Risposta all’articolo «Speranza mal riposta: l’errore del nazionalismo cristiano»
Introduzione
Il tema del cosiddetto “nazionalismo cristiano”, dei suoi presupposti teologici e dei pericoli pratici che può comportare, è senza dubbio rilevante e merita un esame attento[1]. Nel Vecchio Continente, tuttavia, specialmente nell’ambito evangelico e riformato, tale fenomeno ci raggiunge come qualcosa da osservare con interesse, ma ancora sostanzialmente distante, tanto che le analisi degli osservatori europei non risultano sempre accurate.
Le nostre chiese soffrono perlopiù di problematiche di segno opposto: un antinomismo diffuso, un’adesione quasi incondizionata a diverse forme di collettivismo statalista, un approccio escatologico marcatamente defetista, una ritirata dalla sfera culturale e un pietismo che considera l’impegno pubblico irrilevante o persino contaminante. La distanza che ci separa dall’iper-politicizzazione aggressiva tipica di certi ambienti americani è evidente; e sebbene rimaniamo vigili nei confronti del Paese da cui proviene gran parte del nostro patrimonio religioso, sia in termini culturali sia in termini finanziari (missioni, editoria, istituti biblici, sostegno economico), restiamo comunque lontani – a volte persino confusi – da certe dinamiche nordamericane.
Un recente articolo, intitolato “Speranza mal riposta: l’errore del nazionalismo cristiano”, pubblicato su Ad Fontes[2], ha richiamato la nostra attenzione tanto sul tema quanto sul modo in cui esso è stato trattato. Pur muovendo da una diagnosi condivisibile di alcuni eccessi deprecabili d’oltreoceano, l’articolo scivola però verso una conclusione difficilmente accettabile: identifica ripetutamente – e con insistenza – il “teonomismo” e il “postmillenarismo” (o, peggio, la loro caricatura) come la radice ideologica, o quantomeno come un pericoloso complice, del nazionalismo cristiano. Si tratta di un’accusa tanto diffusa quanto infondata, che confonde due visioni del mondo non soltanto distinte, ma teologicamente e culturalmente antitetiche.
È proprio a causa di questo spiacevole cortocircuito che riteniamo doveroso intervenire, al fine di ristabilire una verità teologica e storica elementare. Il teonomismo autentico – per intenderci, quello del movimento di Ricostruzione Cristiana cui apparteniamo – non è il padre, il fratello maggiore né tantomeno il compagno di strada del nazionalismo cristiano à la Wolfe o à la Doug Wilson in versione «princeps»; ne è, al contrario, il critico più radicale e irriducibile. Confondere tali posizioni non è semplicemente un errore tassonomico: rischia di diventare, forse anche involontariamente, un mezzo per screditare la validità e l’universalità della Legge di Dio proprio mentre si denuncia – giustamente – l’idolatria.
In linea di principio, non saremmo inclini a rincorrere caricature. Si tratta di un compito ingrato e spesso sterile: quando qualcuno attribuisce a una posizione ciò che essa non sostiene, la semplifica fino a renderla irriconoscibile, la collega a movimenti con cui non ha alcuna affinità, e infine la attacca come se quella distorsione fosse la realtà, non rimane molto da discutere. È un tipico “bersaglio di paglia”: lo si costruisce, lo si incendia e ci si compiace dello spettacolo, scambiandolo per argomentazione solida.
Desideriamo inoltre precisare che non rivolgiamo questa replica all’autore dell’articolo, il quale, presumibilmente per “comodità” o pregiudizio, continuerà a confondere teonomia e nazionalismo, Legge di Dio e sacralismo statale. Rispondiamo invece per i nostri amici e per tutti coloro che intrattengono con noi un dialogo cordiale e costruttivo; per coloro che hanno letto quell’articolo e sono venuti da noi turbati, chiedendoci: “Ma è davvero così che la pensate? È davvero questo ciò che credete e insegnate?”
L’articolo di Ad Fontes non si limita soltanto a mettere in discussione una teoria astratta. Attribuisce, purtroppo, ai circoli teonomisti convinzioni che essi non hanno mai sostenuto, e che anzi hanno sempre apertamente rifiutato: statolatria, nazionalismo religioso, confusione tra Chiesa e Stato, uso del potere politico come strumento di propagazione della fede.
