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Guida divina per la comprensione del libro dell’Apocalisse – Parte 2

Di Phillip G. Kayser, sermone del 10/05/2015

Parte della serie “Progetto Apocalisse”

Questo sermone prosegue l’analisi dei trenta principi ermeneutici forniti nei primi undici versetti dell’Apocalisse – questi ci guidano ad una giusta lettura del libro. Il focus principale di questa esposizione sarà sull’approccio corretto alla comprensione dei simboli.

(Il contenuto di questa esposizione sarà maggiormente apprezzabile considerando le immagini che la accompagnano. Qualora fosse possibile, ne consiglio quindi l’ascolto avendo la trascrizione a portata di mano)


Leggiamo i primi tre versetti di Apocalisse 1 dal testo greco “maggioritario”:

1 Rivelazione di Gesù Cristo che Dio gli diede per render noto ai suoi schiavi le cose che devono presto accadere, e che egli comunicò mandando il suo angelo al suo schiavo Giovanni, 2 il quale attesta la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo, riferendo ciò che ha visto: le cose che sono e quelle che devono accadere dopo di esse. 3 Beato chi legge e chi ascolta le parole della profezia e osserva le cose che sono scritte in essa, perché il tempo è vicino[1].

 

Introduzione

In questi messaggi introduttivi cerco di prendere tre piccioni con una fava.

Prima di tutto, cerco di presentare i trenta principi interpretativi che Dio ci ha fornito nei primi undici versetti di questo capitolo. Dio ci comunica per il tramite d’essi come affrontare la lettura di questo libro. Si tratta, in pratica, di chiavi di lettura imprescindibili.

Il mio secondo obiettivo è quello di utilizzare questi trenta principi ermeneutici per escludere sistematicamente molteplici approcci sbagliati che nel tempo sono stati adottati per interpretare l’Apocalisse. Penso sia cosa molto utile sapere quali punti di vista siano in errore. Ciò non vuol dire che i loro sostenitori non siano cristiani perbene ed onesti – sia chiaro. Significa solo che nel loro lavoro d’analisi hanno mancato di basarsi su questi principi fondamentali trasmessici da Dio stesso.

Terzo, parallelamente a queste due cose, voglio anche introdurvi a mano a mano ad alcuni dei temi principali dell’Apocalisse. In alcuni casi, mi sarà utile al fine di illustrarvi come funzionano questi principi. E spero che, una volta superato il versetto 11, avrete già una bella tabella di marcia per poter navigare agilmente nell’intero libro.

Lasciatemi adesso riassumere gli otto principi esaminati la settimana scorsa. Abbiamo visto, nel principio n. 1, che la parola “Rivelazione” (apokalupsis) significa svelare qualcosa in modo da poterlo vedere chiaramente. Dio non ha voluto che questo fosse un libro oscuro, occultante la verità. Lo ha, invece, inteso come uno svelamento o scoprimento della verità.

E quando il sipario scopre le quinte (apokalupsis), qual è la prima cosa che è possibile ammirare? Gesù Cristo – Gesù il Messia. Quindi il principio n. 2 dice che questo non è un libro concepito per spaventarci a morte mostrando tutto ciò che va male. È un libro progettato per concentrare la vostra attenzione su ciò che Gesù sta facendo. È più incentrato su Cristo che sull’anticristo, anche se parla di entrambi.

E abbiamo visto che ci sono enormi implicazioni di questi primi due principi. Violandoli, si incappa in diversi errori ed inconsistenze di ragionamento, così che il lavoro di un cospicuo numero di scuole d’interpretazione è da ritenersi difettoso.

