Cristo contro i Regni di questo mondo: la vera natura delle persecuzioni e l’ipocrisia dell’indignazione occidentalista
Introduzione: l’indignazione selettiva
Negli ultimi mesi, mentre il mondo intero osservava con apprensione il dramma degli abitanti di Gaza, numerose voci cristiane hanno iniziato a denunciare con sdegno il silenzio dei media — religiosi e secolari — riguardo alle persecuzioni dei cristiani in Africa: in Nigeria, Sud Sudan, Mozambico, Etiopia e altre regioni del continente. Sebbene tali denunce nascano, almeno in parte, da un legittimo senso di giustizia, non si può ignorare che molti di coloro che oggi alzano la voce lo fanno per malcelata reazione ideologica: per difendere, indirettamente, una visione del mondo occidentalista (da molti confusa tout court con quella del cristianesimo).
La preoccupazione rivolta ai cristiani africani è necessaria e porta certamente con sé tratti d’autenticità; eppure, essa avrebbe dovuto manifestarsi molto prima della crisi mediorientale e del diffuso rigurgito antisionista di molte manifestazioni tenutesi in tutta Europa nelle ultime settimane. Per anni, infatti, molti ambienti cristiani non sembrano aver contribuito a mantenere viva l’attenzione sui massacri di Jos, sui rapimenti nel Borno o sulle guerre etniche in Sud Sudan, né hanno cercato di analizzarne con rigore scenari e motivazioni profonde. Ora, improvvisamente, riscoprono il dramma dei cristiani africani per opportunità retorica. È la classica “coda di paglia”: chi percepisce di essere accusato di indifferenza verso le vittime dei nostri sistemi politici ed economici occidentali tenta di deviare la discussione richiamando l’attenzione su vittime di contesti geograficamente distanti, come se il cristiano non fosse chiamato — e capace — di giudicare ogni realtà (anche più di una alla volta) secondo lo standard etico di giustizia biblica, pur nella complessità e vastità del mondo contemporaneo.
Insomma, parliamoci chiaramente, questa denuncia rischia seriamente di essere intesa come un espediente polemico, superficiale e disonesto, con cui si tenta di difendere Israele e di minimizzare la portata del genocidio in corso a Gaza; ma è anche un espediente intellettualmente scorretto, perché mette sullo stesso piano realtà incomparabili, come se il giudizio dovesse ridursi ad una macabra conta dei morti.
Le situazioni che vengono accostate appartengono, infatti, a ordini completamente diversi all’interno della più ampia catastrofe umanitaria che affligge il nostro tempo. Da un lato, a Gaza, assistiamo ad un genocidio; in Cisgiordania e a Gerusalemme, a una sistematica politica di pulizia etnica e di apartheid, condotta da uno Stato e da un governo che pretendono di rappresentare il mondo civile, l’Occidente e le democrazie buone. Uno Stato e un governo con cui i nostri Paesi mantengono rapporti diplomatici, politici, economici e militari regolari — e che per questo rendono noi stessi corresponsabili e complici dei crimini in corso. In Africa, si svolgono invece conflitti tra fazioni armate, ancora prive di un autentico soggetto statuale, espressione di un caos che non può essere paragonato alle azioni sistematiche di uno Stato che si proclama sovrano e democratico.
Si tratta, quindi, di situazioni assai diverse, caratterizzate da un diverso grado di coinvolgimento politico ed economico dei nostri governi occidentali. Sarebbe, infatti, impossibile ignorare come la protesta contro le operazioni militari israeliane vada ad inserirsi in un contesto di forte partnership con Israele: l’Italia, ad esempio, è tra i principali acquirenti di sistemi d’arma israeliani e mantiene un flusso costante di esportazioni di componenti militari verso Tel Aviv. Inoltre, il settore della sicurezza e della sorveglianza tecnologica mostra grande dipendenza da strumenti israeliani come Pegasus di NSO Group o Cellebrite, integrati nei protocolli nazionali di polizia e antiterrorismo. Collaborazioni significative si riscontrano anche in ambito universitario, sanitario ed infrastrutturale. Al contrario, con i Paesi dell’Africa subsahariana non sussistono vincoli istituzionali comparabili: la cooperazione si limita spesso a programmi di aiuto allo sviluppo gestiti dall’UE o da ONG, privi della stessa interdipendenza strategica.
