RISORSE:

Visione del mondo e Vangelo: il cortocircuito della civiltà cristiana

Introduzione: una crisi di visione, non solo di dottrina

La crisi attuale del cristianesimo occidentale non si configura primariamente come una questione teologica in senso stretto. Essa si manifesta, innanzitutto, come una crisi della visione del mondo: l’errore fondamentale non risiede tanto nell’adesione a dottrine formalmente corrette o meno, quanto nell’assunzione di una concezione della realtà che, in misura crescente, va discostandosi dalla centralità e dall’autoritatività normativa della Parola di Dio, orientandosi invece verso paradigmi umanistici, secolarizzati e pragmatici. Tale scarto genera un profondo cortocircuito, una drammatica discontinuità strutturale, un’incongruenza radicale tra presupposti e messaggio cristiano, poiché il Vangelo, per essere pienamente compreso e proclamato con fedeltà nella sua interezza, richiede obbligatoriamente una visione del mondo che ne costituisca il fondamento e l’ambiente vitale.

Genesi e non Giovanni: alle radici epistemiche del Vangelo

È importante considerare come sia la Scrittura stessa ad istituire un ordine epistemico e narrativo di assoluta chiarezza. Non è casuale, né meramente convenzionale, che la Bibbia inizi non con Giovanni 3:16 – come l’evangelicalismo spesso sembra invece ritenere – ma con Genesi 1:1: “In principio Dio creò i cieli e la terra”. Tale scelta non risponde a una semplice cronologia, bensì a una profonda intenzionalità teologica. Affinché la salvezza e la proclamazione della shalom divina possano essere comprese ed accolte nella loro piena dimensione cosmica, esse devono presupporre un atto creativo, un ordine ontologico e morale, nonché un governo divino della storia. Il Vangelo non si configura come un messaggio religioso astratto, rivolto esclusivamente all’individuo, ma come un annuncio oggettivo della signoria di Cristo sull’intero ordine creato. Questo proclama regale implica necessariamente una visione del mondo coerente e articolata, che comprende una cosmologia, una teologia, un’antropologia, una pedagogia, una storia e una legge.

La visione del mondo come struttura portante della fede

Risulta, dunque, evidente come la visione del mondo non sia un elemento accessorio della fede cristiana, ma ne costituisca il fondamento strutturale: la cornice e la prospettiva interpretativa all’interno della quale comprendere e dispiegare il pensiero e l’azione.

Ognuno possiede una visione del mondo che radica le sue decisioni quotidiane in presupposti metafisici e morali, non sempre coscientemente riflettuti o sistematicamente esplicitati. La fede cristiana non può limitarsi a convinzioni devozionali o dottrinali espresse in un vuoto concettuale o in un panorama filosofico estraneo a quello delineato dalle Scritture, ma ha da esprimere, come affermava Francis Schaeffer, “una verità totale, riguardante l’intera realtà”.[1] La Buona Novella non può essere propagata né vissuta coerentemente al di fuori di una complessa struttura di pensiero compatibile con la rivelazione biblica. Ignorare questa dimensione compromette l’integrità della fede vissuta.

A questo proposito, Phillip E. Johnson ha evidenziato un’incoerenza diffusa nel cristianesimo contemporaneo:

Ogni individuo è guidato da una visione del mondo che orienta il suo pensiero, spesso inconsapevolmente. Non è raro incontrare persone che si professano cristiane, frequentano la chiesa e talvolta ricoprono ruoli di responsabilità, ma trascurano i principi cristiani nelle decisioni pratiche, relegandoli ad una sfera mentale distinta. Possono credere che Gesù ritornerà per giudicare il mondo, ma vivere come se gli unici standard rilevanti fossero quelli del mondo presente.[2]

Capiamo bene come ogni persona sia portatrice di una visione del mondo che influenza profondamente pensiero e azione, spesso in modo implicito e non riconosciuto. Quando questa visione, pur dichiarandosi cristiana, è invece plasmata, o anche soltanto parzialmente influenzata, da categorie culturali secolari, la testimonianza pratica ne risulta gravemente pregiudicata. Succede così che, pur aderendo a una certa ortodossia teologica, si finisca per vivere e decidere secondo logiche che riflettono un immaginario deformato, dove la signoria di Cristo non abbraccia realmente e pienamente ogni ambito dell’esistenza, se non a parole. L’apparente coerenza con l’insegnamento cristiano si rivela, quindi, puramente formale, poiché la fede o finisce per essere sfigurata da standard di giudizio “contaminati” da sistemi etici non biblici o viene direttamente dissociata dalla concretezza della vita quotidiana.

Per tal ragione, è opportuno precisare come le confessioni di fede, pur necessarie, non sono sufficienti per scortare la chiesa verso una testimonianza efficace, poiché sarà la visione del mondo a orientare la teologia pubblica. Temi quali l’aborto, l’unione omosessuale, le politiche ambientali, la giustizia sociale, la gestione della salute pubblica, l’economia, il sistema monetario, il concetto di sovranità e la funzione dello Stato non si collocano ai margini della riflessione teologica, ma ne costituiscono il banco di prova più concreto. Eppure, ciò a cui assistiamo oggi è una crescente disgiunzione tra ciò che molti credenti affermano con le labbra nelle confessioni di fede e la visione del mondo che realmente li guida nel valutare tali questioni.

Si consideri, ad esempio, che è oggi perfettamente possibile aderire formalmente alla Confessione di Fede di Westminster e, nello stesso tempo, sostenere con zelo misure statali coercitive in ambito sanitario, giustificare crimini compiuti da potenze geopolitiche alleate o sposare in modo acritico la narrazione dominante su guerre e agende dai tratti totalitaristi. Non si tratta di eccezioni, ma di una tendenza sempre più diffusa. Questo fenomeno denuncia un tragico scollamento tra teologia e prassi, tra dottrina e discernimento: sintomo di una fede che ha perso la capacità di giudicare l’interezza della realtà alla luce della sovranità di Cristo.