Il terzo principio mette fuori gioco le interpretazioni liberali di questo libro. La prima parte del versetto 1 dice: “Rivelazione di Gesù Cristo che Dio gli diede per render noto ai suoi schiavi…”. Capiamo, quindi, di avere a che fare con le parole stesse di Dio: questo libro è un dono ispirato dalla mano di Dio e, per tal ragione, deve essere trattato con tutta la riverenza del caso. E, in realtà, tutti gli evangelici si impegnano in ciò. Tuttavia, nel tentativo di procacciarsi lustro e rispettabilità accademica, capita come fin troppi evangelici finiscano purtroppo per acquisire almeno un certo numero di idee di stampo liberale, senza rendersi conto delle incongruenze e contraddizioni che tali posizioni portano con sé.

Considerando il principio n. 4, abbiamo appreso come questo libro non sia destinato esclusivamente ad esperti accademici o teorici. Si tratta di una rivelazione pensata per essere comunicata a tutti gli schiavi di Cristo, cioè a me e a voi. Un autore, pensando al nutrito pacchetto di simboli ed immagini dell’Apocalisse, l’ha addirittura paragonata scherzosamente ad un fumetto – insomma, ad un’opera d’arte visuale (tra quelle più amate ed accessibili ai giovani) – più che ad un noioso ed ostico libro di testo.

Il principio n. 5, basandosi sulla parte di versetto che dice “che Dio gli diede per render noto ai suoi schiavi”, esclude completamente l’idea che possa trattarsi di un libro misterico sulla scorta delle opere appartenenti al filone gnostico-apocalittico. Dio non nasconde nulla. È pronto a mostrare (“render noto”) il vero significato del libro a chiunque voglia leggerlo. Anche questo principio, come visto la settimana scorsa, va ad invalidare il lavoro di alcune scuole d’interpretazione.

Il principio n. 6 mette in chiaro come l’Apocalisse tratti di storia, di vera storia – non solamente di idee ed applicazioni teoriche. Parla di “cose che devono presto accadere”. Questa particolare indicazione interpretativa esclude l’idealismo, secondo cui il libro rappresenterebbe idee e modelli teoricamente applicabili in qualsiasi epoca, senza però necessariamente mostrare puntuali eventi storici. Eppure, questa frase ci comunica chiaramente come l’intero scopo del libro sia quello di mostrarci cose che avverranno nella storia. Ciò non significa che l’idealismo non abbia nulla da offrirci, anzi; io personalmente trovo che sia in grado di presentare gran belle applicazioni dei principi esposti nell’Apocalisse. Ma l’impostazione generale dell’idealismo è purtroppo sbagliata.

Inoltre, l’importanza di questa frase (“cose che devono presto accadere”) risiede anche in ciò: la storia raccontataci nel libro, grazie a quel “devono”, è da vedersi come una Storia della Provvidenza divina. Questo è il principio n. 7. Il quesito fondamentale attorno al quale ruota questo principio è “Chi governa la storia?”. Alcuni commentatori danno l’impressione che la storia sia controllata da Satana o dalla massoneria, o da qualche altra forza creaturale. Così non è. Quella raccontata è una storia che “deve” aver luogo perché Gesù Cristo ne è il suo Signore. Sapere della Provvidenza divina dietro ad ogni singolo dettaglio di questa storia deve esserci di grande conforto.

L’ottavo principio ha a che fare con la parola “presto”. Tale indicatore temporale mostra che la maggior parte di questo libro tratta di eventi che hanno iniziato a verificarsi entro pochi mesi o addirittura settimane dalla stesura del libro. Indica dunque imminenza. Ricorderete – abbiamo dedicato un bel po’ di tempo a considerare le differenze tra i sette anni d’ira contro Israele e Roma, che erano in procinto di cominciare, e la lontana e ritardata Seconda venuta.

Bene. Adesso, senza ulteriori esitazioni, passiamo ad esaminare subito il principio n. 9.

