Dolce incoraggiamento
Di Phillip G. Kayser, sermone del 6/12/2015
Parte della serie “Progetto Apocalisse”
Il presente sermone è volto a rincuorare il cristiano scoraggiato.
Leggiamo Apocalisse 3:7-13
7 «All’angelo della chiesa di Filadelfia scrivi: Queste cose dice il Santo, il Verace, colui che ha la chiave di Davide, colui che apre e nessuno può chiudere, e chiude e nessuno può aprire. 8 Io conosco le tue opere. Ecco, ho posto davanti a te una porta aperta, che nessuno può chiudere, perché, pur avendo poca forza, hai custodito la mia parola e non hai rinnegato il mio nome. 9 Ecco, io ti darò quelli della sinagoga di Satana — che si dicono Giudei e non lo sono, ma mentono —; ecco, li farò venire a prostrarsi ai tuoi piedi, e riconosceranno che ti ho amato. 10 Poiché hai osservato la mia parola riguardo alla perseveranza, anch’io ti preserverò dall’ora della prova che sta per venire su tutto il mondo abitato, per mettere alla prova coloro che abitano sulla terra. 11 Io vengo rapidamente. Tieni saldo ciò che hai, affinché nessuno ti porti via la tua corona. 12 Chi vince, io lo farò una colonna nel tempio del mio Dio, ed egli non ne uscirà mai più; e scriverò su di lui il nome del mio Dio, il nome della città del mio Dio — la nuova Gerusalemme, che scende dal cielo da parte del mio Dio — e il mio nuovo nome. 13 Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese.»
Introduzione
È sempre un sollievo arrivare ad un passo delle Scritture che offre grandi parole di incoraggiamento: ogni tanto ne abbiamo davvero bisogno! Non che nelle lettere precedenti siano mancati elementi di consolazione; però, è anche vero che tra tutte le chiese menzionate, soltanto Smirne e Filadelfia finiscono per non ricevere alcun rimprovero.
Alla chiesa di Filadelfia, in particolare, viene destinato l’elogio più alto tra tutte. E penso che questa sia cosa assai notevole, considerando le sue umili condizioni: non si trattava di quelle che oggi chiameremmo “mega-chiese”, non contava su un gran numero di membri né su risorse abbondanti; non era famosa né apprezzata dal punto di vista umano – anzi, era oggetto di feroce attacco da parte dei Giudei; insomma, non era certo una comunità di quelle chiese che avrebbe ottenuto riconoscimenti sui social media, né avrebbe attirato l’attenzione di riviste come Christianity Today o simili.
E qui, a margine, permettetemi un breve appunto: dopo decenni trascorsi ad assistere all’elogio di diverse personalità prominenti del mondo ecclesiale: dai musicisti cristiani ai pastori di chiese imponenti, dai conferenzieri dotati agli scrittori famosi – tutta gente, sì, di successo, ma in fondo clamorosamente immatura – , sono giunto alla convinzione che molti cristiani americani tendano a riconoscere il valore nelle cose sbagliate: si idolatra ciò che è grande, popolare, visibile ed eloquente.
Eppure, se vogliamo davvero seguire l’esempio di Cristo, dovremmo imparare a lodare ciò che Egli loda nella lettera a Filadelfia: uomini e donne che, pur agendo nell’ombra, si distinguono per la loro fedeltà.
Prima di addentrarci nell’analisi del brano di oggi, c’è un aspetto generale piuttosto importante da cogliere: tutte le chiese del tempo si trovavano nel mirino di voci diffamatorie e di attacchi, specialmente quelle situate in città particolarmente devote al culto dell’imperatore. Il cristianesimo era costantemente oggetto di calunnie: sia i Giudei che i Romani accusavano i cristiani delle cose più assurde; per esempio, di essere cannibali, di praticare l’incesto, di mangiare i propri figli e persino di adorare la testa di un asino (non è chiaro da dove provenisse quest’ultima accusa, ma sappiamo che era abbastanza diffusa tra il I e il III secolo).
La diffamazione era così intensa da spingere persino i parenti non credenti a prendere le distanze dai loro congiunti cristiani. D’altronde, se si fosse davvero convinti che certe persone pratichino l’incesto o mangino i propri figli, nessuno vorrebbe vivere accanto a loro. I documenti storici confermano che molti si rifiutavano di vendere beni ai cristiani e, con ogni probabilità, i loro negozi erano oggetto di boicottaggio. Insomma, quello della lettera in questione era un contesto carico di motivi di scoraggiamento e frustrazione.
A tutto questo si aggiungeva il fatto che Roma aveva cominciato a trattare l’essere cristiani come un crimine vero e proprio. La situazione si era aggravata ulteriormente con il devastante incendio che distrusse gran parte della capitale dell’Impero meno di due anni prima della stesura dell’Apocalisse. Quel rogo, come sappiamo, fu inizialmente attribuito a Nerone; ma in seguito il suo entourage — composto in larga parte da consiglieri giudei — lo spinse a riversare la colpa sui cristiani. E la voce prese piede, cominciando a diffondersi capillarmente.
In altre parole, dal punto di vista umano, convertirsi al cristianesimo diventava una scelta estremamente rischiosa. Basti pensare che lo storico romano Tacito, nel descrivere le conseguenze dell’incendio del 64 d.C., non esitò ad accusare i cristiani di commettere gli atti più abietti e vergognosi.
Ebbene, è in questo contesto cupo ed ostile che si colloca la breve lettera alla chiesa di Filadelfia. E proprio in questo scenario, vediamo Gesù rivolgere ai suoi servi parole colme di incoraggiamento.
Gesù è la risposta allo scoraggiamento
Quando l’uomo ci delude, ricordiamoci che Dio — che non può deluderci — ha scritto parole di incoraggiamento nelle Scritture (v. 7a)
La prima cosa che Gesù fa in questa missiva è distogliere gli occhi dei credenti dalla loro situazione, da sé stessi, e rivolgerli al loro Signore. Abbiamo visto come questa sia stata, in effetti, la prima risposta a ciascun problema affrontato dalle chiese dell’Asia Minore: un cristianesimo genuinamente centrato su Dio è, infatti, assolutamente capace di resistere nei momenti difficili; mentre un cristianesimo centrato sull’uomo, quando i tempi si fanno duri, crolla inesorabilmente.