È proprio questa cesura tra teologia ortodossa e visione del mondo operativa a rendere urgente un ritorno alla narrazione biblica come struttura portante per comprendere la realtà. La Scrittura non ci consegna soltanto dottrine da credere, ma propone un’interpretazione unitaria del mondo e della storia, all’interno della quale ogni evento e ogni scelta trovano il loro significato, allontanandoci al contempo da pericolose contaminazioni estranee alla rivelazione.

Un esempio di visione contaminata: il dualismo gnostico

A tal proposito, risulta particolarmente significativa e puntuale l’analisi formulata da Stephen C. Perks, il quale, in modo curioso ma indicativo, si definisce worldview missionary (missionario della visione del mondo). Nel suo volume Ammaestrare le nazioni, l’autore britannico denuncia le derive ideologiche che, nel corso dei secoli, hanno ostacolato la missione della Chiesa nel realizzare il Grande Mandato. Tra queste, egli mette in evidenza un esempio emblematico di visione del mondo distorta: il dualismo gnostico, alimentato da un’antropologia di matrice animistica e sostenuto da una spiritualità pietista, oggi ancora largamente diffuso, persino tra cristiani sinceri di ogni denominazione e confessione.

Secondo Perks, “lo gnosticismo continuerà in vari modi a minare la fede cristiana fino a quando l’antropologia che lo sorregge e lo guida non verrà combattuta ed eradicata”.[3] Tale processo di liberazione non sarà possibile finché non verrà respinta la concezione greco-romana dell’anima, la quale, per secoli, ha contaminato la visione cristiana della realtà. Questo dualismo, che si manifesta nella contrapposizione tra spirito e materia, ha dato origine a quella che Anders Nygren ha definito “visione del mondo alessandrina”,[4] antitetica alla struttura biblica Creazione–Caduta–Redenzione. Quando quest’ultima non funge da fondamento per la comprensione dell’ordine creazionale, ma viene subordinata a categorie filosofiche pagane, il cristianesimo si snatura, degenerando in un sistema sincretistico, spiritualista e privo di efficacia concreta.

Perks sottolinea con forza che, “finché i cristiani non si sbarazzeranno di questa traccia di animismo dalla loro antropologia”,[5] il dualismo continuerà ad inficiare e paralizzare l’azione della Chiesa nel mondo. Infatti, non è possibile ammaestrare le nazioni se si ritiene che la salvezza consista nella fuga dalla realtà creata. Al contrario, la Scrittura proclama la redenzione del corpo, un riordino totale dell’ordine creato sotto l’egida di Cristo Re (shalom), non la liberazione dalla materia: attraverso l’obbedienza etico-giuridica dei santi secondo il Patto di Grazia, il Regno di Dio deve crescere fino a destituire e soppiantare gli ordini sociali secolari e idolatrici che dominano le nazioni – è questa la traiettoria storico-escatologica prospettataci dal racconto redentivo.

Il risultato del dualismo pietista appare dunque paradossale: proprio mentre la Chiesa pretende di custodire la “spiritualità”, finisce per consegnarsi, mani e piedi, ai valori mondani. Perks lo evidenzia con tono insieme lucido ed ironico:

Com’è possibile che i valori di questa nostra società senza dio finiscano per dominare la vita della Chiesa, quando la spiritualità prevalente in essa è dualistica, dal momento che il dualismo gnostico non è certo la religione del secolarismo moderno? Ciò accade poiché il dualismo va a rimuovere la maggior parte di ciò che significa essere cristiani dall’ambito della vita quotidiana e lo trasferisce nell’ambito spirituale. Ciononostante, tutti hanno da vivere nel mondo reale, anche i dualisti pietisti. E così, senza una prospettiva cristiana che guidi i loro pensieri e la loro vita nel mondo reale di tutti i giorni, dato che la fede non è vista come rilevante per esso, i cristiani inconsapevolmente finiscono per assorbire i valori del mondo che li circonda come mezzo per affrontare la vita quotidiana. A questi valori può anche essere data una patina cristiana così da farli apparire come cristiani, ma rimarranno pur sempre i valori del mondo. Abbigliare una scrofa con un bel vestito, perle e rossetto non significa che essa saprà comportarsi con decoro e civiltà quando invitata a bere il tè. E così avviene che la Chiesa si corrompe con i valori del mondo e il Regno di Dio, che Gesù ci ha detto di fare diventare l’obiettivo centrale della nostra vita, viene trasferito in un regno spirituale, inservibile per la vita reale.[6]

Risulta dunque evidente come la fede cristiana – anche laddove si conservi una certa ortodossia teologica ed ecclesiologica – rischi di perdere ogni incisività pubblica se non è sorretta da una visione del mondo esaurientemente informata da presupposti veracemente biblici. In tal caso, i valori del Regno vengono relegati nel reame dell’irrealtà e della spiritualità soggettiva. E così, privi di una guida biblica onnicomprensiva per la vita quotidiana, i cristiani finiscono automaticamente per “appoggiarsi” sui valori secolari che dominano la scena pubblica.

Visione del mondo come fondamento filosofico

Alla luce di quanto detto finora, possiamo comprendere come ridurre il Vangelo a una questione puramente personale o spirituale – come spesso accade in ambito evangelico – sia uno dei segnali più evidenti del modo in cui la Chiesa moderna, coscientemente o meno, ceda terreno alla visione secolare del mondo e alla prominenza della ragione umana (umanismo). Quando il messaggio cristiano viene ridotto alla sola dimensione religiosa e tenuto separato dalla politica, dall’educazione, dall’economia, dal diritto, ecc., perde la sua forza regale, cioè la sua capacità di trasformativa. Così facendo, la realtà viene frammentata, perdendo quella coerenza, unità e regia interpretativa che solo una visione radicata in Dio può garantire.