Chi non conosce la nostra visione del mondo o chi si compiace di averla “inquadrata” basandosi su infime analisi critiche piene zeppe di cliché – e sono molti – rischia davvero di prendere queste caricature per ritratti fedeli. Ed è comprensibile che ne rimanga allarmato.
Ecco perché riteniamo necessario rispondere: per ragioni di carattere pastorale, perché ci sta a cuore la chiarezza tra i fratelli e non desideriamo che timori nati da fraintendimenti – o da esposizioni parziali e distorte – diventino ostacoli a un dialogo serio ed edificante.
Una replica dal punto di vista della Ricostruzione Cristiana
Prima di entrare nei dettagli, ribadiamo fin da subito un punto tanto ovvio quanto necessario: la Ricostruzione Cristiana non è, né è mai stata, una forma di nazionalismo cristiano, né ha mai offerto alcun sostegno a tale impostazione. Rushdoony lo ha contrastato con grande chiarezza e determinazione fin dagli anni Sessanta; Bahnsen lo ha respinto con decisione; Van Til ne ha smantellato le basi epistemologiche; Moracraft, dal pulpito, a dispensato ripetuti ammonimenti; North ne ha denunciato gli errori sul piano teologico ed economico; Chilton e molti altri lo hanno confutato nell’ambito dell’escatologia.
Dichiariamo pertanto in modo inequivocabile la nostra posizione: il nazionalismo cristiano deve essere integralmente rigettato, poiché costituisce una forma di sacralismo politico che travisa la natura del Regno di Dio e ripropone, in veste contemporanea, gli stessi errori dell’illegittima fusione tra trono e altare.
La critica che Ad Fontes muove al nazionalismo cristiano è dunque, in sé, fondata. Tuttavia, la conclusione che ne ricava – secondo cui qualsiasi applicazione civile della Legge di Dio sarebbe di per sé “sacralista” – rappresenta una falsa dicotomia, che non riflette né l’insegnamento della Scrittura, né la tradizione riformata, né la posizione della Ricostruzione Cristiana.
Procediamo, dunque, ad approfondire la questione.
Il nazionalismo cristiano di Wolfe
Il cosiddetto “nazionalismo cristiano”, così come emerso negli ultimi anni nella sua forma più visibile e amplificata mediaticamente, è stato promosso in modo particolare da Stephen Wolfe nel volume The Case for Christian Nationalism (2022). Si tratta di un fenomeno radicalmente distinto dalla tradizione teonomica e ricostruzionista.
Le differenze non sono mere sfumature: sono, a dir poco, profonde e sostanziali, e investono quasi tutti i punti cardini delle rispettive visioni del mondo:
| Ricostruzionismo / Teonomia | Nazionalismo cristiano | |
| Escatologia | Postmillenarista (preterismo parziale) | Generalmente amillenarista o premillenarista |
| Soteriologia / Ecclesiologia | Fortemente riformata (presbiteriana o congregazionalista riformata), continuità patto | Spesso solo vagamente “protestante”, a volte luterano due-regni, a volte solo “evangelical generico” |
| Legge di Dio e società | Teonomia: continuità morale e normativa dell’intero Consiglio divino (Legge inclusa) | Giusnaturalismo tomista/bellarmiano: la legge naturale è sufficiente per ordinare la società civile |
| Rapporto Stato-Chiesa | Governo civile minimo (magistratura), fortemente decentralizzato, magistrato civile sottomesso alla legge di Dio ma non “sacralizzato” | Princeps cristiano forte, Stato nazionale confessionale con potere verticistico, spesso con venature cesaropapiste |
| Antropologia politica | Uomo caduto → istituzioni devono essere fortemente limitate e bilanciate | Uomo caduto ma capace per (gonfiata) grazia comune → possibile un governo forte retto da un principe cristiano virtuoso |
| Influenze principali | Riformatori, Van Til, Rushdoony, Bahnsen, Kuyper | Classici controriformisti (Bellarmine, Suárez), ma anche Schmitt, Maistre, talvolta Straussiani “di destra” |
| Atteggiamento verso la Rivoluzione Americana | Molto critico (Rushdoony la considerava giacobina ed illuminista) | Molto positivo: l’America è vista come nazione “eletta” con un destino di guida del mondo |
In sostanza, osserviamo come il nazionalismo cristiano sia, nella pratica, molto più vicino a una forma di cattolicesimo politico integrale reinterpretato in chiave protestante – o, persino, a un “nazionalismo conservatore” secolarizzato, semplicemente adornato di un crocifisso – che non alla tradizione riformata e ricostruzionista.