Ma dove possiamo rivolgere lo sguardo per incontrare Dio? La risposta è chiara: nelle Scritture. È lì che Egli si rivela. Così, al versetto 7, Gesù inizia la sua lettera con una dichiarazione ispirata, e al versetto 13 invita a prestare ascolto non solo a quella, ma a tutte le lettere indirizzate alle chiese. L’inizio e la conclusione sono dunque incorniciati dalla Scrittura: il fondamento della fede, il luogo della consolazione.
Le promesse contenute nella Parola di Dio sono un rimedio potente contro lo scoraggiamento. Quanti di voi hanno letto il classico allegorico di John Bunyan, Il Pellegrinaggio del Cristiano? Si tratta di una storia straordinaria, ricca di insegnamenti teologici, spesso utilizzata per introdurre i bambini alle verità della fede. In questo racconto, i due protagonisti, Cristiano e Speranza, si allontanano dal giusto sentiero e vengono catturati dal Gigante Disperazione, che li percuote e li rinchiude nella prigione del Castello del Dubbio.
Lì rimangono prigionieri dal mercoledì mattina fino al sabato notte, privati di pane, acqua e luce. Quando arriva il sabato sera, il gigante lascia loro un coltello, una corda e del veleno, affinché scelgano con quale mezzo togliersi la vita. Furono fortemente tentati, ma resistettero, sapendo che sarebbe stata una palese violazione del sesto comandamento: in quel momento, persino la Legge di Dio funse da barriera contro la disperazione. Tuttavia, fu la promessa contenuta nella Scrittura ad offrire loro la via d’uscita.
Ed è proprio questo il punto: la vicenda narrata da Bunyan è profondamente vera. Quante volte, nei giorni della tristezza e dell’abbattimento, ci dimentichiamo di rivolgerci alla Parola di Dio? Dovremmo piuttosto imparare da Davide, che nei Salmi discute con sé stesso e si esorta alla fiducia, trovando nella Scrittura il sollievo per la sua anima afflitta.
Lo stesso accade a Cristiano e Speranza. Bunyan scrive:
…verso mezzanotte del sabato cominciarono a pregare, e continuarono a pregare fino quasi all’alba. Poco prima che spuntasse il giorno, il buon Cristiano, come colpito da un’improvvisa rivelazione, esclamò con ardore: “Che sciocco sono a restare qui, in questa prigione maleodorante, quando potrei invece essere libero! Ho nel petto una chiave chiamata Promessa e sono persuaso che essa apra ogni serratura del Castello del Dubbio.” Allora Speranza disse: “Questa è una buona notizia; fratello mio, tirala fuori e prova.” Così, Cristiano la prese dal suo petto e cominciò a provarla alla porta della cella. E non appena girò la chiave, il chiavistello cedette, e la porta si aprì con facilità. Uscirono entrambi. Poi andarono alla porta esterna che dava sul cortile, e anche quella si aprì con la stessa chiave. Infine, giunsero al portone di ferro, l’ultima barriera: anche questa era chiusa da una serratura molto resistente, ma la chiave riuscì ad aprirla.
Spingendo il cancello per aprirlo in fretta, questo fece un tale cigolio che svegliò il Gigante Disperazione. Il mostro si alzò per inseguirli, ma le sue forze lo abbandonarono a causa delle sue solite convulsioni, e non poté muoversi. Così i due pellegrini raggiunsero la Strada del Re e furono al sicuro, fuori dalla sua giurisdizione.”
Bunyan voleva incoraggiare i lettori a fare esattamente ciò che Cristiano e Speranza fecero: guardare alle promesse della Scrittura per uscire dalla prigione della Disperazione e dello Scoraggiamento. E questa piccola porzione dell’Apocalisse è proprio uno di quei testi a cui possiamo tornare ripetutamente per trovare consolazione nei momenti di prova.
Quando le persone ci evitano a causa del peccato, ricorda che il Santo è dalla nostra parte (v. 7b)
Cristo, rivolgendosi ai suoi, inizia dicendo: “Queste cose dice il Santo…”.
In che modo, ci si potrebbe chiedere, questa affermazione dovrebbe o potrebbe risultare incoraggiante? In fondo, se si ha piena consapevolezza del proprio peccato, non sarebbe piuttosto scoraggiante volgere lo sguardo… al Santo? Non ci si sentirebbe ancor più indegni al suo cospetto? E se si fosse accusati ingiustamente di colpe gravi e diffamanti, come il cannibalismo o l’incesto, quale conforto si potrebbe trovare nel rivolgersi a Colui che è perfettamente santo? Se si è oggetto di emarginazione e ostilità da parte del mondo, che consolazione ci può mai essere nell’avvicinarsi a qualcuno così radicalmente diverso da noi, infinitamente più puro?
Proviamo a considerare la questione da un’altra prospettiva: i Giudei e i Romani che sollevavano accuse tanto infamanti avevano, a loro volta, peccati di cui rendere conto. Forse si ritenevano moralmente superiori ai cristiani: troppo puri per avere a che fare con simili peccatori. Eppure, è proprio Colui che non ha conosciuto peccato a mostrarsi disposto ad accogliere e ad amare. Questo ci dice che la sicurezza dei credenti in Gesù non dipende dal livello della loro santità personale.
Se ciò che ci scoraggia sono i nostri peccati – reali o presunti che siano – allora meditiamo sulla realtà della nostra giustificazione. Anche se fossimo cento volte migliori di quanto siamo, avremmo comunque bisogno di essere giustificati per essere salvati. E se fossimo cento volte peggiori di quanto gli altri immaginano, la nostra giustificazione in Cristo non sarebbe minimamente compromessa. La nostra sicurezza non risiede in noi stessi, ma in Gesù, l’unico uomo perfettamente santo, la cui santità ci è stata imputata.
Pertanto, quando veniamo evitati, disprezzati o accusati a causa del peccato, ricordiamoci che il Santo è dalla nostra parte. L’unico davvero Santo è per noi. Quando ci accusano falsamente, pensiamo a questo: se quegli accusatori potessero leggere i nostri pensieri più reconditi e conoscere la reale profondità della nostra malvagità, probabilmente direbbero di noi cose ancor peggiori.
Eppure, l’unico rimedio che conosco per affrontare la vergogna causata da accuse infondate è ricordare che il Santo conosce ogni cosa di me – sa che sono molto peggiore di quanto gli altri immaginino – e, nonostante ciò, mi ama e mi accoglie in Sé.
