Capitolo XIV 

Il Culto delle Icone

 

Il sesto Concilio Ecumenico, il terzo Concilio di Costantinopoli, si tenne nel 680-681. Poco più di un secolo più tardi, nel 787, si tenne il settimo Concilio Ecumenico, il secondo Concilio di Nicea. Tuttavia, a prescindere dai due legati papali mandati da Roma, questo settimo concilio fu limitato alla Chiesa Orientale e Roma lo riconobbe come Ecumenico, mentre in Occidente solamente la Chiesa Gallica gli negò riconoscimento per un breve periodo. Il clima teologico tra il sesto ed il settimo concilio era mutato; il cambiamento era in atto da lungo tempo, ma ora comandava la chiesa.

Ad essere dominante era ora il Neoplatonismo che impregnava la filosofia, il monachesimo, l’ecclesiologia e la scienza politica. Secondo il neoplatonismo, l’universo è una ampia scala dell’essere, dalla materia bruta allo spirito puro e divino. L’uomo può mirare verso l’alto o verso il basso e può muoversi su e giù lungo la scala dell’essere. Egli può far progredire l’aspetto divino della propria anima o spirito salendo verso lo spirito puro o può soffocare la scintilla della divinità scegliendo il mondo delle sensazioni e della materia. La conoscenza razionale ha come obiettivo le realtà o Idee dell’essere, e il regno delle Idee è la Mente o il Divino. L’obiettivo della conoscenza è l’unione mistica con l’Uno, l’Anima del Mondo. L’influenza del neoplatonismo, specialmente attraverso Plotino, era molto ampia nel pensiero Arabo quanto nei pensatori ebrei e cristiani.

Il monachesimo era neoplatonismo applicato. Proclamava l’ascesa sulla scala dell’essere per mezzo della rinuncia del mondo materiale a favore di quello spirituale. L’idea che la vita spirituale fosse in qualche modo superiore a quella materiale non aveva fondamento nel pensiero biblico. Per la bibbia sia il corpo che l’anima furono creati interamente buoni da Dio e ambedue sono parimenti interamente depravati a causa della caduta dell’uomo; il corpo e l’anima, tutto l’uomo, sono coinvolti nel tentativo dell’uomo di essere come Dio. Sia il corpo che l’anima sono ugualmente redenti in Gesù Cristo ed hanno in lui un glorioso destino. Il monachesimo oscillava tra il monismo ed il semi manicheismo. Nel monismo tutto l’essere è un unico essere; la differenza sta nel fatto che certe forme, come la materia, rappresentano la debolezza dell’essere mentre lo spirito rappresenta una rappresentazione dell’essere stesso più alta e pura. Nel semi manicheismo lo spirito è buono, la materia il male e l’autentico essere è lo spirito mentre la materia è quello falso.

Il neoplatonismo contagiò tanto la chiesa che lo stato. Per il neoplatonismo ecclesiastico la chiesa, come regno dello spirito, rappresentava l’ordine più alto, mentre lo stato, come istituzione del mondo materiale, rappresentava un ordine più basso. Per il neoplatonismo politico lo stato rappresenta il logos o struttura dell’essere. Lo stato è quindi la più alta rappresentazione dell’essere nel mondo materiale e la sua guida è il rappresentante dell’Idea dell’essere.

Calato in un contesto cristiano, con il neoplatonismo sia la chiesa che lo stato vedevano se stessi quali continuatori dell’incarnazione. La teologia di Calcedonia vide che lo iato tra l’essere creato e quello non creato di Dio era colmabile solo in Gesù Cristo, senza confusione ed immutabile. Per il neoplatonismo tutto l’essere era visto come un unico essere e Gesù Cristo era la guida nel processo di ascesa. In Gesù Cristo il processo di ascesa era sfociato in un manifesto ed ufficiale momento della storia; l’Idea era divenuta carne e stava guidando l’uomo verso la stessa realizzazione dell’Idea, la piena ed aperta manifestazione dell’Idea nella storia come mezzo per vincere la storia stessa. L’immagine o icona dell’Idea aveva manifestato se stessa nelle istituzioni della chiesa e dello stato. L’uomo, secondo la bibbia, è stato creato ad immagine di Dio; l’uomo era di conseguenza un’icona di Dio. L’immagine o icona di Cristo poteva anche manifestarsi in parecchie maniere, principalmente nelle immagini scolpite e dipinte e in un’istituzione.