I ricostruzionisti autentici non possono che guardare a tale movimento con sospetto e netto dissenso, accusandolo di:
Dunque, sì: fare di tutta l’erba un fascio non è soltanto impreciso; è assai fuorviante. Si tratta di due galassie teologiche e politiche che, pur condividendo un rifiuto del liberalismo secolarizzato e del pluralismo intesi come sistemi che proclamano un’inesistente neutralità dello Stato, si collocano su fronti diametralmente opposti.
La critica esplicita e diretta del Dr. Selbrede
Proprio per marcare in modo netto questa distanza profonda, il Dr. Martin Selbrede – vice-presidente della Chalcedon Foundation e uno dei principali continuatori dell’opera di R. J. Rushdoony – ha dedicato due saggi incisivi alla confutazione del libro di Wolfe.
Il primo, e più significativo, è A Stone Cut Without Hands (Arise & Build, 15 novembre 2023)[3]. In esso Selbrede contrappone al modello di Wolfe la “pietra tagliata senza mano d’uomo” di Daniele 2:34-45, cioè il Regno di Dio che cresce monergicamente e riduce i regni umani a pula. Secondo Selbrede, la proposta di Wolfe dà invece origine a regni “tagliati con mani umane”, fondati su tre pilastri essenziali:
Per Selbrede, tutto ciò costituisce un antropocentrismo radicale. La Scrittura ha già fornito i “progetti” universali (blueprints – Deuteronomio 30:11-14; Isaia 2:3; Zaccaria 4:9) e subordinare la rivelazione alla ragione politica equivale a costruire sulla sabbia.
Nel secondo saggio, The Wise Shall Shine (Faith for All of Life, 11 novembre 2025)[4], Selbrede riprende e approfondisce la critica, richiamandosi ad Isaia 8:20: «Alla legge! alla testimonianza! Se il popolo non parla secondo questa parola, è perché non c’è in lui alcuna luce». Rimprovera Wolfe di argomentare soprattutto a partire da Aristotele, Tommaso d’Aquino e dalla storia ecclesiastica, piuttosto che dall’esegesi biblica, definendo il suo progetto “anti-teonomico” e “una visione sostanzialmente secolare rivestita di terminologia cristiana”.
In questa pubblicazione Selbrede elenca i principali punti di divergenza sostanziale con Wolfe:
In conclusione, Selbrede ammonisce che coloro che seguono Wolfe stanno costruendo sulla sabbia, dando vita a regni umani inevitabilmente destinati alla rovina. Esorta i cristiani a percorrere la “via santa” della Legge di Dio, evitando gli “uomini con un occhio solo” che deridono i sentieri antichi. La vera nazione cristiana non nasce dalla volontà umana, ma dall’obbedienza fedele alla Parola di Dio.
Passiamo adesso all’articolo di Ad Fontes.
Analisi dell’articolo di Ad Fontes
L’autore di Ad Fontes sostiene che il nazionalismo cristiano derivi da un’ecclesiologia distorta, che confonde la missione spirituale della Chiesa con le funzioni proprie dell’ordine civile. È un rilievo corretto in sé, ma non riguarda affatto la posizione teonomica.
Né Rushdoony, né North, né Bahnsen hanno mai affermato che:
• la Chiesa debba governare lo Stato;
• la conversione possa essere prodotta mediante coercizione civile;
• l’autorità ecclesiastica debba sostituire quella civile;
• la missione della Chiesa consista nel dominio nell’ambito del governo civile.
Queste sono posizioni tipicamente sacraliste, non espressioni del cristianesimo biblico.