È dunque di grande conforto sapere che questa parola non proviene da un peccatore come noi, ma dal Santo stesso, per l’appunto.
Quando le persone ci calunniano, ricordiamo che l’unico che è Verace è dalla nostra parte (v. 7c)
Inoltre, quando siamo oggetto di calunnie e menzogne, ricordiamoci che Colui che è l’unico veramente Verace è dalla nostra parte. La sua opinione è l’unica che conta per l’eternità – non quella degli uomini. Il giudizio degli uomini è mutevole, imperfetto e spesso ingiusto; non può offrire sicurezza duratura e, inevitabilmente, finirà per deluderci.
Ma le parole incoraggianti di questa lettera non provengono da un uomo fallibile, bensì da “il Santo, il Verace”. Egli ci conosce in profondità, molto più di quanto noi stessi o gli altri possano mai fare e, nonostante tutto, in Lui siamo accolti, amati e al sicuro!
Quando i governi ti perseguitano, ricordiamo che colui che ha la chiave di Davide (cfr. Isaia 22:21-22; Isa. 9:6‑7), e quindi detiene piena sovranità sui governi, è dalla nostra parte (v. 7d)
Quando poi capita che i governi attuano misure oppressive o persecutorie, ricordiamo che Colui che ha la chiave di Davide è dalla nostra parte. Il versetto 7 dice di Gesù: “Colui che ha la chiave di Davide; apre e nessuno può chiudere, e chiude e nessuno può aprire”. Questa traduzione può sembrare un po’ macchinosa, ma rivela una verità straordinaria.
Che cosa significa possedere la chiave di Davide?
Allora, il riferimento qui è ad Isaia 22, versetti 21 e 22 – leggiamo il brano:
Il Signore dice: “Lo vestirò con la tua tunica, lo cingerò con la tua cintura e rimetterò la tua autorità nelle sue mani; ed egli sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per la casa di Giuda. Metterò sulla sua spalla la chiave della casa di Davide; così egli aprirà e nessuno potrà chiudere, chiuderà e nessuno potrà aprire.”
Nel contesto di questo passo, Eliakìm, figlio di Chelkìa, è nominato da Dio come nuovo capo del palazzo al posto di Sebnà (oggi, per intenderci, diremmo qualcosa come maggiordomo o Primo Ministro). Le “chiavi della casa di Davide” simboleggiano l’autorità suprema sulla corte reale: nessuno poteva accedere al re senza il suo consenso e la sua parola era legge nel regno. Eliakìm dunque prefigura Cristo, che ha ricevuto da Dio ogni autorità in cielo e sulla terra (cfr. Is. 9:6‑7 e Mat. 28:18). Si tratta di una delle affermazioni più chiare e solenni della sovranità di Gesù.
Perché questa verità dovrebbe venire intesa come fonte di conforto?
Solo lo sguardo della fede può riconoscerla come elemento d’incoraggiamento. A livello umano, infatti, poteva sembrare che il regno di Gesù stesse lì lì per essere distrutto. I cristiani destinatari delle lettere di Giovanni si trovavano nel bel mezzo della Grande Tribolazione e in alcune aree la situazione era sul punto di peggiorare drasticamente. Ad uno sguardo naturale, sembrava che Satana fosse il vero regista incontrastato delle persecuzioni. Eppure, come si chiarirà più avanti nel libro dell’Apocalisse, Satana agisce solo entro i limiti che Cristo stesso gli consente: è al guinzaglio e nulla può fare senza il permesso del Signore. È Cristo ad innalzare e a distruggere gli imperi; è lui a dirigere ogni dettaglio degli eventi narrati in questo libro, inclusi i giudizi che, all’apparenza, fanno sembrare il mondo fuori controllo. Egli detiene tutta l’autorità, sotto la suprema autorità del Padre, e nessuno può accedere al Padre – Sovrano dell’universo – se non per mezzo di lui.
Torniamo dunque al significato della chiave: in Isaia 22, essa fu affidata a Eliakìm come simbolo dell’autorità regale sul paese. Nell’Apocalisse, Cristo estende l’accesso al Regno ai suoi santi, rendendoli beneficiari delle porte che egli stesso apre. Insieme al “vero Eliakìm” (Cristo), i santi condividono una misura di autorità spirituale anche su governi e uomini. Così come è stata loro affidata la verga di ferro, menzionata nel capitolo precedente, ora viene loro concesso l’accesso a porte che nessuno può chiudere. E non solo: anche le porte che Gesù chiude diventano per loro motivo di benedizione.
Quando le opportunità di ministero si chiudono, ricordiamo che solo uno apre e chiude le porte, ed è dalla nostra parte (v. 7e)
Ricordiamoci, infatti, di questo: quando le opportunità di ministero ci vengono precluse a causa del peccato o dell’ostilità altrui, colui che, in ultima istanza, apre e chiude ogni porta è dalla nostra parte.
Attraversiamo, quindi, con fiducia le porte che egli apre e troviamo serenità quando decide di chiuderle. Ogni apertura ed ogni chiusura è disposta per il nostro bene e per la gloria del suo nome. Nulla sfugge al suo controllo, nemmeno quei limiti che, talvolta, ci vengono imposti ingiustamente da altri: anche questi rientrano nella sua perfetta volontà.
Quando tutto ciò che facciamo sembra inutile, ricordiamo che colui che può rendere eterni i nostri sforzi conosce le nostre opere (v. 8a)
La prima parte del versetto 8 afferma: “Io conosco le tue opere”. Ora, rispetto a quelle delle altre chiese, le opere di Filadelfia potevano sembrare trascurabili – non saltavano all’occhio. Molti potrebbero non notare ciò che facciamo o persino disprezzarci ed osteggiarci per il bene che compiamo, ma Gesù lo vede.
Potremmo sentirci in colpa perché gli altri hanno aspettative su di noi superiori a quanto siamo in grado di realizzare. Eppure, Gesù afferma di tener conto di tutto. Egli conosce le nostre opere. Questa consapevolezza può, in certi casi, suscitare un senso di colpa legittimo — ed è giusto che sia così, poiché siamo chiamati a essere buoni amministratori del tempo e dei talenti che Dio ci ha affidato. Tuttavia, vivere la propria vita alla presenza di un Dio che conosce e comprende può essere profondamente liberatorio.