Difatti, come ha spiegato il filosofo cristiano riformato Herman Dooyeweerd, ogni aspetto della realtà possiede una dimensione spirituale, poiché non esiste alcun ambito della vita che sia “neutro” o completamente indipendente da Dio.[7] Nella sua Filosofia della Cosmonomia, Dooyeweerd introduce il concetto di world-and-life-view (visione del mondo e della vita), un quadro interpretativo religiosamente radicato che orienta ogni pensiero e azione umana, collegando ogni sfera dell’esistenza alla sovranità divina. Secondo il filosofo olandese, comprendere davvero il mondo significa necessariamente riconoscere l’essere umano nella sua relazione fondamentale con il Creatore e le Sue regole.

È dal cuore dell’uomo che scaturiscono le grandi domande e le convinzioni religiose che modellano la sua visione della vita e della realtà; l’uomo caduto, però, assumendo sé stesso come misura ultima di tutte le cose, tenta di fondare la verità esclusivamente sulla propria ragione, eludendo la rivelazione divina. Ma le leggi fondamentali che regolano l’esistenza – come il bene, la giustizia o la bellezza – non hanno origine in noi, ma in Dio, che le ha stabilite e continua a sostenerle: si tratta di principi fissi e in nessun modo soggetti al nostro arbitrio. Pertanto, nel momento in cui si ignora la struttura normativa divina che permea e connette ogni aspetto della realtà, il pensiero e l’azione umana diventano inevitabilmente frammentati e incoerenti. Le leggi elaborate in modo autonomo all’interno delle singole discipline – come l’economia, la politica, la scienza o persino la teologia, quando ridotta a un sistema di dogmi astratti e scollegati dalla vita concreta – cessano di rispondere in modo armonico all’ordine stabilito da Dio. Ecco, quindi, che il risultato è un crescente disordine, fatto di contraddizioni, tensioni e perdita di significato, poiché si smarrisce l’unità originaria impressa da Dio nella creazione.

In questa prospettiva, diventa necessario riconoscere che la visione del mondo cristiana non può essere assunta come uno sfondo implicito o un’opzione tra le altre, ma dev’essere formulata in modo esplicito, consapevole e sistematico. Cornelius Van Til ha insistito con forza sul carattere ineludibilmente presupposizionale di ogni pensiero umano. Non esiste alcuna ragione pura o piattaforma epistemologica comune tra credente e non credente: ogni sistema di pensiero si fonda su premesse ultime, di natura religiosa, che determinano l’interpretazione della realtà. “Il problema fondamentale non è semplicemente quello di difendere l’esistenza di Dio, ma quello di difendere il Dio della Scrittura come condizione necessaria per qualsiasi intelligibilità”.[8]

Per Van Til, dunque, la neutralità epistemica è una finzione: il sapere umano è inevitabilmente teologico, e l’autonomia della ragione moderna, anche e soprattutto quella espressa dai credenti, non è altro che una forma di apostasia intellettuale. Come ha sottolineato efficacemente R.J. Rushdoony, commentando proprio Van Til, “il significato di ogni fatto nell’universo deve essere messo in relazione con Dio”.[9] Il mondo creato, infatti, esiste e trova significato solo nella misura in cui è stato concepito da Dio e ordinato secondo il Suo decreto sovrano. In questo senso, “ogni fatto è un fatto creato da Dio ed interpretato da Dio, e questo mondo esiste solamente in qualità di mondo creato da Dio e interpretato da Dio”.[10]

Di conseguenza, il cristiano non può permettersi di affrontare la complessità della vita senza riferirsi costantemente alle coordinate normative e interpretative offerte dalla rivelazione divina. Come ha ammonito J. Gresham Machen: “Ogni cosa deve essere messa in relazione con il Vangelo: dev’essere studiata, o per dimostrarne la falsità, o per renderla utile all’avanzamento del Regno di Dio” (corsivo mio).[11] Solo così la conoscenza e l’agire del credente possono essere riportati sotto la signoria di Cristo, ritrovando quell’unità e quella coerenza che solo una visione cristiana del mondo può assicurare.

L’apostolo Paolo dichiara che il compito del cristiano è quello di “abbattere i ragionamenti e ogni altezza che si eleva contro la conoscenza di Dio, facendo prigione ogni pensiero fino a renderlo ubbidiente a Cristo” (2 Cor. 10:5). Una visione del mondo cristiana autentica non si limita a sopravvivere accanto alle ideologie dominanti e non si accontenta di prendere in prestito elementi di queste, ma le sfida alla radice, esponendone le contraddizioni interne e proponendo un’alternativa che riconduce ogni ambito della vita al Signore Gesù Cristo, “in cui tutti i tesori della sapienza e della conoscenza sono nascosti” (Col. 2:3).

La visione del mondo come sistema operativo nel discente

Se, come abbiamo visto, ogni forma di conoscenza si fonda su presupposti religiosi che ne determinano il significato e la portata, allora l’istruzione — in modo del tutto particolare — deve essere riconosciuta non come un’attività neutra o meramente tecnica, ma come una delle espressioni più incisive e determinanti nell’elaborazione di una visione del mondo autenticamente cristiana. L’educazione non forma soltanto menti: forma cuori, identità, e, in ultima analisi, fedeltà. Dietro ogni curriculum, ogni modello pedagogico, ogni programma scolastico, si cela una certa concezione dell’essere umano, della verità, della realtà e del destino ultimo dell’uomo. Lungi dall’essere una questione secondaria o “profana”, l’istruzione si colloca dunque al centro del conflitto tra la visione del mondo cristiana e le visioni alternative che competono per il cuore e la mente delle nuove generazioni.