La prospettiva ricostruzionista è di tutt’altra natura:
Le critiche di Ad Fontes non colpiscono, dunque, il teonomismo, ma una caricatura costruita a partire da presupposti nazionalisti che gli stessi teonomisti rifiutano. Né la Ricostruzione Cristiana né la tradizione riformata che la precede hanno mai concepito il Regno di Dio come il risultato di una rivoluzione politica, né come l’instaurazione di un’élite ecclesiastica incaricata di imporre la Legge dall’alto verso il basso. Questo non sarebbe teocrazia, sarebbe semplice e gretto autoritarismo religioso. E la storia non manca, purtroppo, di offrire esempi ripetuti di tali casi.
Secondo la nostra visione le cose stanno così: il Regno di Dio non avanza per la spada, ma per la rigenerazione delle persone. Il cuore del cristianesimo biblico non è la conquista delle leve di potere di strutture statali e coercitive, bensì la trasformazione graduale della società attraverso la conversione, la santificazione e la responsabilità personale e comunitaria. Il Vangelo, rigenerando uomini e donne, rinnova non solo l’interiorità ma anche il modo di vivere, di lavorare, di costruire istituzioni, di sopravanzare nelle arti, nelle scienze, nei mestieri, di amministrare la giustizia, di ammaestrare i figli, di generare cultura. La fede non rimane confinata al privato, perché la vita stessa non è privata: è relazionale, sociale, comunitaria.
In questo senso non vi è nulla di sorprendente nel descrivere l’ecclesia come una realtà dotata anche di una dimensione politica, in accordo con la stessa etimologia del termine. Nel greco scelto dagli autori neotestamentari, infatti, ekklēsía non è termine cultuale-venerativo, bensì politico-amministrativo: significa “assemblea di cittadini convocata”. Ciò non implica, tuttavia, un clero che conquista il potere né un governo che si autoproclama “di Dio”. Indica piuttosto una comunità di uomini rigenerati, chiamati fuori dai regni del mondo e convocati nel Regno di Dio, che vivono la signoria di Cristo nella storia e la irradiano in ogni ambito, compresa la sfera pubblica, come una città posta sul monte o come una lampada che non può essere nascosta.
Non si tratta di rivoluzione né di potere sacralizzato. È semplicemente la fede obbediente che diventa cultura a tutto tondo, per riprendere l’espressione di Henry Van Til: una religione che si esternalizza e porta frutto; una cultura che dà forma alle istituzioni; una società che si trasforma perché le persone vengono trasformate. In piena coerenza con il contesto del Grande Mandato, l’obiettivo è fare delle nazioni discepoli di Cristo, insegnando loro tutto ciò che il nostro Signore ha comandato.
In questo quadro il Regno di Dio non “battezza” Roma, né conferisce legittimità sacrale ai sistemi dispotici degli uomini. Al contrario, mediante la rigenerazione e l’obbedienza ai termini del Patto sotto Yahweh, il Regno di Cristo mira progressivamente a sostituire i regni umani, rivelandone la fragilità, la disfunzionalità e l’idolatria. Questi sistemi non crollano per violenza, ma perché diventano superflui dinanzi a una civiltà rinnovata e più giusta. Il processo può richiedere secoli o millenni: il tempo e la storia appartengono a Dio. A noi spetta l’obbedienza, qui e ora, anche quando ciò comporta, come sembra nel nostro presente, semplicemente resistere al male e chiamare al pentimento.
In ambito teonomico, dunque, conserviamo la fiducia che la testimonianza cristiana, la fedeltà al Patto, la vitalità culturale delle comunità dei credenti e la loro responsabilità economica e sociale possano generare un ordine sociale nuovo, alternativo all’umanismo secolare apostata. È un processo decentrato, dal basso verso l’alto: anima dopo anima, famiglia dopo famiglia, comunità dopo comunità.
L’autore sostiene che il teonomismo “non distingue” i tre aspetti della Legge.
Questo, tuttavia, è semplicemente falso. Bahnsen, in Theonomy in Christian Ethics, così come in Con Questo Standard[5], dedica centinaia di pagine a spiegare in dettaglio queste distinzioni fondamentali.
La distinzione ricostruzionista differisce dal tradizionale modello scolastico-tomista (civile/cerimoniale/morale) perché:
• le leggi civili e penali non sono “arbitrarie”, ma applicazioni concrete della legge morale;
• il loro valore è permanente, finché non sia compiuto il loro scopo tipologico;
• molte di esse rivelano principi di giustizia che non dipendono dalla tipologia.