Sapere cosa pensa Gesù può restituirci un senso di appartenenza e di valore personale. In passato, ricavavo il mio valore da ciò che gli altri pensavano di me ed è questo che mi ha portato a diventare un workaholic, un dipendente dal lavoro. Tuttavia, anche lavorando fino allo sfinimento, non riuscivo comunque a soddisfare certe persone. Solo quando ho riconosciuto che Dio ha creato Adamo ed Eva con il bisogno di ricevere approvazione da lui — e che diventa idolatria trasformare questo bisogno legittimo in un desiderio peccaminoso di approvazione umana — ho compreso la libertà che abbiamo nel nostro Signore.
Dobbiamo guardare a Gesù per affrontare il senso di inutilità, la mancanza di approvazione e lo scoraggiamento che ne deriva. Il suo giogo è dolce e il suo carico è leggero. Egli ha aspettative nei nostri confronti, sì, ma sono assai più lievi di quelle che gli altri nutrono su di noi — e persino di quelle che noi stessi ci imponiamo.
È, quindi, fondamentale trovare un giusto equilibrio con quella santa insoddisfazione di cui abbiamo parlato nel sermone precedente. Sebbene siamo chiamati ad avere una santa insoddisfazione per lo stato di questo mondo e per la nostra condizione spirituale, dobbiamo anche essere saldi in Cristo, nella certezza di ciò che egli conosce e si aspetta da noi. Ed egli non si aspetta mai più di quanto ci abbia già preparati a compiere.
Quando tutto sembra chiuso, Gesù promette di aprire una porta che nessuno può chiudere (v. 8b)
Un altro ottimo motivo per rivolgerci con speranza e fiducia a Gesù è questo: egli si compiace nel superare ciò che appare impossibile. È chiaro: sono proprio le situazioni umanamente irrisolvibili a gettarci nello sconforto più tremendo; ma in questi versetti ci viene mostrato che nulla è impossibile per Gesù, neppure ciò che egli desidera compiere proprio attraverso di noi.
Rivolgendosi ai credenti di Filadelfia, che vedevano solo porte sbarrate davanti a loro, Gesù dichiara: “Ecco, ho posto davanti a te una porta aperta, che nessuno può chiudere”.
In sostanza, Gesù stava per aprire un varco laddove tutto sembrava bloccato — come quando il Mar Rosso fu diviso per Israele. Egli era sul punto di spalancare porte che sembravano definitivamente chiuse. Non sappiamo con certezza quali fossero quelle porte, ma sappiamo che egli le aprì. E non si aprirono grazie alla fama, alla ricchezza, alle capacità o ai doni di quei credenti, bensì perché Gesù è il Signore dell’impossibile.
Questa promessa racchiusa nel versetto 8 sarebbe stata, per quella comunità, motivo di profondo incoraggiamento — così come lo è ancora oggi per noi.
Questo successo è promesso proprio perché abbiamo riconosciuto la nostra debolezza (v. 8c)
Ciò che rende ancor più straordinaria la promessa di successo contenuta in questo passo è che essa viene fatta proprio perché la chiesa di Filadelfia riconosce la propria debolezza. Notiamo la parola “perché” nel versetto 8: la ragione per cui quella porta aperta, che nessuno poteva chiudere, è stata concessa è questa: “perché, pur avendo poca forza…”.
Essi non avevano molta forza — e lo sapevano. Ma fu proprio questa consapevolezza a portarli ad aggrapparsi con maggiore fermezza a Cristo. Quando ci illudiamo di essere forti, tendiamo a dimenticare quanto dipendiamo da lui.
L’applicazione è evidente: Dio ci usa esattamente così come siamo, con tutte le nostre debolezze. È vero che ci trasforma lungo il cammino ed è altrettanto vero che il cambiamento continuo fa parte della vita cristiana. Ma egli non si aspetta, prima di poterci usare, che mostriamo segni avanzati di miglioramento. Ci usa subito, nel punto esatto in cui ci troviamo. Ha usato la più debole delle sette chiese e l’ha pure benedetta più di tutte le altre. Che dolce incoraggiamento!
Ad ogni modo… Forse, per alcuni di noi, il problema non è tanto il peso delle aspettative altrui, quanto le nostre stesse aspettative, che ci opprimono. Pensiamo di non poter offrire un contributo significativo al Regno di Cristo finché non avremo raggiunto un certo grado di “perfezione”. Ma chiediamoci: Davide era forse perfetto quando fu chiamato? No. E Mosè? Neppure: era talmente impaurito dalla propria inadeguatezza da cercare ogni scusa possibile per non rispondere alla chiamata. La giovane serva in Siria, che testimoniò alla moglie di Naaman, era forse perfetta? No. Eppure, Dio la usò.
Basta guardare agli eroi della fede in Ebrei 11: troviamo uomini e donne la cui vita, in certi momenti, fu tutt’altro che ordinata — e tuttavia Dio si servì di loro. Anche la genealogia di Cristo contiene nomi che, a livello umano, sembrerebbero tutt’altro che esemplari. Eppure, proprio con loro il Signore ha scelto di identificarsi e di operare.
La chiesa che Cristo ha lodato con maggiore calore non era una comunità che saltava all’occhio né per numeri, né per mezzi. Era una chiesa fragile, che lottava — ma era fedele. E questo è ciò che conta. Siamo deboli e in difficoltà? Allora siamo un canale perfetto per la grazia di Dio.
Come è scritto in 1 Corinzi 1:26-29:
Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, né molti potenti, né molti nobili; ma Dio ha scelto le cose pazze del mondo per svergognare i sapienti; Dio ha scelto le cose deboli del mondo per svergognare le forti; e le cose ignobili del mondo e le cose disprezzate Dio le ha scelte, e le cose che non sono, per ridurre al nulla le cose che sono, affinché nessuno si vanti davanti a Dio.
Dio si compiace di manifestare la sua potenza proprio attraverso la nostra debolezza. Nella lettera a Filadelfia, vediamo come egli metta su, parola dopo parola, un incoraggiamento profondo, fondato non sulla nostra forza, ma sulla sua grazia.