L’immagine era un aspetto della perenne incarnazione. I santi erano rappresentati in icone quali aspetti dell’Idea incarnata; come i primi avevano incarnato l’Idea, così le loro icone incarnavano loro. Le icone dei santi furono considerate sufficientemente reali per essere introdotte come garanti nei battesimi. Si sostenne che alcune immagini, erano state realizzate senza mani umane, cioè che in realtà fossero state miracolosamente create da Cristo stesso [1].

L’immagine dell’imperatore divenne pure soggetta ad una diffusa venerazione religiosa. Questa venerazione risaliva a prima della caduta di Roma. L’immagine dell’imperatore venne portata nelle processioni religiose e salutata al grido di: “Benedetto sia colui che viene nel nome del Signore”. Gli uomini di chiesa furono vieppiù favorevoli a questa pratica e nel 602 il papa Gregorio I piazzò in Laterano le immagini dell’empio Imperatore Focas I. Le statue di Costantino vennero adorate e ricevettero sacrifici, candele incenso e furono oggetto di prostrazioni [2].

C’erano quindi due incarnazioni istituzionali nel mondo, la chiesa e lo stato e sia in oriente che in Occidente ci fu battaglia da un parte e dell’altra per delimitare l’estensione dell’incarnazione dell’altra. La controversia iconoclasta fu la forma nella quale la lotta ebbe a manifestarsi a Oriente. Ambedue le parti erano adoratori delle icone; il partito imperiale divenne iconoclasta semplicemente in opposizione alla chiesa. Come ha evidenziato il Ladner, “Il partito imperiale, in opposizione alla chiesa, vide che delimitare l’estensione del governo di Cristo nel mondo ampliava l’estensione del culto dell’imperatore” [3]. La controversia imperiale rappresentava solo una fase di un programma imperiale più vasto. Come ha notato il Finlay, “Esso comprendeva una lunga e violenta lotta tra il governo e il popolo, dal momento che gli imperatori perseguivano il potere centrale annullando ogni immunità locale ed anche il diritto di opinione privata tra i loro sudditi … Gli imperatori speravano di costituire se stessi quali fonti della legislazione ecclesiastica altrettanto esaustivamente della legislazione civile” [4]. La filosofia sottostante la lotta era l’ellenismo [5]. La prima apparizione di immagini in una qualche relazione con la chiesa fu tra i seguaci gnostici di Carpocrate, i quali si definivano principalmente tali.

Questi gnostici fecero un uso religioso di “immagini dei filosofi del mondo,” cioè di Pitagora, Platone, Aristotele e Cristo ed altri [6].

L’immagine rappresentava la continuità dell’essere tra il cielo e la terra. Il vero santo era l’uomo che aveva trasceso i limiti della materia per diventare essere spirituale. Il neoplatonismo fece dell’ascetismo una virtù intellettuale e spirituale, un’ascesa nell’essere e quindi un’ascesa in conoscenza e virtù. L’ascetismo fu quindi assunto come indicativo di superiorità. Come ha osservato il Pickman: “Fu l’arma scelta dal partito umanitario. È per questo che di lì a poco un fisico che non diventava un monaco perdeva la sua professione” [7].

Sia la chiesa che lo stato affermavano di essere la vera estensione dell’incarnazione e di conseguenza gli unici legittimi portatori di immagini. Per la chiesa le icone imperiali rappresentavano l’idolatria. Per il partito imperiale erano idolatre le icone della chiesa.