Perché siete tanto ossessionati da Israele e non vi importa della Nigeria?
Ad ogni modo, negli ultimi giorni, molti evangelici — specialmente dispensazionalisti o, comunque, simpatizzanti di quell’Israele che il loro occidentalismo porta a vedere come ultima diga contro l’Islam — hanno reagito con fastidio specificamente alle proteste dei loro correligionari contro le azioni militari israeliane a Gaza, rimproverandoli di essere oltremodo “fissati” con il caso mediorientale e di trascurare le persecuzioni che milioni di cristiani subiscono altrove. L’obiezione ricorrente — “Perché siete tanto ossessionati da Israele e non vi importa della Nigeria?” — rivela, tuttavia, una comprensione superficiale della questione. Nessuno ignora la sofferenza dei cristiani perseguitati; semmai, chi solleva tale critica non coglie la natura stessa della persecuzione e, con essa, la ragione per cui i cristiani continuano ad essere odiati, oppressi e uccisi.
La persecuzione non è mai un semplice rigetto religioso: essa si manifesta ogniqualvolta il Vangelo del Regno, proclamato e vissuto nella sua integrità, mette in crisi l’ordine stabilito, sia esso quello di uno Stato sovrano o di qualsiasi altra comunità civile apostata. Quando la luce del Regno di Dio illumina le tenebre del potere umano, quest’ultimo reagisce con violenza, poiché percepisce minacciata la propria esistenza o le proprie mire di espansione. Il Vangelo, dunque, è intrinsecamente destabilizzante per gli Stati e per qualsiasi gruppo di potere che cerchi di imporre e conservare la propria egemonia, perché, come vedremo a breve, finisce sempre per minare interessi sociali, politici ed economici.
Il dramma dei fratelli perseguitati e la necessità di comprendere
Da tempo, i nostri fratelli e sorelle cristiani in Africa stanno effettivamente vivendo una sofferenza per noi inimmaginabile. Famiglie intere vedono le loro case bruciate, i figli rapiti, i pastori uccisi davanti alle chiese; comunità che per generazioni hanno custodito la fede in Cristo si trovano oggi sotto una pressione disumana, schiacciate tra governi corrotti o indifferenti, milizie jihadiste, signori della guerra e interessi economici globali. Non è retorica: parliamo di decine di migliaia di morti, di villaggi svuotati, di bambini soldato, di donne violentate, di chiese profanate.
Questa autentica preoccupazione per i perseguitati non è negoziabile: è il comandamento di Cristo a «ricordarsi di quelli che sono in catene come se foste incatenati con loro» (Ebrei 13:3). E tuttavia, non basta piangere. È altrettanto urgente — per amore di verità e per fedeltà al Vangelo — comprendere a fondo le motivazioni che causano tanto male. Perché i cristiani che vivono al di fuori dell’Occidenre vengono colpiti tanto violentemente? Solo per la loro fede? Come mai noi cristiani occidentali, invece, godiamo di tanta libertà?
Solo scavando nelle radici profonde di questi conflitti potremo non solo solidarizzare con i perseguitati, ma anche interrogarci sulla qualità della nostra testimonianza in Occidente: una fede che troppo spesso si accontenta di compatibilità con il sistema, mentre là dove il Vangelo è davvero annunciato, scatena reazioni violente.
I conflitti africani: realtà complesse oltre la narrazione religiosa
Ridurre le guerre africane a una mera “persecuzione dei cristiani” significa semplificare un quadro drammaticamente più complesso. In Nigeria, ad esempio, il conflitto tra cristiani e musulmani si sovrappone a dinamiche etniche, economiche ed ambientali: al Nord, gruppi jihadisti come Boko Haram e ISWAP colpiscono comunità cristiane, ma anche musulmani moderati e villaggi che rifiutano di sottomettersi alla loro ideologia; al Centro, le tensioni tra pastori fulani (musulmani) e contadini tiv o berom (spesso cristiani) sono legate soprattutto alla lotta per la terra e le risorse idriche; al Sud, invece, l’instabilità è legata al controllo del petrolio nel Delta del Niger, dove bande e milizie usano la religione come copertura di faide economiche e di potere.
In Sud Sudan, la guerra civile non oppone musulmani a cristiani, ma cristiani contro cristiani, divisi tra fazioni etniche e claniche (principalmente Dinka e Nuer) in lotta per il potere politico e il controllo delle risorse.