Questo successo è promesso perché non si sono allontanati dalla Parola di Dio e non hanno rinnegato il nome di Cristo (v. 8d)
È importante notare che il “perché” del versetto 8 non è legato soltanto alla “poca forza”, ma anche ad una chiara espressione di fedeltà: “…hai custodito la mia parola e non hai rinnegato il mio nome”. Questo è, in definitiva, ciò che definiamo fedeltà.
La fedeltà non dipende dal grado di intelligenza, dalla forza fisica, dalla salute o dalla produttività. La fedeltà si misura da quanto ci aggrappiamo a Gesù e, mediante la fede, perseveriamo nel seguire la sua Parola.
Cristo stesso disse a Paolo: “La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza” (2 Corinzi 12:9).
La chiesa di Laodicea, al contrario, non riconobbe la propria condizione: si credeva forte, mentre era in realtà profondamente debole. Il paradosso è evidente: chi riconosce la propria debolezza — e sa di non poter far nulla senza Cristo — è proprio colui che trova in lui la vera forza per affrontare la battaglia.
I credenti di Filadelfia erano cristiani comuni, come noi, ma avevano compreso a fondo un principio essenziale della grazia: nella nostra debolezza, la sua potenza si manifesta pienamente, quando restiamo fedeli alla Parola con fede.
Cristo farà sì che alcuni dei Giudei persecutori (nota com’egli smascheri la loro calunnia contro i cristiani attraverso la descrizione che ne dà) si convertano e chiedano loro perdono (v. 9).
Il versetto 9 contiene un’altra affermazione straordinaria: un’opera umanamente impossibile che Gesù promette di compiere. Una promessa che, con ogni probabilità, avrà profondamente sorpreso quei credenti provati ed oppressi. Leggiamo: “Ecco, io ti darò quelli della sinagoga di Satana — che si dicono Giudei e non lo sono, ma mentono —; ecco, li farò venire a prostrarsi ai tuoi piedi, e riconosceranno che ti ho amato.”
Si tratta, senza alcun dubbio, di qualcosa di meraviglioso. Fino a quel momento, infatti, i Giudei erano stati tra i più accaniti persecutori della chiesa. I Romani avevano appena cominciato a unirsi nella persecuzione, ma l’ostilità dei Giudei sembrava alimentata da un’ostinazione spirituale profonda — come se un velo demoniaco ne avesse accecato le menti, generando un odio viscerale. La loro opposizione al cristianesimo era intensa e feroce.
Eppure, le Scritture testimoniano chiaramente che, se Cristo decide di salvare un Giudeo — o chiunque altro —, nulla può impedire che quella salvezza si compia. La sovrana grazia del Signore è più forte della più ostinata opposizione e le sue promesse sono affidabili anche quando sembrano impossibili all’occhio umano.
Ora, ci sono diverse implicazioni incoraggianti in questo versetto che desidero mettere rapidamente in luce.
La prima è che questo passo risponde a coloro che affermano che i Giudei non possano mai essere salvati. Questo falso insegnamento si basa su un’errata interpretazione di 1 Tessalonicesi 2:16, versetto in cui, in riferimento ai Giudei, vien detto: “…i quali ci vietano di parlare ai gentili perché siano salvati; così colmano sempre la misura dei loro peccati; ma ormai li ha raggiunti l’ira fino all’estremo”.
Poiché “fino all’estremo” traduce il termine greco telos, che solitamente indica la fine, Wanamaker commenta: “È meglio interpretare εἰς τέλος (eis telos) nel senso che l’ira divina rimarrà su quei Giudei increduli e disobbedienti fino alla fine dell’età presente, quando Cristo ritornerà.”
Ma questo solleva una domanda: “La fine dell’età si riferisce al 70 d.C. oppure alla fine della storia?” Io credo che si tratti del 70 d.C. e ho fornito molte prove di ciò nei miei sermoni introduttivi. Un’ulteriore conferma è che la lettera ai Romani, così come altre profezie, promettono una futura conversione d’Israele come nazione. Tuttavia, molti non sono d’accordo. Lenski, ad esempio, afferma: “I Giudei, come massa, sono stati pietrificati… e rimarranno tali fino all’ultimo giorno.”
Commentatori come lui negano dunque la possibilità di una conversione nazionale.
Altri si spingono ancora oltre, sostenendo che nessun Giudeo sarà mai salvato. Ma cosa dice Gesù in questo passo? Egli garantisce che condurrà alcuni di quei Giudei del I secolo fuori dalla sinagoga di Satana e all’interno della Chiesa. Apocalisse 7 afferma la stessa cosa. Altri brani dell’Apocalisse lo confermano. E anche fonti storiche extrabibliche lo attestano. Un commentatore ha osservato: “Esistono prove in scritti successivi che mostrano come molti Giudei si siano convertiti in questa chiesa grazie alla potenza del Vangelo.”[1]
Quella di Filadelfia era una chiesa ricca di giudei convertiti. E questo processo di conversione di un residuo giudaico è proseguito nella storia fino ai nostri giorni. Ciò mette in evidenza la bellezza della misericordia e della grazia di Dio.
Una seconda implicazione è che Gesù è in grado di rimuovere anche il velo più fitto e la cecità spirituale più profonda. In 2 Corinzi 3:14, parlando dei Giudei del I secolo, Paolo afferma: “Ma le loro menti furono ottenebrate; infatti fino al giorno d’oggi, alla lettura dell’antico patto, rimane lo stesso velo, che non è stato rimosso, perché è in Cristo che esso è abolito.”
Sia resa gloria a Dio! Il velo può essere tolto in Cristo! Quando vedete una persona che sembra incapace di comprendere le cose spirituali, pregate colui che apre gli occhi ai ciechi. Questo libro identifica chiaramente i Giudei del I secolo come completamente accecati da Satana ed incapaci di credere. Più avanti, il Signore pronuncia giudizi ed offre occasioni di ravvedimento, ma essi non si ravvedono. Egli infligge ulteriori giudizi e concede nuove opportunità, ma ancora non si ravvedono. Tuttavia, quando Gesù decide di salvare qualcuno, quella persona verrà salvata. Anche un Saulo di Tarso, accecato dalla sua ira contro il cristianesimo, fu convertito in un attimo. Nessuno è un caso troppo difficile per Gesù. Dunque, se pregate da anni per la salvezza di un vostro caro, non scoraggiatevi né desistete. Rivolgete le vostre preghiere al Dio delle cose impossibili. George Müller pregò per quasi tutta la sua vita per la conversione di un incredulo ostinato, che infine giunse alla fede.