Il punto cruciale è il seguente: non siamo noi a decidere cosa sia “civile”, “cerimoniale” o “morale”; è la Scrittura a chiarirlo. Ridurre tutto ciò che Israele praticava penalmente all’“Antico Testamento superato” comporta conseguenze gravi:
• storicamente scorretto;
• teologicamente arbitrario;
• antibiblico (cfr. Matteo 5:17–19).
È inoltre importante precisare che non esiste alcuna implicazione razziale o etnico-nazionalistica nel teonomismo. L’autore cita il divieto di mescolanza etnica, ma si tratta di un comando cerimoniale, tipologico e cultuale, chiaramente affermato dai teonomisti fin dagli anni ’70. Attribuire al teonomismo idee di “purezza razziale” è quindi una calunnia.
La Ricostruzione Cristiana ha sempre condannato il razzismo come idolatria tribale, come ricorda chiaramente Rushdoony in Politiche della colpa e della compassione e in altri suoi scritti. La preoccupazione ricostruzionista non è mai stata l’esclusione etnica, ma la fedeltà alla legge di Dio e la denuncia di ogni forma di idolatria tribale o nazionale.
Qui emerge la più grande incomprensione da parte di Ad Fontes:
“Secondo i nazionalisti cristiani… lo Stato deve imporre i valori cristiani.”
Sì, questo è l’errore del nazionalismo cristiano, ma non riguarda il teonomismo che viene impropriamente tirato in ballo nell’articolo. Rushdoony, infatti, ha prodotto una delle critiche più radicali e dettagliate allo Stato moderno nel XX secolo. Per la Ricostruzione Cristiana, lo Stato moderno è intrinsecamente:
• idolatrico;
• messianico;
• totalizzante;
• anticristico (cfr. Apocalisse 13).
Di conseguenza:
• Lo Stato non va “cristianizzato”;
• Lo Stato moderno, di matrice greco-illuministica, va superato nella sua concezione totalizzante e bestiale;
• Il governo civile, correttamente inteso come magistratura al servizio di Dio (Romani 13:4), deve limitarsi esclusivamente all’amministrazione della giustizia retributiva;
• Il governo civile è solo una delle sfere ordinate da Dio ed opera per la Sua Legge.
Il nostro modello si fonda su un sistema di sfere di sovranità: famiglia, Chiesa, economia, associazioni, professioni, comunità e magistratura, ciascuna direttamente responsabile davanti a Dio e nessuna sovrana sulle altre.
Il nazionalismo cristiano aspira a un potere centralizzato “cristianizzato”; la Ricostruzione Cristiana, invece, promuove una decentralizzazione radicale delle istituzioni, tutte sottoposte alla guida normativa della Legge di Dio. Si tratta di due visioni antitetiche, e confonderle equivale a un grave errore concettuale, se non a una distorsione deliberata.
Occorre quindi interrogarsi su ciò che la Parola di Dio insegna riguardo al governo civile. Sorprendentemente, molti evangelici oggi ritengono che la Scrittura non abbia nulla di particolarmente rilevante da dire al riguardo e si rifugiano in una ritirata passiva. Altri, al contrario, assumono in automatico che la politica non possa che essere pensata esclusivamente secondo le categorie dello Stato moderno: un concetto già presente in forma embrionale nel pensiero greco, rielaborato dall’umanismo illuminista e infine consolidato nei sistemi democratici occidentali. Questo paradigma ha generato prospettive fuorvianti: per esempio l’idea che, sfruttando una presunta neutralità della sfera pubblica, i cristiani possano cooperare con i non credenti facendo leva su una versione eccessivamente lasca di “legge naturale” e un concetto assai gonfiato di “grazia comune”, sperando così di “impattare” in modo significativo la cultura del Paese, soprattutto a mo’ di testimonianza evangelica. Altri ancora si persuadono di dover conquistare i vertici dello Stato contemporaneo. E non mancano, seguendo Wolfe e posizioni affini, coloro che immaginano l’ascesa di un princeps cristiano che trasformi la società verticisticamente.