Per il partito imperiale l’imperatore era l’autentico vicario di Cristo. Le monete d’oro di Bisanzio molto spesso portavano la testa di Cristo coronata con il diadema imperiale e vestito degli abiti imperiali. Le leggi venivano promulgate nel nome de “Il Signore Gesù Cristo, nostro Maestro”. A lato del trono imperiale se ne trovava un’altro, vuoto, tenuto per il vangelo, di fronte al quale gli uomini di inchinavano: “È il trono di Cristo, nostro vero sovrano”. L’imperatore era Cristo presente come Signore. Il palazzo dell’imperatore era perciò una chiesa nel vero senso della parola, con persino il ciambellano ordinato come sacerdote. Il trono era installato in un’abside. “I suoi ricevimenti non erano udienze, ma rivelazioni”. I suoi pasti “erano pieni di sottili allusioni all’Ultima Cena”. Dal momento che l’intero pasto era un rituale religioso, gli errori non erano permessi. Chi lasciava cadere un piatto veniva decapitato e “gli ospiti che assistevano a tal sacrilegio dovevano venire privati degli occhi”. Qualsiasi tentativo di assassinare l’imperatore era un crimine contro Dio, sebbene un tentativo coronato da successo fosse invece la volontà di Dio. L’imperatore era assoluto nella sua sovranità e “Il suo potere, teoricamente universale, non si arrestava alle frontiere dell’Impero. Come la Chiesa e per la stessa ragione, il suo potere era ecumenico” [8]. Liutprando, nel suo Antapodosis, ci da un’immagine vivida dello sfarzo e della pompa delle udienze dell’imperatore [9]. In Bisanzio si faceva un massiccio uso dell’oro, con cupole d’oro nelle chiese e croci d’oro. l’imperatore viveva circondato dall’oro, con i vestiti intessuti con l’oro, perché il Libro dell’Apocalisse parla della Gerusalemme celeste come una città d’oro [10]. L’incoronazione dell’imperatore, come con Niceforo, era l’incoronazione di Cristo ed “egli emergeva come l’immagine di Cristo stesso” [11]. Il partito imperiale sposò quindi il concetto dell’impero come continuazione dell’incarnazione e la chiesa semplicemente come un braccio dell’impero e l’imperatore come l’autentico vicario e rappresentante di Cristo.

Gli uomini di chiesa che si opposero a questa posizione ne avevano compreso le implicazioni. Teodoro di Studium (Costantinopoli) scrisse: “Se l’Imperatore non è soggetto alla legge, allora ci sono due possibili ipotesi: o è Dio, perché solo la divinità trascende le legge, o nulla rimane se non l’anarchia e la rivoluzione” [12]. Teodoro promosse le icone della chiesa ed affermò che c’era del divino non solo nell’immagine, ma anche nell’artista. L’artista riversava la sua divinità nel creare l’immagine, come Dio ha con evidenza mostrato la sua divinità nella sua Creazione. La difesa da parte della chiesa fu ugualmente neoplatonica.

Gli imperatori iconoclasti erano eretici e la loro cultura era sostanzialmente monofisita. Gli imperatori che posero fine alla controversia iconoclasta e Costantino VI e Ireneo che convocarono il settimo Concilio Ecumenico, il secondo Concilio di Nicea del 787, erano apparentemente ortodossi, ma la loro decisione lasciò lo stato essenzialmente inalterato; la chiesa semplicemente continuò a mantenere l’uso delle icone. Non mutò neppure la posizione dell’imperatore o dell’impero. Sebbene la lotta non abbia avuto termine fino al 19 Febbraio del 842, un giorno che sarebbe stato celebrato come la Festa dell’Ortodossia, la decisione del 787 prevalse ampiamente. Il commento di Percival è indicativo degli elementi essenziali dell’azione del Concilio nel 787:

Il Concilio decretò che venerazione ed onore simili dovevano essere attribuiti alle rappresentazioni del Signore e dei Santi come era usanza attribuire ai “laurata” e alle tavole raffiguranti gli imperatori cristiani, cioè che ad essi ci si sarebbe dovuti inchinare e salutare con baci e che dovevano essere venerati con fuochi ed offerte d’incenso. Ma il Concilio fu ancor più esplicito nel dichiarare che si trattava di una mera venerazione di onore e affetto, come quello che può essere dato alla creatura, e che in nessuna circostanza l’adorazione del culto divino poteva essere loro dato, ma a Dio solo [13].

Teodosio, uno dei vescovi del Concilio, dichiarò:

Perciò, se il popolo si incammina con torce e incenso per incontrare la “laurata” e le immagini degli Imperatori quando sono mandati verso le città o i distretti rurali, esso onora sicuramente non la tavola ricoperta di cera, ma l’Imperatore stesso. Quanto più è necessario che nella chiese di Cristo nostro Dio siano raffigurati l’immagine di Dio nostro Salvatore e della immacolata Madre e di tutti i santi e benedetti padri ed asceti? [14].