In Mozambico e Somalia, le milizie islamiste attaccano indistintamente sia chiese che moschee, mostrando come il fanatismo colpisca tutti coloro che non si allineano ai loro piani di presa del potere.
In Repubblica Centraficana, il conflitto tra le milizie Séléka (a maggioranza musulmana) e anti-Balaka (a maggioranza cristiana) è iniziato come una lotta per il potere e per il controllo delle risorse — oro, diamanti e territorio. Solo in un secondo momento ha assunto una dimensione religiosa, ma in realtà la violenza ha colpito tutti i gruppi senza differenze: le milizie musulmane hanno ucciso cristiani, ma anche musulmani moderati che non le assecondavano; le milizie cristiane, a loro volta, hanno massacrato musulmani, ma anche cristiani di etnie rivali. Ne è derivata una spirale di violenza reciproca, non un genocidio “a senso unico”, come spesso viene rappresentato.
Nella provincia di Cabo Delgado, in Mozambico, gli attacchi provengono da un gruppo jihadista affiliato all’ISIS. I ribelli uccidono cristiani, ma anche musulmani locali che non accettano la loro interpretazione salafita dell’islam. Molti villaggi musulmani tradizionali sono stati devastati proprio perché considerati “eretici” o “collaborazionisti” del governo. Dietro la facciata religiosa si cela però la competizione per il gas naturale, di cui la zona è ricchissima, e per il controllo delle rotte commerciali costiere.
In Somalia, paese a netta maggioranza musulmana, domina il gruppo jihadista al-Shabaab, che persegue un progetto di controllo politico e territoriale. Le poche comunità cristiane esistenti vivono effettivamente nella clandestinità, perseguitate per la loro fede. Tuttavia, la grande maggioranza delle vittime di al-Shabaab sono musulmani somali stessi — colpiti nei mercati, nelle moschee e nei villaggi per motivi di vendetta, punizione o controllo territoriale. Anche qui, la religione è il pretesto per consolidare il potere su un Paese frammentato e ancora privo di un’autorità centrale stabile.
In Etiopia, il fattore religioso è secondario. La recente guerra del Tigrai (2020–2022) ha contrapposto gruppi tutti cristiani ortodossi o cattolici, in uno scontro di natura politica, etnica e territoriale. In alcune regioni miste, tuttavia, si sono registrate violenze reciproche tra musulmani e cristiani, ma sempre all’interno di logiche etniche e di potere locale, non di contrapposizione puramente religiosa. Il caso etiope mostra come i conflitti africani non possano essere spiegati con categorie esclusivamente legate alla religione, ma vadano letti alla luce delle dinamiche storiche, tribali e geopolitiche.
Dunque, i cristiani vengono perseguitati, sì, ma non sono gli unici a morire. La violenza nasce dal caos di poteri locali e interessi globali: miniere, traffici d’armi, petrolio, competizione geopolitica. La religione diventa un simbolo, un linguaggio di mobilitazione, ma la radice dei conflitti è quasi sempre politico-economica.
Il caso Trump: geopolitica della pietà
In questo contesto, le recenti dichiarazioni di Donald Trump — che in un post ha denunciato “la terribile persecuzione dei cristiani in Nigeria” — hanno suscitato entusiasmo tra molti cristiani occidentali. Alcuni hanno salutato le sue parole come un segno di leadership morale e difesa della fede. Eppure, la realtà geopolitica suggerisce altro. Gli Stati Uniti, nel mezzo della competizione energetica globale, necessitano del petrolio nigeriano e venezuelano. Parlare di “salvare i cristiani nigeriani” diventa così un modo nobile per giustificare future pressioni o interventi d’ingerenza politica e militare in aree strategiche. È la vecchia logica dell’impero: la pietà come copertura diplomatica, la religione come pretesto. Trump non è l’unico a farlo; egli rappresenta semplicemente un sistema più ampio in cui la fede viene brandita come strumento geopolitico: l’asse occidentale, “del bene”, fronteggia nobilmente l’asse del male. E molti cristiani americani — o “americaneggianti” (come tanti di casa nostra) — già immersi in una visione del mondo segnata dall’americanismo religioso, finiscono facilmente per scambiare l’agenda di Cesare per quella di Cristo.