Il teonomismo, invece, considera lo Stato moderno un sistema da superare tout court, poiché intrinsecamente bestiale ed anticristico, cioè ostile alla signoria di Cristo e animato da pretese divine illegittime. Più precisamente, attraverso l’obbedienza pattizia e il fedele adempimento del mandato culturale, i rigenerati daranno vita ad istituzioni che riflettono un maggiore timore del Signore, rendendo progressivamente superfluo lo Stato umanista e le sue “offerte”. In questo quadro, lo stesso termine “Stato” deve essere ripensato: nessun teonomista intende farlo proprio cristianizzandolo. È più adeguato, alla luce della Scrittura, parlare di governo civile come magistratura; di sfere di sovranità – individuo, famiglia, Chiesa, professioni, comunità – e di un autogoverno radicato nella pietà. Il potere non si concentra né si incarna pericolosamente nella spada di uno Stato che pretende di essere “dio in terra”; è invece distribuito e regolato all’interno delle varie istituzioni, ciascuna delimitata dai confini che Dio stesso ha stabilito.
L’autore afferma: “Gli errori nascono dall’applicare alla nazione moderna ciò che era dato ad Israele.”
Questa osservazione è corretta se si fa riferimento esclusivamente all’aspetto tipologico di Israele. Tuttavia, il punto cruciale non è se Israele fosse unico – lo era indubbiamente – bensì un altro:
La legge di Dio, quando rivela principi di giustizia universale, mantiene ancora la sua validità universale? Oppure la legge morale vincola soltanto la vita privata del credente? L’omicidio è tale solo nel cuore del fedele o resta anche un crimine civile? La falsa testimonianza è peccato solo davanti a Dio o costituisce anche ingiustizia sociale?
Affermare che la legge civile non abbia alcuna rilevanza oggi significa introdurre una dicotomia antibiblica tra morale privata e giustizia pubblica.
L’alternativa non è tra teonomia e sacralismo. L’alternativa è la legge di Dio o la legge dell’uomo. La neutralità non esiste: Van Til ha dimostrato che ogni ordine politico si fonda su un’etica ultima, che sia cristiana o anticristiana, ma mai neutra.
Nella prospettiva teonomica, non vi è terreno “neutro” o “naturale” al di fuori del Patto. Tutti gli uomini e tutte le nazioni, fin dalla creazione, si trovano in relazione pattizia con Dio. La legge morale, riassunta nei Dieci Comandamenti e sviluppata nelle applicazioni casistiche, non è quindi una legge riservata a Israele, ma la trascrizione della santità di Dio per l’uomo creato a Sua immagine. Essa vale per tutti, perché tutti portano ancora quell’immagine, anche se corrotta.
È per questo che i profeti non esitano a chiamare in giudizio le nazioni pagane applicando lo stesso standard:
• Amos 1–2 condanna Damasco, Gaza, Tiro, Edom, Ammon e Moab con la formula «per tre misfatti… e per quattro», citando violazioni della legge morale universale – omicidio, schiavitù disumana, crudeltà in guerra – senza mai sostenere che ai gentili valga solo una “legge naturale”.
• Giona è inviato a Ninive senza alcuna “traduzione culturale” della legge: il re comprende immediatamente che il giudizio di Dio si fonda sulla trasgressione della Sua norma assoluta.
• Isaia 24–27 (la cosiddetta “piccola apocalisse”) utilizza un linguaggio giuridico pattizio riferito a “tutta la terra”.
• Geremia 18:7-10 stabilisce la regola universale: se una nazione, qualunque essa sia, si converte dal male, Dio rinuncia al male che aveva intenzione di infliggerle; se invece persiste nel male dopo aver ricevuto il bene, Dio ritira la benedizione. Il criterio rimane invariabilmente la legge di Dio, non una vaga “legge naturale” culturalmente variabile.
Rushdoony riassumeva il principio in questi termini: non esiste alcuna sfera della vita o della società che sia “pattiziamente neutra”. Ogni uomo è o servo di Cristo nel patto di grazia, o schiavo ribelle nel patto delle opere spezzato; tertium non datur.
L’autore descrive il postmillenarismo come una sorta di utopia terrestre trionfalistica, da costruire mediante lo sforzo umano – un’impostazione che riecheggia l’errore del Vangelo Sociale tra fine Ottocento e inizio Novecento.
