L’Assemblea di Westminster riunì alcune delle menti più brillanti della storia della Chiesa: pastori, studiosi e pensatori che dedicarono anima e intelletto alla formazione della teologia protestante. Il loro lavoro – in particolare la Confessione di Fede di Westminster – rimane una pietra angolare del pensiero riformato, unendo profonda intuizione biblica e ferma convinzione nella sovranità di Dio.
 
Tuttavia, anche i migliori sforzi umani portano in sé dei limiti. Il concetto di “equità generale” nel diritto civile, contenuto nella Confessione (WCF 19.4), rivela come il contesto storico e filosofico dell’Assemblea abbia plasmato le sue conclusioni – non sempre nel modo più fedele alla Scrittura.
 
Per comprendere la forza e le debolezze dell’“equità generale”, è necessario risalire alle sue origini. I teologi di Westminster non operarono nel vuoto: ereditarono e rielaborarono un lungo percorso di pensiero che passa per Agostino, Tommaso d’Aquino, Calvino e Bucero.
 
«Anche a loro, come corpo politico, diede diverse leggi giudiziarie, che scaddero insieme allo Stato di quel popolo; non obbligando ora nessun altro, più di quanto la sua equità generale possa richiedere.» (Confessione di Fede di Westminster, 19.4)
 
Questa affermazione si radica nella distinzione agostiniana tra le verità morali eterne e le regole temporanee date a Israele. Tommaso d’Aquino sistematizzò poi l’idea che le leggi giudiziarie fossero “decadute nella loro forza vincolante” dopo la venuta di Cristo. I teologi di Westminster ereditarono tale schema, combinando il ragionamento pattizio con la tradizione del diritto naturale classico.
 
La convinzione che le leggi civili di Israele non siano più vincolanti per le nazioni moderne proviene dunque da una linea teologica antica. Essa cerca di onorare il peso morale della Legge mosaica, ma lo fa filtrandola attraverso una lente filosofica greco-romana, piuttosto che biblica. In questo modo, la “legge giudiziale” diventa un guscio da cui si estraggono soltanto principi generali di giustizia, senza più riferimento al suo contenuto specifico.
 
1. Una separazione artificiale tra forma e significato
 
L’“equità generale” presuppone che sia possibile scartare la forma concreta delle leggi civili di Israele, mantenendone però l’essenza morale. Ma la Scrittura non separa mai i due aspetti.
 
«E quale grande nazione vi è che abbia statuti e decreti giusti come tutta questa legge che oggi io vi espongo?» (Deuteronomio 4:8)
 
Le leggi stesse – non solo i loro principi astratti – sono definite giuste. La giustizia di Dio risplende non attraverso concetti filosofici, ma attraverso le forme concrete della Sua rivelazione.
 
2. Il rischio di sostituire la Parola con la ragione umana
 
Il criterio dell’“equità generale” tende a trasferire l’autorità ultima dalla Scrittura alla ragione. Ciò che è “equo” diventa ciò che la mente umana ritiene ragionevole, piuttosto che ciò che Dio ha dichiarato giusto.
Così si smarrisce la convinzione profetica che «la legge del Signore è perfetta e ristora l’anima» (Salmo 19:7).
 
Un approccio pienamente pattizio e biblico considera le leggi morali e civili come un’espressione unitaria della giustizia di Dio. Le leggi cerimoniali furono adempiute e superate nel sacerdozio di Cristo (Ebrei 7–10), ma le leggi civili continuano a riflettere principi eterni di giustizia validi per tutte le nazioni:
 
«Ecco, io vi ho insegnato statuti e decreti, come il Signore, il mio Dio, mi ha comandato… Osservateli dunque, perché questa sarà la vostra sapienza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli.» (Deuteronomio 4:5–6)
 
Non siamo chiamati a estrarre dall’Antico Testamento un “principio generale di equità”, ma a riconoscere nella Legge di Dio un modello di giustizia concreta, da applicare oggi sotto la signoria di Cristo.
 
La clausola dell’“equità generale” della Confessione di Westminster, pur animata da buone intenzioni, non regge alla luce della teologia del patto. Essa dissocia la legge morale da quella civile, eleva la ragione umana sopra la Parola di Dio, e si fonda su tradizioni filosofiche ereditate, più che su un rinnovato ascolto della Scrittura.
 
Gesù non venne ad abolire la Legge, ma ad adempiere ogni sua parte (Matteo 5:17–19). Egli compì la legge cerimoniale, ma confermò l’unità morale e civile della Torah, chiamando tutte le nazioni a vivere secondo la Sua giustizia rivelata, non secondo standard umani modificabili.
 
«Il Signore è giusto in tutte le sue vie e benigno in tutte le sue opere.» (Salmo 145:17)