Questa affermazione è indicativa della natura della composizione finale della controversia. Il conflitto fu imperniato sull’uso religioso delle icone imperiali contro l’uso religioso della icone ecclesiastiche, dal momento che ambedue le istituzioni si ergevano ad autentica estensione dell’incarnazione. Ora l’oggetto del culto venne allontanato dalle icone ed il loro mutuo uso permise senza interferenze l’esercizio del potere e della sovranità dello stato. Verso la fine della prima sessione, “Giovanni, il più alto vescovo e legato degli alti sacerdoti orientali disse: Questa eresia è la peggiore della eresie. Maledetti siano gli iconoclasti! È la peggiore delle eresie, visto che perverte l’incarnazione del nostro Salvatore” [15]. L’incarnazione, in questa prospettiva, richiedeva continuità e le icone erano perciò la vera continuazione dell’incarnazione e la loro negazione avrebbe significato un sovvertimento dell’incarnazione. Questo significò che vennero implicitamente permesse due continue incarnazioni, una nello stato e l’altra nella chiesa.

Il conciliabulum iconoclasta riunitosi in Costantinopoli nel 754 ebbe a condannare le icone come violazione di Calcedonia e di tutti gli altri sei concili. Questo concilio diede a se stesso il nome di settimo Concilio Ecumenico, ma fu più tardi condannato come falso concilio. Nessun patriarca fu presente, né alcun delegato da Roma, Alessandria, Antiochia o Gerusalemme, ma intervennero 338 vescovi orientali. Questo Concilio venne convocato dall’Imperatore Costantino Copronimo (Costantino V, 741-773) che sia era auto definito il tredicesimo apostolo per mezzo di un addomesticato sinodo ecclesiastico. L’acume teologico di questo Concilio fu molto più conforme a quello dei primi concili ed elaborò un pensiero più chiaro di quello del più tardi riconosciuto concilio del 787. Il Concilio del 754 dichiarò:

Dopo aver attentamente esaminato i loro decreti sotto la guida dello Spirito Santo, abbiamo trovato che l’illegale atto di dipingere creature viventi è una bestemmia verso la fondamentale dottrina della nostra salvezza – vale a dire l’incarnazione di Cristo ed è in contraddizione con i sei santi sinodi. Quelli condannarono Nestorio perché divise l’unico Figlio e Parola di Dio in due figli, e d’altro canto Ario, Dioscuro, Eutichio e Severo perché essi mantennero una mescolanza della due nature nell’uno Cristo.

Perciò abbiamo pensato giusto mostrare con ogni accuratezza nella nostra presente definizione l’errore di cotali che creano e venerano queste, perché è unanime dottrina di tutti i santi Padri e dei sei Sinodi Ecumenici che nessuno possa immaginare alcun tipo di separazione o mescolanza in opposizione all’imperscrutabile, inspiegabile ed incomprensibile unione delle due nature in una ipostasi o persona. A cosa giova, allora, la follia del pittore che per l’empio amore del guadagno dipinge ciò che non dovrebbe essere dipinto – cioè con le sue mani insozzate cerca di modellare ciò che dovrebbe essere solamente creduto nel cuore e confessato con la bocca? Egli fa un’immagine e la chiama Cristo. Il nome Cristo significa Dio e uomo. Di conseguenza è un’immagine di Dio e uomo e perciò ha nella sua pazza mente, nella sua rappresentazione della carne creata, dipinto la divinità che non può essere rappresentata, e mescolato quindi ciò che non può essere mescolato. Perciò egli è colpevole di doppia bestemmia – l’una nel fare un’immagine della divinità e l’altra nel mescolare la divinità con l’umanità. Cadono nella stessa bestemmia coloro che venerano l’immagine…

… Chiunque, quindi, fa un’immagine di Cristo, o dipinge la divinità che non può essere dipinta e la mescola con l’umanità (come i monofisiti) o rappresenta il corpo di Cristo come se non fosse di creazione divina e separata e come piuttosto una persona diversa, come i Nestoriani.
L’unica immagine ammissibile dell’umanità di Cristo, tuttavia, è costituita dal pane e dal vino nella santa Cena. Questa e nessuna altra forma, questo e nessuna altro tipo, egli ha scelto per rappresentare la propria incarnazione. egli ha ordinato di prendere il pane, ma non come rappresentazione della forma umana, in modo che non potesse sorgere idolatria. E come il corpo di Cristo è fatto divino, così anche questa figura del corpo di Cristo, il pane, è fatto divino per discesa dello Spirito Santo; esso diventa il corpo divino di Cristo per mediazione del sacerdote che, separando l’offerta da ciò che è impuro, la santifica.
…il cristianesimo ha rigettato la totalità del paganesimo e non semplicemente i sacrifici pagani, ma anche il culto pagano della immagini [16].