Si tratta di una rappresentazione completamente errata. Il postmillenarismo, così come insegnato da eminenti studiosi e insegnanti (Gentry, Kayser, Chilton, Gore), afferma:
• Non è la Chiesa ad instaurare il Regno: è Cristo che porta avanti il Suo Regno mediante lo Spirito Santo.
• La Chiesa non “conquista il mondo”: il Vangelo rigenera i cuori, e cuori rigenerati trasformano progressivamente le culture.
• La cosiddetta “nuova era dorata” non è un’utopia politica: si tratta di un processo storico derivante dall’opera della grazia di Dio.
• Il progresso del Regno è lento, organico e spesso invisibile; non è rivoluzionario né violento.
Questa visione è condivisa dai Puritani, i teologi scozzesi, Jonathan Edwards e William Carey. Anche figure come Charles Spurgeon, pur non sistematizzando un postmillenarismo esplicito, ne condivisero aspetti centrali: l’ottimismo del Regno, la potenza trasformativa del Vangelo e la certezza del progresso storico del dominio di Cristo. Non si tratta dunque di un’invenzione americana del XXI secolo. Presentare Doug Wilson o Apologia (Jeff Durbin) come paradigma del postmillenarismo ignora secoli di dottrina riformata precedente.
La Bibbia stessa, sul piano della traiettoria storico-escatologica, mostra per il popolo di Dio e per il Suo Regno un disegno ben diverso da quello immaginato dalle strutture stataliste moderne. Cristo ammonisce i Suoi discepoli a non imitare la logica del mondo, dove l’autorità si esercita come dominio mascherato da benevolenza: «I re delle genti le signoreggiano, e coloro che hanno autorità sopra di loro sono chiamati benefattori. Ma voi non fate così» (Luca 22:25-26).
La visione profetica della storia redenta è altrettanto chiara: «Poiché la terra sarà piena della conoscenza dell’Eterno, come le acque coprono il mare» (Abacuc 2:14). I profeti indicano inoltre che, lungo il corso della storia, questa conoscenza trasformerà radicalmente le relazioni tra le nazioni: «E trasformeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in falci; una nazione non eleverà più spada contro l’altra e non impareranno più la guerra» (Isaia 2:4).
Questa immagine non descrive dominio coercitivo, ma pace, prosperità e riconciliazione, frutto della progressiva sottomissione dei cuori alla legge di Dio. In ultima istanza, come conferma l’apocalisse biblica, i regni degli uomini saranno infine sottomessi al Regno di Dio: «E i regni del mondo sono diventati i regni del nostro Signore e del suo Cristo, e regnerà nei secoli dei secoli» (Apocalisse 11:15). Il potere umano non è quindi sostituito o legittimato artificialmente: il Regno di Cristo si realizza attraverso l’obbedienza, la conversione e la trasformazione culturale, non mediante coercizione politica.
L’articolo, pur criticando giustamente il nazionalismo cristiano, presenta una scelta binaria che la Bibbia non contempla:
• o un Regno puramente spirituale, privo di implicazioni civili;
• o un sacralismo politico imposto dal potere civile.
La Ricostruzione Cristiana rifiuta entrambe le alternative. La via biblica è invece la seguente:
• Cristo regna ora – il Suo regno ha implicazioni su tutte le sfere della vita;
• La Chiesa predica (anche e soprattutto ai magistrati!) e amministra i mezzi di grazia;
• Lo Spirito Santo rigenera i cuori;
• Cuori rigenerati producono cultura, responsabilità, istituzioni giuste;
• Il governo civile si limita alla giustizia (“reati”), non alla correzione dei “peccati”;
• La legge di Dio è norma di giustizia, non strumento di conversione forzata;
• Il progresso avviene dal basso verso l’alto, attraverso popoli rinnovati, non mediante élite politiche o uno Stato cristianizzato.
Questa è la posizione ricostruzionista, coerente con la tradizione riformata classica fino al XIX secolo.
È naturale che chi ascolta questa esposizione possa evocare inquietanti fantasmi del passato: episodi di pseudo-teocrazia, esperimenti malriusciti di commistione tra altare e trono, derive autoritarie e coercitive. Tali episodi, soprattutto quando riletti oggi attraverso categorie umaniste e illuministe, appaiono ancora più inquietanti e deprecabili. E, in moltissimi casi, lo sono davvero.