Anche in questo ambito, quindi, la pretesa neutralità si profila come una finzione teorica subdola: non esiste educazione “pura”, né una trasmissione di conoscenze priva di connotazioni valoriali. Come osserva lucidamente G.K. Chesterton: “Ogni istruzione insegna una filosofia; se non con un dogma, allora con un suggerimento, per implicazione, per atmosfera. Ogni parte di quella istruzione è collegata con ogni altra parte. Se tutto ciò non si combina per trasmettere una visione generale della vita, non è istruzione affatto.”[12]

L’educazione è sempre una catechesi, esplicita o implicita. O introduce i giovani a un ordine di senso che parte da Dio e culmina nella Sua gloria, oppure li addestra – più o meno subdolamente – ad adorare un altro dio: l’uomo, la scienza, lo Stato, il mercato. È, quindi, un fatto tragico constatare come oggi molti genitori cristiani deleghino l’educazione dei propri figli a istituzioni che, nella loro struttura filosofica e nei loro contenuti, sono apertamente fondate su una visione umanista e statalista. Questo paradosso viene colto con grande lucidità da Tom Smedley, che osserva:

La realtà è che la visione del mondo dominante tra molti cristiani, indipendentemente dalla loro confessione, è l’umanesimo secolare. Questo rappresenta il sistema operativo mentale di base, il programma invisibile che determina ciò che consideriamo “normale”. È il tipo di formazione che noi stessi abbiamo ricevuto: un percorso educativo in cui la Persona, l’Opera e la Parola di Dio vengono sistematicamente escluse fin dall’inizio – e questo per 12, 16 o perfino 20 anni. In tal maniera, la religione cristiana viene trattata come una semplice applicazione, un software da installare dall’esterno: un programma opzionale, tollerato solo in settori isolati e protetti, privo di qualsiasi influenza reale sul funzionamento complessivo del sistema. Così, molti genitori cristiani affidano a “Cesare” – cioè, allo Stato o a un’istruzione secolarizzata – i figli che Dio ha invece affidato alla loro cura. Poi, però, si stupiscono quando quei figli tornano a casa pensando e agendo come piccoli romani.

Smedley mette in luce una contraddizione tanto diffusa quanto tragica: da un lato si proclama con convinzione “Cristo è il Signore”, dall’altro si smentisce tale confessione affidando l’ammaestramento dei propri figli a sistemi educativi che escludono sistematicamente Dio come principio esplicativo e normativo della realtà — e dunque come Signore dell’intero ordine creato, non solo del cuore umano.

Il problema, come sottolineava Van Til, è che persino i fatti di una cosiddetta scienza “dura” come la matematica assumono significati radicalmente diversi a seconda della visione del mondo che li inquadra e li interpreta:

Il fatto che due per due faccia quattro non significa lo stesso per [il] credente e per [il] non credente. Quando pensi a due per due uguale quattro, colleghi tale fatto con la legge numerica. E quando colleghi questo fatto con la legge numerica, devi collegare la legge numerica con tutte le leggi. La domanda che ci si pone allora è se la legge esiste di per sé o è un’espressione della volontà e della natura di Dio. Quindi il fatto che due per due faccia quattro ti permette di coinvolgerti più profondamente nella natura e nella volontà di Dio. D’altra parte, quando un non credente dice che due per due fa quattro, considera questa legge indipendente da Dio. Così il fatto che due per due fa quattro gli permette di allontanarsi sempre più da Dio.[13]

Ciò che il filosofo olandese ci insegna è che l’istruzione cristiana non si limita ad aggiungere versetti biblici a contenuti secolari, né può accontentarsi di “verniciare” l’istruzione dei nostri figli al fine di conferirgli una certa patina di spiritualità. Essa richiede una trasformazione radicale dei presupposti stessi dell’insegnamento: una reinterpretazione integrale del sapere alla luce della Parola di Dio, perché Cristo non è solo Signore del cuore, ma Signore della matematica, della letteratura, della storia e delle scienze naturali.

In questa prospettiva, la scuola – che sia familiare, comunitaria o istituzionale – non può essere pensata come una mera agenzia trasmissiva di contenuti, ma come il luogo in cui si forma una coscienza culturale cristiana. Un luogo in cui la totalità della realtà è ricondotta all’unità che le compete in Cristo. L’educazione, come ogni altro ambito della vita, deve essere redenta e riportata sotto la signoria di Gesù, altrimenti diventerà inevitabilmente uno strumento di apostasia culturale. La vera alternativa, pertanto, non è tra un’educazione “laica” e una “religiosa”, ma tra una visione del mondo che riconosce Dio come fonte e fine di ogni sapere e una che lo nega o lo ignora. Per questo, l’educazione cristiana non è un’opzione accessoria o un lusso per pochi eletti, ma un compito urgente e profetico per tutti coloro che confessano il nome di Cristo e desiderano vederlo glorificato anche nella mente e nelle vocazioni dei loro figli.

Come ogni campo della cultura, anche l’educazione deve essere diligentemente “resa prigioniera a Cristo” (2 Cor. 10:5), e ciò richiede una visione del mondo coerente, integrale e centrata sulla rivelazione di Dio, sulla Verità. Solo così potremo rispondere alla chiamata biblica di “ammaestrare tutte le nazioni” (Matteo 28:19), iniziando proprio da coloro che Dio ha affidato alle nostre case e comunità. Questo mandato non si limita alla conversione personale, ma chiama alla trasformazione delle nazioni attraverso l’insegnamento della Verità. Come sottolinea il filosofo cristiano Vishal Mangalwadi:

Un discepolo è uno studente. Un formatore di discepoli è un insegnante. Fare discepoli vuol dire istruire. L’Occidente, purtroppo, ha corrotto tutti e tre i termini. Consegnando il ministero dell’istruzione allo Stato, ha secolarizzato il ministero spirituale del discepolato [formazione/ammaestramento delle nazioni] e ha confinato tale concetto ad una sfera gnostica. Il problema non è che nell’evangelicalismo oggi manchi il discepolato; il problema è che l’idea è stata corrotta, spiritualizzata (vale a dire, reso esoterica).