Cristo vs. i Regni degli uomini: un conflitto antico e sempre attuale
La persecuzione dei cristiani è un fatto antico: essa costituisce una costante nella storia della Chiesa, un riflesso inevitabile della tensione tra il Regno di Dio e gli imperi degli uomini. Prima della caduta di Gerusalemme, i cristiani erano considerati una setta ebraica e, come tale, godevano della tolleranza legale accordata al giudaismo. Tuttavia, con la distruzione del Tempio, Roma cessò di riconoscerli come parte del mondo ebraico, cominciando a percepirli come un corpo estraneo, potenzialmente sovversivo per l’ordine imperiale. L’Impero, fondato sul culto dell’imperatore come garante della salvezza politica, non poteva tollerare chi proclamasse un altro Re, un’altra Signoria. Accettare Cristo significava negare Cesare; e negare Cesare era, per l’Impero, un atto di ribellione insostenibile.
Oggi, per i cristiani dell’Occidente, le cui coscienze sono spesso nutrite da un’immagine di pseudo-libertà, pluralismo e tolleranza umaniste, risulta particolarmente urgente riscoprire i veri motivi che stanno all’origine della persecuzione. Essa non è mai solo il frutto di un’incomprensione religiosa; anzi, nasce sempre dalla destabilizzazione politico-economica che l’irruzione del Vangelo del Regno provoca nel tessuto di una società. Quando il messaggio evangelico viene annunciato e vissuto concretamente, esso mette in crisi le fondamenta stesse del potere, rivelando la falsità di ogni Cesare che pretende adorazione esclusiva e totale. E anche là dove un Cesare non è ancora salito al trono, ma diverse bande si contendono il potere per costituirsi come entità statuale, il Vangelo rimane un elemento di scandalo e di contesa. Francis Schaeffer ce lo ricordava con lucidità:
«Non dimentichiamo perché i cristiani furono uccisi. Non furono uccisi perché adoravano Gesù… A nessuno importava chi adorasse chi, finché l’adoratore non metteva in discussione l’unità dello Stato, incentrata sull’adorazione formale di Cesare.»
Comprendere questa dinamica ci permette non solo di guardare con maggiore profondità alle persecuzioni che subiscono i nostri fratelli nel mondo, ma anche di interrogarci sulla forma e sulla sostanza della nostra fede domestica: una fede, ormai, troppo conciliata con il sistema, troppo incline a cercare la pace con Cesare e troppo poco disposta a confessare con fermezza che solo Cristo è Signore — e non Cesare.
Lo scandalo del Vangelo dell’apostolo Paolo
Di fatti, un aspetto spesso sottovalutato del ministero dell’apostolo Paolo è il motivo principale per cui veniva perseguitato. Egli non subiva percosse, prigionia e persecuzioni unicamente a causa del contenuto del suo messaggio, ma perché questo rappresentava una minaccia concreta per interessi economici e politici consolidati. In realtà, il Vangelo non era di per sé il problema: il vero scandalo era che esso minava le fondamenta del potere politico ed economico del tempo, e coloro che ne traevano profitto non erano disposti a tollerarlo. Paolo afferma di essere stato battuto cinque volte dai Giudei e tre volte con le verghe dai littori romani. Questo tema emerge ripetutamente negli Atti degli Apostoli e nelle sue lettere. Esempi significativi emergono in Atti 16 e 19. In Atti 16, i proprietari di una schiava, vedendo che la speranza del loro guadagno era svanita a causa della predicazione di Paolo, lo trascinarono davanti ai magistrati: il problema non era il messaggio stesso, ma l’interruzione del loro profitto. In Atti 19, l’orefice Demetrio provocò un tumulto a Efeso perché Paolo stava minando l’industria degli idoli, che costituiva una fonte importante di guadagno per molti artigiani: ancora una volta, il cuore della questione era economico e sociale, non teologico. Altrove, Paolo menziona Alessandro il ramaio, dicendo che gli ha procurato molti mali, e non è difficile intuire il motivo. Come Gesù prima di lui, Paolo pagava il prezzo per aver messo in discussione l’ordine politico, economico e religioso consolidato del suo tempo: il vero scandalo era la trasformazione radicale che minacciava le strutture di potere.