Tuttavia, quei “fantasmi” non appartengono esclusivamente al passato. Essi si ripresentano anche nel presente, sebbene camuffati, trasformati e talvolta quasi irriconoscibili. Basta un’osservazione attenta per riconoscerne le manifestazioni: lo statalismo moderno costituisce una forma di teocrazia secolarizzata, spesso più spietata e sanguinaria di quelle antiche. Negli ultimi secoli, sia in regimi apertamente totalitari, sia in contesti apparentemente democratici, lo Stato ha rivendicato poteri sempre più ampi, imponendo sacrifici enormi in vite umane, libertà personali e risorse collettive.
Ed è proprio su questo punto che occorre insistere: molti cristiani, formati fin dall’infanzia nelle categorie di pensiero dell’umanismo moderno e nelle prassi politiche contemporanee – spesso rivestite e adornate di un linguaggio cristiano – non colgono quanto la pretesa dello Stato moderno di definire autonomamente ciò che è bene e ciò che è male configuri una vera e propria teocrazia secolarizzata. Tale pretesa si accompagna a una naturale tendenza ad ampliare progressivamente la propria sfera di controllo, intervenendo in modo sempre più invasivo nella vita civile, familiare, religiosa, economica e culturale del Paese. Sono derive che, pur celate dietro procedure democratiche, riproducono le stesse pretese totalizzanti tipiche di una teocrazia, solo mascherate da istituzioni apparentemente neutrali. Oggi, proprio come nell’antica Roma pagana, lo Stato si presenta con marcati tratti messianici: come sovrano dispensatore di pace e salvezza (civile), e come definitore di bene e giustizia.
Se è comprensibile provare repulsione per episodi del passato, come il celebre caso di Serveto a Ginevra, occorre tuttavia riconoscere che, nel corso della storia, anche (e soprattutto) teologie pietistiche, luterane, riformate ed evangeliche hanno talvolta contribuito, direttamente o indirettamente, a generare forme di tirannia: alcune esplicite e brutali, altre più sottili ma non meno pericolose. Dal nazionalsocialismo, maturato in un contesto largamente luterano, fino alle moderne espressioni di illiberalismo democratico che caratterizzano oggi la caotica vita civile di tante democrazie occidentali dove opera una chiesa pietista: la storia offre esempi eloquenti del rischio insito in un potere politico che, pur dichiarandosi neutrale, assume di fatto prerogative divine.
Il nazionalismo cristiano commette l’errore:
Ad Fontes, invece, commette l’errore opposto:
La Ricostruzione Cristiana si colloca nella via biblica:
Solo questo:
Cristo Signore su tutto; la Sua legge come norma di giustizia; il Suo Spirito come forza di rinnovamento; la Chiesa come annuncio; la società come frutto; i magistrati come ministri (diaconi) della giustizia; nessuna istituzione come dio in terra.
Questa è la fede riformata.
Questo è il teonomismo biblico.
Questo è ciò che la Ricostruzione Cristiana teonomista e postmillenarista insegna e che né i nazionalisti cristiani né Ad Fontes sembrano aver compreso.
Note:
[1] A tal fine, qualche tempo fa abbiamo tradotto i sottotitoli di Onora il figlio, un film di Nathan Anderson che approfondisce l’attuale dibattito sul punto d’incontro tra fede e politica, sul postmillenarismo, sul nazionalismo cristiano e sul dovere dei governanti di sottomettersi a Cristo. (Sinossi: Il dibattito su fede e politica è diventato più acuto negli ultimi anni, termini come “nazionalismo cristiano” e “teocrazia” sembrano essere costantemente sulla bocca di opinionisti e politici, soprattutto dopo l’ascesa di Donald Trump. In quanto cristiani credenti della Bibbia sembra un momento importante per porsi domande come queste: cosa insegna la Bibbia sul legame tra fede e politica? E cosa significa per i governanti onorare il figlio ed obbedirgli?). Vedilo qui attivando i sottotili in italiano: https://www.cristoregna.it/risorse/onora-il-figlio/
[2] https://www.adfontesmedia.it/magazine/speranza-mal-riposta-lerrore-del-nazionalismo-cristiano
[3] https://chalcedon.edu/resources/articles/a-stone-cut-without-hands
[4] https://chalcedon.edu/resources/articles/the-wise-shall-shine