Come affermava Rushdoony, la sfida del nostro secolo risiede proprio in ciò: “È urgente che i cristiani proclamino la rinascita dell’uomo in Cristo e la rinascita della società attraverso l’istruzione cristiana”.[14]

Visione del mondo e soteriologia

Questo ci porta ad affermare, insieme a P. Andrew Sandlin, che “la visione del mondo è un presupposto del Vangelo”. La Buona Novella ha senso solo all’interno di un universo morale; risulta invece priva di significato in un contesto in cui, per esempio, il peccato è ridotto a un mito del passato, Dio è concepito come una figura fluida o impersonale, la verità e la giustizia sono relative e la sessualità è ridotta a una costruzione sociale arbitraria – solo per citare alcune delle derive del pensiero contemporaneo. Questa affermazione impone di riconoscere una verità spesso trascurata: il Vangelo non è un messaggio astratto e disincarnato; esso richiede una cornice normativa e interpretativa coerente, una visione del mondo che ne renda intelligibile la portata.

In questo orizzonte si colloca anche la riflessione di Jean-Marc Berthoud, secondo cui la predicazione di una “mera salvezza” ha spesso indebolito il significato della Buona Novella. L’annuncio della giustificazione, egli osserva, è inseparabile dalla predicazione della giustizia, e dunque dalla legge di Dio. Senza una comprensione piena della legge divina, il Vangelo rischia di essere ridotto a un’esperienza emotiva o psicologica, non a una nuova creazione conforme a Cristo. Una visione del Regno senza legge è una visione priva di ordine, di standard, e quindi di potere trasformativo. Scrive Berthoud:

Il compito più urgente per la Chiesa oggi è il ristabilimento della legge di Dio [teo-nomia] e della dottrina biblica, la dottrina del regno di Dio. Con la predicazione della mera salvezza, chi è che non desidererebbe essere salvato? La salvezza a discapito della giustificazione ha fatto sì che gli ambienti evangelici e riformati finissero per spaventosamente diminuire le reali dimensioni della Buona Novella del regno di Dio. La predicazione della giustificazione implica giustizia ed ingiustizia. Questi sono gli obiettivi assoluti della legge di Dio, che definisce precisamente la natura della nostra ingiustizia — cioè, la disobbedienza alla legge — e della giustizia — cioè, la giustizia di Dio su di noi in Gesù Cristo, perfetto esecutore della legge, affinché anche noi come lui compissimo i comandamenti di Dio. La predicazione della giustificazione mediante la fede nella morte e risurrezione di Cristo è necessariamente una dottrina che richiede una predicazione chiara, dettagliata ed appropriata della legge di Dio. Troppo facilmente la predicazione della mera salvezza può semplicemente sostituire uno stato psichico d’ingiustizia con un altro stato psichico religioso d’ingiustizia, dando così luogo a tante conversioni immaginarie. La giustificazione porta alla salvezza. La rigenerazione conduce alla santificazione compiendo in Cristo le opere della fede, opere di giustizia che Dio ci ha ordinato di compiere fin da prima della fondazione del mondo. La predicazione della mera salvezza porta all’abbandono della legge di Dio, porta all’impossibilità pratica della santificazione. Da cosa, dunque, dovremmo mai separarci? (testo estratto da una lettera rivolta alla Chalcedon Foundation)[15]

Ma così come il Vangelo abbraccia molto più della sola salvezza individuale, allo stesso modo la visione del mondo si estende ben oltre i confini della teologia sistematica. Essa informa la totalità dell’esistenza e rappresenta la matrice da cui la teologia stessa è generata. Ci si potrebbe chiedere: perché, allora, molte comunità o associazioni cristiane, pur unite da una sincera adesione dottrinale – in particolare da una comune soteriologia biblica – non riescono a durare nel tempo? La risposta risiede nella crescente pressione culturale esercitata da un mondo sempre più sfacciatamente ostile al cristianesimo. In un simile contesto, la semplice unità attorno alle dottrine della grazia non sembra sufficiente per sostenere una comunione edificante, resistente e fruttuosa.

Negli ultimi anni, le sfide morali e ideologiche hanno invaso ogni ambito della vita sociale, penetrando con forza fin dentro la Chiesa. Questa irruzione ha costretto molti a uscire dai propri recinti ecclesiastici, a sospendere le consuete attività a base di teologie e devozionali, e a confrontarsi direttamente con le insidie della battaglia culturale – una battaglia che, per decenni, le chiese avevano cercato di eludere con atteggiamenti accomodanti o, talvolta, apertamente disinteressati.

Oggi diventa, quindi, sempre più evidente come una comunione fondata esclusivamente sulla soteriologia non sia destinata a reggere nel tempo. Non perché le dottrine della grazia siano irrilevanti, ma perché oggi sono in gioco questioni fondamentali legate alla visione del mondo e, di conseguenza, al grado di fedeltà biblica che una chiesa o un’organizzazione è capace di incarnare nella realtà concreta.

Per esempio, durante la crisi pandemica del COVID, molti cristiani hanno dovuto constatare con amarezza che una teologia apparentemente solida non garantisce necessariamente discernimento, coerenza e fedeltà. La teologia, infatti, è il frutto di una visione del mondo: se questa è distorta, anche una dottrina corretta rischia di essere applicata in modo compromesso o inefficace. Il nostro tempo richiede quindi un’opera improrogabile: il recupero, all’interno della Chiesa, di una visione del mondo autenticamente biblica, capace di generare una teologia non solo personale e “privata”, ma soprattutto “pubblica”, sistemica, applicabile all’intera realtà culturale e politica. Poiché i giudizi di Dio si abbattono sulle nazioni per i loro peccati collettivi e strutturali, anche il pentimento e le ricette risolutive devono essere nazionali, sistemiche, concrete e integrali — e dunque fondate su una teologia pubblica chiara e profetica.

Alla prova dei fatti, i cristiani che condividono una visione del mondo coerente rimangono uniti più saldamente e più a lungo di coloro che si accordano unicamente su questioni confessionali, ecclesiologiche o soteriologiche che siano. In definitiva, potremmo dire che è la visione del mondo a muovere e dirigere l’intero corpo della teologia, determinando la direzione in cui essa cammina, soprattutto nella “pubblica piazza”.