Il Vangelo addomesticato e spuntato dell’Occidente
Se la predicazione del Vangelo da parte di Paolo e degli altri apostoli generava sconvolgimenti sociali, economici e politici, come mai oggi il cristianesimo occidentale non provoca alcun subbuglio sistemico? La risposta è semplice: il messaggio che oggi viene spesso predicato è essenzialmente rivolto al cuore individuale e concepito per produrre il massimo cambiamento al suo interno. Si tratta di una fede che agisce nel cuore, con ripercussioni interpersonali, certo, positive — amore, pazienza, benevolenza e tutti quei frutti dello Spirito che favoriscono una testimonianza pubblica caratterizzata da mitezza, amorevolezza e cordialità. Tuttavia, questa fede non minaccia né mina la stabilità del panorama generale, ovvero della cultura (intesa come religione implicita) all’interno della quale il credente opera. Anzi, è come se la nuova fede, in una sorta di sincretismo pratico, potesse essere vissuta in modo pacifico accanto alla religione della società, permettendo al credente di servire sia il Dio del proprio cuore sia il “dio” che governa la cultura dominante (che da noi, nell’Occidene scristianizzato, sarebbe l’umanismo — l’uomo è Dio — e lo statalismo che ne deriva).
Al contrario, ciò che vediamo nella testimonianza di Paolo è ancora oggi riscontrabile in altre parti del mondo — Asia, Africa e altri contesti non occidentali — dove la proclamazione del Vangelo di Gesù Cristo genera autentici terremoti sociali. In Occidente si pensa che il solo nominare Cristo ad alta voce in un villaggio pachistano o in un mercato cinese basti a suscitare reazioni aggressive, come se quel nome da solo facesse ribollire di rabbia chi lo ascolta. Ma non è così. Come già detto, il vero motivo per cui il Vangelo provoca persecuzioni in questi contesti è che, convertendo i cuori al vero Signore, mette in pericolo la struttura consolidata delle regole familiari, sociali, economiche e, di conseguenza, politiche.
È questo il vero scandalo: la trasformazione radicale che minaccia l’ordine stabilito.
Ecco perché dalle regioni in cui il cristianesimo si diffonde con forza sentiamo testimonianze di conversioni che portano a fughe, minacce di morte, incendi di chiese, incarcerazioni e persecuzioni violente — esattamente come ai tempi di Paolo. Non così in Occidente, dove convertirsi a Cristo raramente disturba il “Cesare di turno” o minaccia la stabilità dei tanti “alti luoghi” disseminati in ogni ambito del paese.
Conclusione
Il fine di queste riflessioni è soprattutto invitare i cristiani di casa nostra a ripensare i veri motivi di tanta parte delle notizie di persecuzione efferata che ci giungono dal mondo — non mero odio religioso, bensì reazione al Vangelo che destabilizza poteri consolidati — e a riflettere sulla qualità e sulla sostanza della nostra testimonianza di fede nei nostri Paesi. Molti credenti, avendo smarrito la bussola etico-giuridica della loro fede, si lasciano trascinare dalle ideologie del momento — siano esse di destra o di sinistra, politiche o nazionali — sostituendo la fedeltà alla Parola con l’allineamento a logiche contingenti. Invece di essere luce e sale nel mondo, e giudici secondo lo standard divino del bene e del male, diventano eco delle dinamiche di potere, paura e divisione proprie del contesto circostante. A ciò si aggiunge il fenomeno preoccupante di credenti che fondono la fede con logiche stataliste, ripetendo, ad esempio, slogan come “Dio benedica e protegga lo Stato d’Israele” oppure “prima l’America”, e ostentando simboli nazionali come emblemi di devozione. Tuttavia, Dio non benedice le logiche imperiali di nessuno Stato né l’oppressione di una banda di potere sull’altra. Il Vangelo non è al servizio delle potenze mondane: esso le condanna, smascherando ogni autorità che pretende di agire in nome di Dio mentre calpesta la sua giustizia.
Finché la Chiesa non tornerà a vivere questa fede sovversiva — quella che non teme di minacciare il potere quando serve —, il Vangelo continuerà a essere compatibile con i sistemi del mondo, e dunque innocuo. Solo riscoprendo la sua capacità di trasformare radicalmente le strutture sociali e politiche potremo comprendere appieno le persecuzioni lontane e, soprattutto, interrogare con onestà la nostra fedeltà domestica.