La terza implicazione deriva dall’espressione “sinagoga di Satana”. Essa ci ricorda che Satana non promuove soltanto l’ateismo — anche se certamente lo sfrutta —, ma opera attivamente per radunare le persone in forme di culto contraffatto. La religione stessa può accecare l’essere umano al suo bisogno di Dio. Questo è vero anche per il giudaismo moderno. Il motivo per cui è necessario ingaggiar battaglia spirituale nel momento in cui si testimonia ad un Giudeo religioso è che Satana è all’opera per impedirgli di credere. Quando Gesù spiega la parabola del seminatore, identifica chiaramente chi siano gli uccelli che portano via il seme. In Luca 8:12 leggiamo: “Quelli lungo la strada sono coloro che ascoltano; poi viene il diavolo e porta via la parola dal loro cuore, affinché non credano e siano salvati”.
Chiunque sia sotto un inganno religioso necessita di combattimento spirituale per vedere rimosso il velo demoniaco ed ottenere la salvezza.
La quarta implicazione è che i Giudei del I secolo che perseguitavano i cristiani non erano veri Giudei, poiché un vero Giudeo crede nell’unico vero Dio e nelle Scritture. Essi avevano rigettato il Cristo dell’Antico Testamento in favore delle loro tradizioni umane. Questo può sembrare un linguaggio duro, ma Gesù lo impiega per scuotere le coscienze e suscitare consapevolezza del pericolo insito nella loro incredulità. È una retorica simile a quella che utilizzo con i cattolici romani. Spesso dico loro che non sono veramente “cattolici”, poiché hanno abbandonato i fondamenti della dottrina cattolica dei primi dieci secoli. Spiego poi come la Riforma protestante abbia mantenuto la vera fede cattolica (cattolica con la “c” minuscola). Faccio lo stesso con gli ortodossi orientali, ai quali dico che non dovrebbero definirsi “ortodossi”, avendo abbandonato la fede ortodossa dei primi dieci secoli — e che siamo piuttosto noi protestanti i veri ortodossi. Faccio lo stesso anche con i luterani evangelici liberali, ai quali faccio notare che hanno svuotato di significato il termine “evangelico”, dal momento che furono i Riformatori a coniarlo per indicare coloro che abbracciano le cinque sola.
Il punto è questo: l’Apocalisse non è un testo antisemita quando usa questo tipo di linguaggio, ovvero quando dice che questi Giudei tali non sono e che mentono. Al contrario, lo impiega come strumento apologetico per richiamarli alle loro vere radici. Il solo fatto che questo libro parli di una salvezza di massa dei Giudei in Apocalisse 7, e della futura conversione della nazione giudaica, dovrebbe bastare a confutare ogni accusa di antisemitismo. Non ve n’è neppure l’ombra! Gesù era un semita, ha salvato una moltitudine di semiti, continua a salvarli ancora oggi e un giorno salverà un’intera nazione semita. Quindi, sebbene vediamo quei Giudei venir apostrofati come finti Giudei, Gesù fa ciò come strumento apologetico — così come io dico ai cattolici romani che non sono realmente cattolici, avendo rinnegato la fede cattolica. La loro pretesa di essere tali è blasfema e falsa.
Anzi, dirò di più: a proposito di razzismo, Gesù sta implicando che quei Giudei del I secolo erano loro i veri razzisti! E, nonostante ciò, in modo sorprendente, Gesù decise di salvare un buon numero di quei Giudei ostinati e razzisti prima del 70 d.C. — precisamente nel numero di 144.000. E in questo passo afferma che proprio quei Giudei, che avevano tentato di uccidere i cristiani, si presenteranno umilmente ai piedi dei responsabili della Chiesa per chiedere perdono.
Per quel che mi riguarda, tutto ciò conferma in maniera inequivocabile come Gesù sia perfettamente in grado di affrontare anche le situazioni di conversione più impossibili.
Sia resa gloria a Dio. Che dolcissimo, dolcissimo incoraggiamento.
Per la loro fede perseverante, Cristo li preserverà dall’anno e mezzo di morte e sofferenza a livello mondiale che sarebbe iniziato nel giugno del 68 d.C. (v. 10)
Passiamo adesso a considerare un’ulteriore opera impossibile che Gesù si propone di compiere: risparmiare questa chiesa dall’anno e mezzo di morte e sofferenza su scala mondiale che sarebbe iniziato di lì a meno di due anni. Abbiamo già detto del periodo di estrema carestia, di morti causate da rivolte, guerre civili e dal conflitto con i Romani, che avrebbe avuto luogo immediatamente dopo la morte di Nerone, nel giugno del 68 d.C. Eppure, in modo sorprendente, la chiesa di Filadelfia sarebbe passata indenne attraverso tutto ciò. Dio stava per porre fine alla loro esperienza della Grande Tribolazione. Era come se il Signore li avesse posti in una piccola bolla protettiva.
Può forse Gesù affrontare l’impossibile? Certo che sì! Egli può intervenire nell’accecamento demoniaco, nella salvezza, così come nella protezione dal pericolo. Questo è il Signore che noi serviamo! Non è forse degno di lode? E uno dei modi migliori per lodarlo è vivere per fede, senza lasciarsi sopraffare dallo scoraggiamento. Lo si glorifica quando ci si rifiuta di abbattersi, perché in tal modo la propria testimonianza di vita mostra diretta e concreta fiducia nelle sue promesse.
Ulteriori promesse che avrebbero incoraggiato la chiesa di Filadelfia
La venuta di Cristo, per giudicare i persecutori, sarebbe avvenuta molto presto (ταχύ – tachý, v. 11a)
Ma vi è un ulteriore e dolcissimo incoraggiamento che Gesù rivolge a questa chiesa. Anzitutto, Egli promette: «Io vengo presto». La parola tradotta con “presto” sarebbe più correttamente resa con “a breve”. Si tratta del termine greco ταχύ (tachý). Il traduttore del maggioritario (del testo biblico che usiamo in questa serie), influenzato evidentemente da una prospettiva dispensazionalista, non riuscendo a concepire che Cristo potesse venire a breve — secondo il significato letterale — ha preferito tradurre con “rapidamente”. Tuttavia, si tratta di una resa impropria. Ταχύ significa sempre ed ovunque “a breve” o “tra poco”, e il suo significato è ulteriormente confermato dalla presenza, nel contesto immediato, della locuzione “sta per” (mellō in greco).