Visione del mondo e sistema etico‑giuridico

È proprio in questa sfera – la “pubblica piazza” – che si rivela con maggiore chiarezza la qualità effettiva della visione del mondo che i cristiani abbracciano. Più ancora che negli ambiti ecclesiastici o nella dimensione privata, è nell’arena culturale, politica ed economica che essa si mostra per ciò che è: una cartina di tornasole della coerenza e della profondità della fede professata.

Benché la questione dell’impegno pubblico del credente non sia inedita, il suo profilo odierno è stato profondamente rimodellato dal mutato contesto storico‑culturale: mentre all’epoca dei Riformatori e delle Confessioni di fede del XVI secolo la cultura civile era ancora, almeno nominalmente, permeata di categorie cristiane, la contemporaneità occidentale – fieramente post‑cristiana – presenta istituzioni che hanno reciso ogni legame con la rivelazione biblica e con la visione del mondo che ne scaturisce.

In tale scenario, il persistente ricorso alla legge naturale da parte di vari pensatori riformati come criterio regolativo per la sfera pubblica appare non soltanto anacronistico, ma teologicamente inadeguato. Tale orientamento, che potremmo definire neutralista o accomodazionista, affonda le radici in una recezione incompleta della Riforma: i primi Riformatori, operando in società ancora permeate da categorie morali cristiane, non avvertirono l’urgenza di elaborare una visione teonomica compiuta del diritto e della politica. Nella nostra epoca, che rigetta ogni autorità trascendente, quella lacuna diviene fatale per la testimonianza cristiana nello spazio pubblico. L’ambiguità ereditata da tale contesto ha prodotto una teologia pubblica ambigua e incerta, incapace di offrire risposte coerenti all’ordine secolarizzato.

Cornelius Van Til ha opportunamente affermato: “La fede biblica è totalizzante: o Cristo è Signore su tutto, o non è Signore affatto”.[16] Questo enunciato, lungi dall’essere mera provocazione retorica, costituisce una tesi teologica capitale: l’autorità regale e regolativa di Cristo non può essere confinata alla coscienza individuale né relegata alla sfera ecclesiastica, ma deve necessariamente estendersi in forma concreta, secondo lo standard bilbico rivelato, a ogni ambito dell’esistenza – culturale, civile, giuridico ed economico. Se il Vangelo è annuncio del Regno, quel Regno ha giurisdizione su tutto.

Alla visione sopra delineata si contrappone la prospettiva giusnaturalista, storicamente alimentata dalla sintesi tra cristianesimo e filosofia aristotelica, sistematizzata da Tommaso d’Aquino. Tale sintesi, che rappresenta il fondamento della Scolastica, ha esercitato una profonda influenza sulla civiltà occidentale, estendendosi in misura non trascurabile anche ad alcune correnti del protestantesimo contemporaneo. Tommaso attribuiva alla ragione naturale la capacità di discernere verità morali, politiche e teologiche in modo autonomo rispetto alla Scrittura, distinguendo tra lex naturalis e lex divina. Ne scaturì una visione del mondo e una teologia politica capaci di armonizzare elementi cristiani, aristotelici e giuridico-romani, contribuendo a delineare l’immagine di una civiltà occidentale frutto di questa fusione sincretica.

I Riformatori protestanti cercarono di rigettare tale impostazione, giudicandola un compromesso che attribuiva un ruolo eccessivo alla ragione umana a discapito della rivelazione divina. Già Calvino, e successivamente pensatori riformati come Abraham Kuyper e Cornelius Van Til, hanno denunciato con forza il sincretismo tra sapienza biblica e filosofia pagana, riaffermando l’autorità assoluta della Scrittura in ogni ambito dell’esistenza, compresi quelli giuridico e politico.

Tuttavia, con l’affermazione dell’epoca illuminista, l’influsso del giusnaturalismo all’interno del mondo protestante non è venuto meno; al contrario, esso ha continuato a manifestarsi con vigore, dando origine, in epoca recente, a formulazioni dottrinali come quella dei “Due Regni”. Tale dottrina propone una netta separazione tra la sfera sacra—soggetta all’autorità della Scrittura—e quella secolare, affidata alla guida della ragione naturale. In questo modo, la sintesi scolastica, sebbene trasfigurata, è riemersa, contribuendo alla progressiva secolarizzazione dell’etica e del diritto. Essa si fonda su un impianto teoretico che attribuisce alla legge naturale e alla grazia comune la funzione di strumenti sufficienti per l’ordinamento giusto e pluralista della società civile.

In questi contesti si promuove oggi una concezione dell’etica pubblica costruita intenzionalmente su basi naturali e razionali, considerate universalmente accessibili e valide anche per i non credenti. Ne deriva una netta delimitazione dell’autorità normativa della Scrittura alla sola sfera ecclesiale, mentre allo Stato viene riconosciuta un’autonomia etica e giuridica, purché rispettosa dell’ordine pubblico e della libertà religiosa. La legge mosaica – m e più in generale l’idea che la rivelazione divina abbia rilevanza per l’ordine politico – viene relegata, al più, a fonte di ispirazione morale, priva tuttavia di valore prescrittivo o normativo per le istituzioni civili.

Il risultato è una teologia politica che, pur mantenendo un lessico protestante e confessionale, ha finito per adottare in modo quasi acritico categorie concettuali mutuate dal pensiero classico e moderno – quali il bene comune, la neutralità dello Stato, la prudenza civile – riproducendo, in veste riformata, un impianto teorico di matrice aristotelico-tomista, impermeabile alla signoria pubblica di Cristo. Si delinea così una posizione che non solo marginalizza il ruolo della Scrittura nella sfera pubblica, ma rende teologicamente plausibile, se non desiderabile, la permanenza di un ordine politico post-cristiano e pluralista.