Questa affermazione indica la consapevolezza delle questioni: la definizione di Calcedonia sottostà a tutti i concili ed è eretico confondere le due nature come facevano implicitamente gli iconodulisti. Ma il punto venne ancora mancato: la spiegazione che la pittura di un’immagine di Cristo mescolasse le due nature confuse il problema. Come potevano essere confuse le due nature in un ritratto di Cristo, quando in lui le due nature erano presenti? Quindi il Concilio del 754 introdusse della confusione nel sacramento, “L’unica immagine ammissibile dell’umanità di Cristo”. Questo pane è quindi reso “Corpo divino di Cristo per mediazione del sacerdote”. Qui entra nuovamente il neoplatonismo e fu chiaramente preparata la strada per la dottrina medievale dell’Ostia. L’estensione dell’incarnazione venne trasferita dalle immagini agli elementi del sacramento. Invece di essere un concilio addomesticato, quello del 754 fu implicitamente più vicino alla Roma medievale nella sua dottrina della chiesa di quanto lo sia stato quello del 787 nella sua ecclesiologia. Il Concilio del 754 dichiarò anche che “Nessun principe o ufficiale secolare spoglierà le chiese, come fecero alcuni nei tempi passati, sotto il pretesto di distruggere le immagini” [17] . Era chiaramente implicita l’integrità della chiesa come dominio separato.

Il Decreto del Secondo Concilio di Nicea del 787 recitò in parte:

Per rendere breve la nostra confessione, lasceremo invariate tutte le tradizioni ecclesiastiche lasciateci in eredità, sia scritte che orali, una delle quali è la creazione di rappresentazioni pittoriche, in accordo alla storia della predicazione del Vangelo, una tradizione utile per molti versi, ma specialmente nel fatto che in tal modo l’incarnazione della Parola di Dio è rappresentata come reale e non meramente fantastica, perché queste (rappresentazioni) danno indicazioni mutue e senza dubbio hanno anche mutui significati.

Noi quindi, seguendo il sentiero regale e l’autorità ispirata divinamente dei nostri santi padri e le tradizioni della Chiesa Cattolica (perché, come tutti sappiamo, in Lei dimora lo Spirito Santo) definiamo con tutta certezza ed accuratezza che giusto come la figura della preziosa e datrice di vita Croce, così anche le venerabili e sante immagini, sia che siano dipinte, mosaici e di altri opportuni materiali, debbano essere collocate nelle sante chiese di Dio, e nei sacri vasi e sulle vesti e sulle tende e in figure sia in casa che lungo le vie, cioè l’immagine del nostro Signore Dio e Salvatore Gesù Cristo, della nostra donna senza macchia, la madre di Dio, degli angeli onorabili, di tutti i santi e di tutte le persone pie. Perché quanto più spesso vengono viste in rappresentazioni artistiche, tanto più prontamente gli uomini sono portati alla memoria dei loro prototipi e a desiderarli; ed a questi deve essere reso il dovuto saluto ed onorevole riverenza, non però quell’autentico culto di fede che appartiene solamente alla natura divina; ma a queste come figura della preziosa e datrice di vita Croce e al Libro dei Vangeli e agli altri santi oggetti, incenso e fuoco siano offerti secondo le antiche pie tradizioni. Perché l’onore che viene tributato alle immagini passa a ciò che l’immagine rappresenta e colui che riverisce l’immagine riverisce in essa il soggetto rappresentato [18].