Ciò implica, evidentemente, che Gesù non stava parlando del suo ritorno fisico alla fine dei tempi, bensì della sua venuta in giudizio contro Israele e Roma. E tale giudizio era davvero imminente. Il giudizio su Roma ebbe luogo nel 68 d.C. — e fu devastante. Quello su Israele iniziò pochi mesi prima, nel 66, e si protrasse fino al 73 nelle varie regioni dell’Impero. Anch’esso fu di proporzioni catastrofiche, tanto da far impallidire persino le descrizioni più drammatiche del genocidio perpetrato sotto Hitler.
In ogni caso, Gesù aveva promesso che sarebbe venuto a breve, e mantenne tale promessa: nel giro di pochi mesi intervenne contro i persecutori della chiesa. La Scrittura è infallibile e inerrante: non commette errori. E “a breve” significa realmente a breve. “Sta per” significa realmente che qualcosa è prossima a verificarsi. Tutto ciò avrebbe rappresentato un immenso conforto per la chiesa di Filadelfia. E quando crediamo che i passaggi della Scrittura sull’imminenza si siano adempiuti nel I secolo, rendiamo gloria a Dio. Lo glorifichiamo perché dimostriamo di credere davvero alle sue promesse.
Coloro che custodiscono fedelmente ciò che Dio ha dato loro riceveranno una corona (v. 11b)
Segue poi la promessa di una ricompensa. Al versetto 11 leggiamo: “Tieni saldo ciò che hai, affinché nessuno ti porti via la tua corona”. Attenzione, non viene detto: “Vivi all’altezza delle aspettative di qualcun altro”; né si afferma: “Usa i doni che un altro possiede o che altri vorrebbero che tu avessi”. Piuttosto, il Signore nelle sue parole d’incoraggiamento afferma: “Tieni saldo ciò che hai!”
All’inizio del mio ministero mi sentivo spesso sopraffatto dalle imprese compiute dai giganti spirituali del passato e provavo un senso di colpa per non riuscire a fare altrettanto, nonostante i miei sforzi. Calvino predicava ogni giorno, oltre ad offrire cura pastorale, scrivere migliaia di lettere, redigere commentari su tutta la Bibbia, insegnare agli studenti e comporre le sue celebri Istituzioni. Io, invece, non ero in grado di eguagliare né lui, né Beza, né Lutero, né Spurgeon, né alcuno dei grandi autori che amavo leggere. In effetti, fu proprio il senso di inadeguatezza a spingermi inizialmente a resistere alla chiamata di Dio al ministero pastorale a tempo pieno.
Ma col tempo sono arrivato a capire come Dio non mi abbia affatto chiesto di “tener saldo” ciò che aveva, che so, Jonathan Edwards o nessun altro mio eroe della fede, bensì ciò che aveva ed ha Phil Kayser – me stesso. Alcuni di voi forse si sentono sconfortati perché si confrontano con altri fratelli e sorelle, e pensano di non essere all’altezza. Lasciate perdere: paragonarsi con gli altri non porta altro che scoraggiamento. È un errore ricorrente e bisogna contrastarlo. Cristo ci dice di non preoccuparsi delle capacità del nostro prossimo, né delle sue aspettative. 1 Pietro 4:11 afferma: “Se uno esercita un ministero, lo faccia come con la forza che Dio fornisce”. Né più, né meno! Invece, in Romani 12:6 leggiamo: “Avendo pertanto doni differenti secondo la grazia che ci è stata concessa… [usiamoli]”. Dio non forma cristiani con lo stampino. E, credetemi, afferrare questo principio è assai incentivante.
Ho menzionato lo scoraggiamento, ma c’è anche un secondo pericolo che può sorgere quando lasciamo che sia qualcuno diverso da Cristo a stabilire l’agenda delle aspettative per la nostra vita. Potremmo non aspirare a tutto ciò a cui Dio ci chiama, solo perché i nostri “indici di approvazione” sembrano già abbastanza alti. Alcuni degli studenti più brillanti che abbia mai conosciuto erano anche tra i più pigri. Poiché tutto riusciva loro facilmente e poiché né i compagni né gli insegnanti si aspettavano di più da loro, finivano per accontentarsi. Cristo, però, vuole che noi diamo il meglio: da un lato perché siamo responsabili davanti a lui; dall’altro perché desidera che diventiamo la versione migliore di noi stessi — non la copia di qualcun altro — e che la nostra vita non sia governata dalle aspettative altrui.
Inoltre, dal versetto 11 apprendiamo come ciò che facciamo qui sulla terra sarà riconosciuto e ricompensato in cielo. Come ciò accada, non lo so, poiché ogni cosa che ha valore eterno è resa possibile unicamente dalla grazia — e tuttavia, egli ci ricompensa per aver vissuto secondo quella grazia. La corona è un riconoscimento da parte di Gesù, ma è anche una ricompensa. Egli ha detto che persino un bicchiere d’acqua dato nel suo nome non perderà affatto la sua ricompensa. Ora, immagino, comprendete sempre di più perché ho intitolato questo sermone “Dolce incoraggiamento”.
I vincitori saranno così vicini a Dio da essere come colonne nel tempio, senza mai uscire dalla Sua comunione (v. 12a)
Segue una splendida promessa di intimità e profonda comunione con Dio. Il versetto 12 afferma: “Chi vince, io lo farò una colonna nel tempio del mio Dio, ed egli non ne uscirà mai più”. È interessante notare come Cristo, in ciascuna lettera alle chiese, offra un’immagine della vicinanza che i vincitori possono godere con Dio. Questo, a mio avviso, evidenzia quanto l’intimità con il Signore sia centrale nella vita cristiana. E la promessa qui espressa è particolarmente significativa: essere una colonna nel tempio di Dio e non doverne mai uscire significa poter vivere, giorno e notte, nella costante consapevolezza della sua presenza. Non soltanto egli non ci abbandona mai, ma ci mantiene sempre nel suo cospetto.
Vale anche la pena riflettere sul significato che possiamo assumere davanti a Dio. Le colonne sostenevano i piani superiori e il tetto del tempio: erano elementi strutturali essenziali. Così, il Dio che non ha bisogno di nulla ha deciso di renderci parte indispensabile del suo regno. Ognuno di voi è una componente necessaria del corpo di Cristo. Appartenete a lui. Questo è un profondo incoraggiamento per chi si sente rifiutato o emarginato da amici o vicini.