Ad oggi, come ha osservato Stephen C. Perks, “stati e governi secolari ed umanisti non riconoscono alcuna legge superiore alla propria”.[17] La dottrina del diritto naturale ha favorito l’affermazione di un’etica autonoma, svincolata dalla rivelazione divina, aprendo la strada tanto al relativismo morale quanto alla democrazia moderna. L’attribuzione di autonomia alla ragione ha condotto alla formazione di un ordine politico in cui lo Stato si erge a legislatore supremo, usurpando la prerogativa normativa che spetta a Dio.

Eppure, prima dell’avvento della concezione moderna della legge naturale, il diritto era tradizionalmente ricondotto a una fonte divina. Nella civiltà romana, ad esempio, la legge trovava la propria legittimità nella religione, almeno fino al processo di divinizzazione degli imperatori. In questa prospettiva, l’idea di una legge naturale autonoma appare come lo strumento attraverso il quale il Nemico ha sottratto a Dio la prerogativa legislativa per conferirla all’uomo. Si tratta, in termini teologici, di un vero e proprio colpo di mano: un atto di usurpazione della signoria divina sull’ordine giuridico. Lo Stato moderno, secolare e umanista, incarna compiutamente tale ribaltamento. Come osserva Stephen C. Perks, «nel fare di sé stesso la più alta legge nel paese, al di là della quale non c’è appello alla legge superiore di Dio, esso si mette di fatto al posto di Dio, rivendicando i suoi stessi attributi».[18]

In risposta a questa deriva secolarista, l’apologetica presupposizionalista di Cornelius Van Til ha riaffermato l’antitesi tra sapienza divina e umana, rigettando il compromesso giusnaturalista e proponendo una visione del mondo radicalmente fondata sulla Scrittura. Su queste premesse si è sviluppato, negli anni ’60 e ’70 del XX secolo, il movimento della Ricostruzione Cristiana, il quale ha elaborato con rigore una visione del mondo articolata e approfondita, promuovendo in particolare una teonomia che riconosce la legge biblica come norma autorevole per l’intero ordine sociale. R. J. Rushdoony, uno dei principali esponenti del movimento, ha sostenuto che ogni struttura sociale è inevitabilmente religiosa, poiché si fonda su presupposti morali e normativi ultimi: “Poiché c’è solo un vero Dio, e la sua legge è l’espressione della sua immutabile natura e giustizia, abbandonare la legge biblica per un altro sistema giuridico è cambiare Divinità. Il collasso morale della cristianità è un prodotto di questo corrente processo di cambiamento di dii”.[19]

Non esistono quindi sfere neutrali al di fuori della giurisdizione di Dio: la scelta non è tra religione e laicità, ma fra la sovranità di Dio e l’idolatria dell’uomo. Lo Stato, per esempio, non può essere realmente neutrale: o fonda la propria legislazione sulla rivelazione divina, oppure poggia su una visione del mondo alternativa, spesso umanistica e autoreferenziale. L’illusione della neutralità giuridica è una delle più grandi mistificazioni moderne, perché dissimula il trasferimento idolatrico della sovranità da Dio all’autonomia umana. Rushdoony prosegue sostenendo: “La legge di Dio è una legge totale: non è limitata a un segmento della creazione come la vita privata di una persona, la sua vita di chiesa, o qualsiasi altro ambito parziale. Proprio come la riforma non può venire con un mero cambio di politici, così non può venire semplicemente perché l’uomo l’applica ad un ristretto ambito di vita. Allorché gli uomini, nei termini della legge di Dio, porteranno il giudizio di Dio nei loro ambiti famigliari, nelle chiese, scuole, vocazioni lavorative, e nello Stato, allora anche le corti di giustizia erogheranno il giudizio della legge totale di Dio”.[20]

Gary North, in questa stessa linea, ammonisce che non possiamo affrontare le sfide del nostro tempo con armi spuntate: l’“armatura di Saul” — fatta di teoria della legge naturale, pluralismo permanente, mito della neutralità e anti‑pattizialismo — si rivela del tutto inefficace. Solo impugnando le armi spirituali fondate sulla Parola di Dio potremo difendere la verità e avanzare il Regno. Non si tratta di instaurare una teocrazia coercitiva, ma di promuovere una cultura genuinamente cristiana, fondata sulla legge divina, unica garanzia di libertà autentica, giustizia stabile e ordine sociale conforme alla verità.

In conclusione, il protestantesimo riformato deve recuperare una teologia pubblica coerente, radicata nella signoria totale di Cristo e nella validità perenne della Sua legge. Pierre Courthial lo sintetizza efficacemente: “L’Umanesimo che affligge la Chiesa e i cristiani di oggi deve essere sconfitto, e la rinascita del significato della legge di Dio, anche nelle sue leggi casistiche, giocherà un ruolo potente nel portare a questa sconfitta. La catechesi, la predicazione e la testimonianza cristiana saranno depurate da quel pensiero perverso e marcionita che insegna e proclama una Parola di Dio, un vangelo, amputato dell’indispensabile legge di Dio, con i suoi comandamenti, esempi e ammonimenti.”[21] Solo una visione del mondo fondata sulla Bibbia può restituire alla Chiesa la forza profetica necessaria per contrastare efficacemente la deriva secolarista, affidandosi esclusivamente alla Parola-Legge di Dio. Questa, infatti, è sufficiente non soltanto per la salvezza dell’anima, ma anche per l’edificazione di una civiltà. Proprio in tale capacità risiede la potenza del Vangelo: non in una fuga dalla storia, ma nella sua riconduzione sotto la regola effettiva di Cristo, “il principe dei re della terra” (Ap 1:5).

Conclusione

In questa prospettiva, la teologia non è la radice della visione del mondo, ma il suo frutto. È per questo che possono sussistere profonde divergenze nella prassi ecclesiale e culturale anche tra coloro che, formalmente, condividono gli stessi simboli dottrinali. Il vero punto discriminante non è l’ortodossia astratta, ma la coerenza della visione del mondo con cui si vive il Vangelo nella storia. Un cristiano che confessa la Trinità e la giustificazione per fede, ma adotta una visione antropocentrica della politica o del mercato, ha già ceduto – magari inconsapevolmente – al nemico.