Il primo punto in questo decreto è ben posto. Se l’incarnazione è reale, essa può essere dipinta; una incarnazione irreale, una che sia “meramente fantastica” non può essere dipinta. Posta in termini moderni, un Cristo vero e reale può essere fotografato; un Cristo mitico no. Il secondo punto è ugualmente valido. L’onore reso al dipinto è onore a colui che vi è rappresentato. Disprezzare un simbolo è disprezzare il simboleggiato. Perciò il monaco Stefano si procurò un arresto insultando deliberatamente l’immagine imperiale. Egli estrasse una moneta, in un’udienza imperiale, e, richiamando l’attenzione sull’immagine dell’imperatore, la calpestò sotto i piedi, dicendo: “Che punizione devo soffrire se calpesto questa moneta, che porta l’immagine dell’imperatore, sotto i miei piedi? giudicate da questo che punizione si meriti colui che insulta Cristo e sua Madre nelle loro immagini” [19]. Come il Concilio sapeva, il tabernacolo ebbe le proprie immagini scolpite, cioè dei cherubini sull’arca, i melograni ecc. e la bibbia proibì il culto, non l’uso decorativo di queste immagini. Ma le sculture del tabernacolo non furono mai oggetto di adorazione religiosa, di incenso, fuoco o cose simili. Il Concilio giustificò la venerazione della immagini citando le istanze bibliche di venerazione degli uomini nella sua lettera all’imperatore e all’imperatrice:

Ed infine, coloro che cercano di ottenere qualche dono, venerano coloro che sono sopra di essi, come Giacobbe venerò Faraone. Perciò siccome questo termine ha questi molti significati, le Divine Scritture insegnandoci: “Tu adorerai il Signore Dio tuo, e solo lui servirai,” dicono semplicemente che la venerazione deve essere rivolta a Dio, ma non aggiunge la parola “solo”; perché essendo venerazione una parola di ampio significato, essa è un termine ambiguo; ma prosegue nel dire: “tu servirai lui solo,” perché solo a Dio noi rendiamo latria [20].

Questo argomento permette che venerazione e culto siano identici. Dio viene venerato o adorato e così pure le immagini; viene detto che il comandamento permetta ampio spazio alla venerazione, ma il servizio è limitato a Dio solo. L’apparente giustificazione biblica è assai povera in ciò, in quanto le parole “solo” e “servire” modificano e spiegano l’atto della venerazione o culto. E la venerazione dei superiori, monarchi e genitori era obbligo di legge, un rispetto per le autorità ordinate da Dio più che per le persone coinvolte come uomini.

C’era bisogno delle immagini perché la chiesa con esse si presentava come l’incarnazione perenne. L’ascetismo fu una manifestazione di questa stessa continua incarnazione, nel fatto che i monaci salivano lungo la scala dell’essere e diventavano virtualmente piccoli Cristi; i monaci di Athos nel 14° secolo affermarono in momenti di estasi di aver realizzato la luce della gloria divina, l’increata essenza di Dio. Questa esperienza non era cristiana nella forma, tanto meno nel contenuto, per il fatto che era un prodotto di digiuni uniti alla concentrazione sul proprio ombelico. Quando Barlaam condannò questa pratica di contemplazione del proprio ombelico come pagana ed anti cristiana, venne convocato un sinodo e Barlaam e il suo partito vennero citati come eretici e condannati. Oggi, nella Domenica dell’Ortodossia, nella Chiesa greca, il nome di Barlaam è menzionato per primo tra quelli scomunicati per eresia. Quelli che Barlaam aveva chiamato “gli animati dall’ombelico” avevano trionfato [21].

La liturgia della chiesa Orientale è drammatica ed entusiastica, costruita per ottenere il possesso di Dio, per estendere l’incarnazione più profondamente nella vita della chiesa e il clero monastico, con la sua dedizione alla propria liturgia, rappresenta un elemento permanentemente entusiastico.

L’importanza della continua incarnazione apparve chiaramente nel canone VII del secondo Concilio di Nicea:

A quelle chiese consacrate senza alcun deposito di reliquie dei Santi, la mancanza deve essere sanata.

Il divino apostolo Paolo dice: ”I peccati di alcuni sono manifesti in anticipo ed alcuni seguono dopo”. Questi sono i loro peccati principali ed altri peccati li seguono. Coerentemente alle calcagna dell’eresia dei calunniatori dei cristiani seguirono da vicino altre empietà. Perciò così come hanno estirpato dalle chiese la presenza delle venerabili immagini, così hanno ripudiato altre usanze che ora noi dobbiamo far rivivere e mantenere in conformità alla legge scritta e non scritta. Noi decretiamo quindi che le reliquie siano collocate con il servizio consueto in quanti dei sacri templi siano stati consacrati senza le reliquie dei Martiri. E se un vescovo da questo momento in poi viene trovato a consacrare un tempio senza sante reliquie, sia egli deposto, come trasgressore delle tradizioni ecclesiastiche [22].