I vincitori porteranno il nome di Dio, il nome di Cristo e il nome della Nuova Gerusalemme: saranno per sempre identificati con essi
Ma c’è di più: Gesù è disposto a legare la sua reputazione, e quella dell’intero suo regno, a ciascuno di noi. È ciò che afferma il versetto 12: “Scriverò su di lui il nome del mio Dio, il nome della città del mio Dio — la nuova Gerusalemme, che scende dal cielo da parte del mio Dio — e il mio nuovo nome”. Ti è mai capitato che un parente o un amico, comportandosi in modo goffo o imbarazzante, ti abbia spinto a dire per scherzo: “Non lo conosco, non siamo parenti”? Ebbene, Dio non dirà mai questo di noi, né per scherzo né seriamente. Non si vergogna di averci nella sua famiglia. Al contrario, desidera identificarsi con noi, legando il suo nome al nostro.
E in effetti, per riprendere la frase precedente, dice che ci farà diventare colonne prominenti nel suo tempio. Tutti potevano vedere le colonne nel tempio. Egli non ci nasconderà in un angolo per evitare l’imbarazzo. Dio sta dicendo, in sostanza: “Anche se sei debole e lotti con affanno; anche se sei un outsider ostracizzato, io non mi vergogno di riconoscerti come mio. Anzi, voglio metterti in mostra nel luogo più visibile per mostrarti come uno che mi appartiene: ti farò diventare una colonna nel mio tempio.” E poi aggiunge: “Scriverò su di te il mio nome, il nome del Padre mio e il nome della mia città. Saranno per sempre legati a te”.
Vedete, noi rappresentiamo Cristo, il Padre e la chiesa di Gesù Cristo, ed è importante non disonorare quel nome. Ma ciò che mi incoraggia profondamente è che Cristo è disposto a identificarsi con noi, peccatori che lottano e stanno vincendo sul peccato. Egli non si vergogna.
Gli unici che arrecano vergogna a Cristo sono coloro che si vergognano di lui, che non sono fieri di portarne il nome. Non occorre essere perfetti per essere accettati. Basta essere dei vincitori, vale a dire persone che lottano contro il peccato, che lo abbattono uno ad uno nella propria vita, che resistono al diavolo affinché fugga da loro. Dio si compiace di associarsi a tali vincitori.
E, per inciso, il verbo “vincere” qui è al presente attivo: indica una persona che continua a vincere, il che implica che sta ancora affannosamente combattendo contro il peccato, contro il mondo e contro il diavolo. Non ha ancora finito. Un vincitore non è qualcuno che è arrivato alla perfezione, ma uno che è ancora nel processo di battersi per la vittoria. Il versetto 12 non è rivolto a persone che “ce l’hanno fatta”, ma a coloro che stanno affrontando le proprie debolezze e i propri peccati. Dobbiamo prendere le parole di questo versetto come fonte di grande incoraggiamento!
Esortazione finale ad ascoltare lo Spirito che parla attraverso le Scritture
L’ultimo rimedio allo scoraggiamento ci viene dato nel versetto 13: “Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese”. E si noti l’uso del plurale: “chiese”. La chiesa di Filadelfia doveva prestare attenzione agli avvertimenti rivolti a Laodicea, alle dure parole indirizzate a Sardi, alle esortazioni rivolte a Tiatiri. Ma non sarebbe stata scoraggiata da quelle parole, perché Filadelfia cercava di restare saldamente ancorata alla Parola di Cristo e a Cristo stesso.
Se i vostri occhi sono fissi su Gesù, la mia predicazione della legge non potrà incupirvi e scoraggiarvi. Se la vostra vita è pura, le frecce della Parola di Dio non troveranno bersaglio in voi. E se invece la Parola di Dio colpisce un bersaglio nella vostra vita, allora state certi che essa produrrà pentimento e purificazione mediante il sangue di Gesù Cristo, insieme ad un rinnovato zelo per Dio – e questo è un bene! Se, invece, doveste sentirvi abbattuti, è probabile che stiate cercando altrove il vostro senso di approvazione. Forse avete la sensazione di non essere all’altezza delle aspettative di qualcuno. Ma se volgete lo sguardo a Gesù, comprendete che egli già conosce ogni cosa, che si prende cura di noi e che ha promesso di aiutarci nella nostra lotta. È tutto ciò ci dà la determinazione e la forza di destarci con un desiderio rinnovato di piacergli. Ecco perché anche questa lettera termina con questo messaggio: ignora Satana e presta ascolto allo Spirito Santo – “chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese”.
Satana vorrebbe vederci con la coda tra le gambe e spingerci ad arrenderci. E per raggiungere questo scopo è un esperto nell’usare anche le Scritture – ma sempre fuori contesto! Si giocò questa carta, maldestramente, persino con Gesù, nel deserto. In ogni caso, quando lo scoraggiamento arriva nella nostra vita, è fondamentale seguire l’esempio di nostro Signore e dire a Satana: “Vattene da me; non ti ascolterò, perché Dio ha detto: ‘Io non ti lascerò e non ti abbandonerò’”. Se Cristo non ci abbandonerà mai, perché mai dovremmo abbandonarlo noi?
Non permettete allo scoraggiamento di privarvi della gioia cristiana. Se siete caduti nel peccato, credete ed accogliete il perdono e la grazia di Cristo. Se, invece, non siete incorsi in alcun peccato, allora non avete nessun diritto di essere scoraggiati a causa del giudizio altrui. È davanti al Signore che stiamo in piedi o cadiamo. E il nostro Signore dice in Geremia 29:11: “Poiché io conosco i pensieri che ho per voi; (…) pensieri di pace e non di male, per darvi un avvenire e una speranza”. Ignoriamo i tentativi di scoraggiarci del diavolo e prestiamo quindi ascolto al Dio di ogni consolazione. Amen!
Originale: https://biblicalblueprints.com/Sermons/New%20Testament/Revelation/Revelation%203/Revelation%203_7-13#user-content-fn-1
[1] Vic Reasoner, A Fundamental Wesleyan Commentary on Revelation (Evansville, IN: Fundamental Wesleyan Publishers, 2005), 189–90.