Il recupero di una visione cristiana del mondo non è un compito secondario o riservato agli specialisti: è oggi una vera e propria urgenza missionaria. Senza una cornice teologica comprensiva, il Vangelo rischia di essere svuotato del suo significato reale e della sua forza trasformativa. Il cristianesimo non è una religione tra le altre, ma una visione totale della realtà, una proposta di civiltà fondata sulla signoria di Cristo.

Solo una fede integralmente biblica – che parta dalla Creazione, riconosca la Caduta e attenda il compimento della Redenzione – può sfidare le idolatrie della modernità, smascherare le pretese totalitarie dello Stato e proporre un’alternativa salvifica nella cultura, nell’economia, nel diritto e in ogni ambito dell’esistenza umana. Il Vangelo non è stato dato per sopravvivere ai margini della storia, ma per riformare le nazioni. Non può essere ridotto a un messaggio interiore, devoto o spiritualista: esso è la proclamazione di un Re risorto, insediato alla destra di Dio, che attende che i suoi nemici siano posti come sgabello dei suoi piedi (Salmo 110).

Ricapitolando, “la visione del mondo è un presupposto del Vangelo” per almeno quattro ragioni fondamentali:

  1. Per evitare di spiritualizzare o privatizzare il Vangelo: senza una visione cristiana del mondo, il Vangelo viene ridotto a un messaggio per l’anima individuale, separato dalla realtà concreta della cultura, della giustizia, della sessualità, della politica e dell’economia. Così facendo, si svuota del suo potere pubblico e trasformativo.
  2. Per riconoscere che il Vangelo è un annuncio regale: Gesù non è soltanto il Salvatore, ma il Re. La proclamazione del Vangelo è annuncio del suo Regno, il che implica una visione della realtà ordinata dalla legge di Dio e orientata alla sua giustizia (Salmo 2; Apocalisse 11:15). Il Vangelo è un kerygma reale, non soltanto morale o spirituale.
  3. Perché ogni essere umano vive secondo una visione del mondo: l’uomo è un interprete della realtà; nessuno vive in modo neutrale. Il cristiano, dunque, deve formarsi attivamente una visione del mondo biblica e integrale, altrimenti finirà per adottare inconsapevolmente presupposti anti-cristiani.
  4. Perché le dottrine si rivelano nella prassi: molte chiese affermano la sovranità di Dio e l’autorità della Scrittura, ma adottano, nella pratica, un’antropologia, una pedagogia, un’etica, una legge e una visione culturale mondane. La visione del mondo si manifesta soprattutto nelle questioni pratiche e nelle applicazioni concrete della fede.

Aderire al Vangelo significa, pertanto, ricercare e sottomettersi ad un’intera struttura della realtà. Il Vangelo non si esaurisce in un’esperienza meramente religiosa, né può convivere pacificamente con visioni del mondo alternative. Esso implica una ridefinizione integrale di ogni aspetto dell’esistenza alla luce della rivelazione divina. In questo senso, il Vangelo esige una teologia pubblica, una legge morale oggettiva, una pedagogia cristiana, una visione organica della società e una prassi culturale coerente con il Regno di Dio.


[1] Francis A. Schaeffer, How Should We Then Live?, Crossway Books, 1976, p. 20.

[2] Phillip E. Johnson, Reason in the Balance: The Case Against Naturalism in Science, Law & Education, InterVarsity Press, 1995, p. 12.

[3] Stephen C. Perks, Ammaestrare le nazioni, www.cristoregna.it, 2023, p. 42.

[4] Anders Nygren, Agape and Eros, SPCK, 1957, p. 56.

[5] Stephen C. Perks, Ammaestrare le nazioni, www.cristoregna.it, 2023, p. 45.

[6] Ivi, p. 50.

[7] Herman Dooyeweerd, A New Critique of Theoretical Thought, vol. 1, H.J. Paris, 1953.

[8] Cornelius Van Til, The Defense of the Faith, Presbyterian and Reformed Publishing, 1955, p. 103.

[9] Rousas J. Rushdoony, Con quale criterio? Un’analisi della filosofia di Cornelius Van Til, trad. G. Modolo, www.cristoregna.it, p. 14.

[10] Ivi, p. 23.

[11] J. Gresham Machen, Christianity and Culture. Pubblicato originariamente su Princeton Theological Review, ora incluso in Machen, J. G. What Is Christianity? and Other Addresses, a cura di Ned B. Stonehouse (Phillipsburg, NJ: P&R Publishing, 1951), pp. 153–160.

[12] G.K. Chesterton, The Common Man, Sheed & Ward, 1950, p. 173.

[13] Cornelius Van Til, Saggi sull’educazione cristiana. Tradotto da Lucia Stelluti. Caltanissetta: Alfa & Omega, 2017, 189-190.

[14] Rousas J. Rushdoony, The Messianic Character of American Education. Nutley, NJ: The Craig Press, 1963.

[15] https://pocketcollege.com/transcript/RR191C5.html?fbclid=IwY2xjawKzq1NleHRuA2FlbQIxMAABHpOeGhrNtj9g5z64RCAopG5FhcK5znrAUnJtxLbLpq6cmZOvpn8bXlmhO29L_aem_8iZ30L1M1AzIn7pbkyiNWw

[16] Cornelius Van Til, The Defense of the Faith, Presbyterian and Reformed Publishing, 1955, p. 103.

[17] Stephen C. Perks, Ammaestrare le nazioni, www.cristoregna.it, 2023, p. 59.

[18] Ibid.

[19] Rousas J. Rushdoony, Le istituzioni della legge biblica, trad. di G. Modolo, www.cristoregna.it, p. 41.

[20] Ivi, p. 740.

[21] Pierre Courthial. Un nuovo giorno di piccoli inizi, www.cristoregna.it, 2023, p. 297.


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