Le reliquie e le immagini vengono qui poste sullo stesso piano ed ambedue sono considerate necessarie alla chiesa; certamente una chiesa è imperfetta, viene detto, se è senza reliquie e un vescovo che consacri una chiesa senza reliquie deve essere “deposto, come un trasgressore”. Le reliquie dei santi, ancora più che le loro immagini, rappresentavano la loro santa condizione. Le reliquie vennero venerate e, dal IX secolo, vennero credute capaci di poteri taumaturgici. Il Pelliccia discusse il soggetto nel suo capitolo, “Della canonizzazione (apotheosis) dei santi”. Apotheosis, ovviamente, significa deificazione. Pellicccia parlò dell’usanza in antichità di deificare gli eroi e regnanti morti. Questo fu, egli disse, un eccellente piano “per infondere negli uomini stimolanti incoraggiamenti di virtù”. Questa usanza, in una nuova forma, “fu alla lunga, con maggior eccellenza di giudizio, espulsa dalla religione Cristiana” [23]. “Alcune persone nel medioevo posero le reliquie dei santi negli stessi vasi con l’Eucarestia stessa, ma venne proibito dai concili nel sedicesimo secolo” [24]. Non c’era affatto da sorprendersi di questa pratica; non era altro che uno sviluppo logico. Dal momento che le reliquie erano un’estensione dell’incarnazione e che l’Eucarestia era essa stessa un’incarnazione, metterle assieme era semplicemente una conclusione di logica religiosa.

La chiesa non era perciò una vera chiesa, non adatta ad essere consacrata se tutto ciò che aveva era la bibbia; essa necessitava di reliquie, la visibile presenza di un potere invisibile. La chiesa era cambiata. L’ellenismo aveva trionfato nella chiesa e l’umanesimo neoplatonico era diventato la sua ortodossia. Coloro che contemplavano il proprio ombelico avrebbero trovato maggior sostegno nella chiesa che coloro che credevano e studiavano la parola di Dio.

Note:

1 Augustus Neander, General History of the Christian Religion and Church, III, (Quinta edizione americana, 1855), 201.
2 Ernst H. Kantorowicz, “The ‘King’s Advent’ and the Enigmatic Panels in the Doors of Santa Sabina,” The Art Bulletin, Dicembre 1944, vol. XXVI, n. 4, 207-231; E. Kantorowicz, “Ivories and Litanies,” Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, vol. 5, 1942, 56-81; E. Kantorowicz: Laudes Regiae, A Study in Liturgical Acclamations and Mediaval Ruler Worship (Berkeley: University of California Press, 1946), 17 n.7, 102, 110.
3 Gerhart B. Ladner, “Origin and Significance of the Byzantine Iconoclastic Controversy,” in Mediaeval Studies, II, 1940 (New York: Sheed and Ward, 1940), 135.
4 George Finlay, History of the Byzantine Empire From DCCXVI to MLVII (London; J.M. Dent, 1906), 10.
5 Vedi George Florovsky, “Origen, Eusebius and the Iconoclastic Controversy,” in Church History, Giugno 1950, vol. XIX, n.2, 77-96.
6 Irenaeus, Agaist Heresies, Libro I, capitolo XXV, 6, in Ante-Nicene Christian Library, vol. V, Irenaeus vol. I, 96.
7 Edward Motley Pickman, The Mind of latin Christendom, (london: Oxford, 1937), 437.
8 Rene Guerdan, Byzantium, Its Triumphs and Tragedy (New York: C.P. Putnam’s Sons, 1957), 17-26.
9 F.A. Wright, traduttore, The Works of Liutprand of Cremona (London: Routledge, 1930), 207-212.
10 Guerdan, 45 e ss.
11 Ibid., 50 e ss.
12 Charles Diehl, Byzantium: Greatness and Decline (New Brunswick, New Jersey: Rutgers University Press, 1957), 168.
13 Percival, Decrees and Canons of the Seven Ecumenical Councils, 526.
14 ibid., 535.
15 Ibid.
16 Ibid., 543.
17 ibid., 545.
18 Ibid., 550.
19 Neander, III, 220.
20 Ibid., 573.
21 Michael Choukas, Black Angels of Athos (Brattleboro, Vermont: Stephen Daye Press, 1935), 31.
22 Percival, 560.
23 A.A. Pelliccia: Polity of the Christian Church, 383 e ss.
24 Ibid., 162.


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