole. Ora, con la conclusione delle Scritture, aggiungere o togliere le “parole” del libro è proibito; non possono più essere aggiunte parole. Il consapevole parallelo e la sua diversità sono troppo ovvi per essere accidentali. L’ultima parola della parola che non cambia è stata data.

Gesù, nel parlare, pone se stesso al di sopra e al di la delle aspettative umane riguardanti il regno Davidico. “Io sono la radice e la progenie di Davide”. Questa è un’affermazione sia della sua divinità che della sua umanità. Nuovamente, come in 2:28, Gesù dice di essere “la stella del mattino”, questa volta con enfasi “la lucente stella del mattino”. Come ha notato il Rist, un significato importante di questo simbolo era il fatto che “fosse il simbolo del dominio mondiale” [2]. Cristo ricorda al suo popolo il fatto del suo dominio sul mondo.

L’albero della vita viene dichiarato inaccessibile (21:27; 22:15) ai peccatori, come alla Caduta dell’uomo. I santi di Dio ne hanno l’accesso. Gli appellativi per i peccatori (22:15) sono più che letterali. Un omicida che si penta può essere ricevuto nel regno, come avvenne per il ladrone sulla croce. Il riferimento agli omicidi va al di la del criminale. Qui sono intesi i figli di Caino, i quali nei loro omicidi alzano le loro mani primariamente contro Dio, e che vivono la vita perpetuamente in guerra contro di lui. Qui sono i figli di Babilonia, omicidi per natura.

Ma ancor più significativo è il primo e principale appellativo per peccatori. “cani”. I cani, in Oriente non erano animali domestici ma spazzini che girovagavano per città e campagne divorando carogne e rifiuti (1 Re 14:11, 16:4, 21:19; 22:38; 2 Re 9:10, 36; Sl. 59:6; Gr. 15:3). Nemici feroci e maligni sono chiamati “cani” in Salmo 22:16, 20. I cani erano animali impuri ed erano normalmente tenuti fuori casa e fuori città. Ma l’uso significativo dell’appellativo “cani” è, sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento, il suo uso religioso, la sua applicazione simbolica. In Deuteronomio 23:18 è un termine applicato ai maschi prostituti che erano importanti nei culti pagani in Canaan. In Filippesi 3:2 Paolo applica questo stesso termine “cani” ai giudaizzanti nella chiesa. Solo comprendendo, primo, il disprezzo orientale per il cane e, secondo, che nelle Scritture è utilizzato per designare i prostituti maschi, omosessuali, possiamo apprezzare come Paolo chiamò i giudaizzanti. Questo stesso significato è applicato qui. La salvezza non è per mezzo della giustizia o della bontà dell’uomo, non è per mezzo di un sistema di vita legalista, ma è attraverso la libera grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo. Coloro i quali, come i Farisei, credono alle Scritture, hanno le chiavi ma rifiutano di entrare e impediscono ad altri di entrare per mezzo della loro perversione della Parola, sono chiamati “cani” e sono esclusi dall’albero della vita. Questa è una dura condanna che nessun uomo oserebbe utilizzare da se stesso; in Filippesi è utilizzata da Paolo e in Apocalisse è annunziata da Giovanni sotto l’ispirazione dello Spirito santo. Niente è più odioso a Dio che una perversione della sua verità che dichiari di esserne una difesa. Furono i Farisei ad attirare su se stessi l’ira di Gesù. Ai falsi uomini di chiesa viene ora accollato un giudizio simile. Cani ed assassini sono perciò esclusi dal regno, sia gli empi fuori dalla chiesa sia quelli dentro la chiesa e il termine più duro è riservato per i cani. Gli assassini almeno sono uomini.

Il libro di Apocalisse, dato a dei credenti turbati, alcuni che compromettevano altri che soffrivano, li convoca ad entrare nella loro eredità e a riconoscere il carattere cosmico della vittoria cui sono stati fatti partecipi. Ma Apocalisse, la convocazione alla vittoria, è stata erroneamente utilizzata per giustificare vite vissute nell’aspettativa di tribolazione ed orrore. Il messaggio di Apocalisse è invece questo: E lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”. E chi ode dica: “Vieni”. E chi ha sete, venga; e chi vuole, prenda in dono dell’acqua della vita (Ap. 22:17).

La vittoria è basilare alla fede cristiana, certamente lo è anche la tribolazione, ma alla tribolazione non viene mai dato il primato nella prospettiva della fede. La stessa durezza del giudizio sui “cani” è parte dell’assicurazione di vittoria e di separazione. La traduzione del Moffat dei due versi che fanno riferimento ai “cani” ci danno il sapore del duro linguaggio della Bibbia: Filippesi 3:2, “State attenti a quei cani, quei malvagi operai, il partito dell’incisione!” e Apocalisse 22:15, “Andatevene voi cani, voi stregoni, voi immorali creature, voi assassini, voi idolatri, voi che amate e praticate la menzogna, andatevene, ognuno di voi!”. Questa certezza e durezza di giudizio esprime la certezza e l’inevitabilità della sovranità e della vittoria. La Nuova Gerusalemme è l’erede del regno, e i santi di Cristo erediteranno la terra. Chiamando la santa città “Gerusalemme”, Egli dichiara che tutte le intenzioni e gli scopi di Dio, tutte le sue promesse ed i suoi piani che noi discerniamo nel Vecchio e nel Nuovo Testamento, giungono finalmente al loro perfetto adempimento [3].

“Il tempo è vicino”, ci viene detto. L’adempimento non è lasciato al futuro ma comincia nel presente. Il comando perciò non è di sigillare i detti della profezia di questo libro. Essi “sono di rilevanza immediata e perciò della più urgente necessità”[4].
Tanto la battaglia che la vittoria sono adesso.

 

Note:

1 Rist, op. cit., p. 440.
2 Ibid. p. 390.
3 Thomas F. Torrance, The Apocalipse Today , Grand Rapids; Eerdmans, 1959, p. 14.
4 Ibid., p. 153


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