 

Il principio n. 9 dice: gli eventi storici si devono vedere come comunicatici tramite simboli (v. 1j – ἐσήμανεν [esímanen]: “comunicare tramite simboli”)

Questo principio deriva dalla seconda frase del versetto 1. Questa frase, letta basandosi sul “maggioritario”, la si potrebbe rendere in tal maniera: “…e lo comunicò, mandandolo per mezzo del suo angelo al suo schiavo Giovanni”. La parola greca “comunicò” si riferisce a un tipo di comunicazione molto particolare. Vuol dire comunicare per il tramite di simboli e segni. La Re Giacomo traduce più letteralmente: “…ed Egli lo significò”. “Significò” sta per comunicare, manifestare, rappresentare per mezzo di segni, simboli e figure.

Apocalisse 1:1 dice dunque che “Dio mandò e significò”. La parola greca “significò” (ἐσήμανενesímanen) vuol dire “scrivere in simboli, segni e figure” e la sua forma sostantivata (σημεῖον – simeíon) vuol dire segno o simbolo. Per questo motivo, nella Re Giacomo questo termine particolare viene tradotto “significò”, la cui etimologia latina, tre l’altro, rivela le due componenti signum, segno, e ficàre, fare, che vogliono dire “far conoscere / mostrare qualcosa con segni”. Giovanni adopera questa stessa parola nel suo Vangelo (in Giovanni 12:33; 18:32 e 21:19): in tutti e tre i casi la troviamo in relazione a cose dette da Gesù per indicare un evento futuro (quindi, veri eventi storici) in modo simbolico. Chi si avvicina a questo libro con un approccio “letteralista”, non solo non è coerente, ma tradisce la propria ignoranza di questo principio.

Ora, si deve dire come tutti riconoscano che i verbi “comunicare”, del maggioritario, e “significare”, della Re Giacomo, vengano definiti dai dizionari come “scrivere in simboli, segni e figure”. Eppure, non si può non notare come molti non lascino che questo principio guidi effettivamente il loro lavoro di interpretazione.

Questo nono principio ermeneutico è talmente importante che vi dedicherò l’intero sermone. Esamineremo come interpretare la letteratura simbolica. Ma prima di tutto, beh, mi tocca dimostrare come effettivamente si tratti di letteratura simbolica. Giovanni ci avvisa di non considerare i suoi scritti come un’opera narrativa, ma di interpretarli come letteratura simbolica. Permettetemi di ripeterlo ancora una volta prima di proseguire, perché questo mette in chiaro in maniera determinante la sostanza del principio n. 9: Giovanni ci avvisa di non considerare i suoi scritti come un’opera narrativa, ma di interpretarli come letteratura simbolica.

 

Qualsiasi scuola d’interpretazione che consideri l’Apocalisse come un testo di carattere narrativo piuttosto che simbolico finisce inevitabilmente per perdersi molto della sua sostanza.

Inoltre, molti commentatori negano tout court questo principio. Ad esempio, lo scrittore dispensazionalista John Walvoord, il quale dichiara: “Le parole «Egli lo rese noto» derivano sì dal greco ἐσήμανεν (esímanen), che significa “rendere noto mediante segni o simboli”, però il verbo include anche la comunicazione mediante parole”[2]. Che dire, con tale dichiarazione, purtroppo, Walvoord pare non comprendere appieno la questione. Infatti, tutti son d’accordo sul fatto che una comunicazione con le parole non sia esclusa – ma che tipo di parole? Si tratta di una comunicazione per il tramite di parole che… sono simboli, segni o figure. Walwoord, difatti, supporta un punto di vista in opposizione al nostro nono principio: egli dice che Apocalisse presenta solamente un totale di 26 simboli e sostiene che la maggior parte del libro non debba esser considerato come un testo di carattere simbolico. Ma perché? Beh, evidentemente c’è qualcosa nel suo sistema interpretativo che lo spinge a dir ciò.

Robert L. Thomas fa più o meno la stessa cosa nel suo imponente commentario sull’Apocalisse. Nel dire ai suoi lettori come abbiano da affrontare il testo, dice loro di interpretarlo in modo non simbolico – a meno che non si possa proprio far diversamente. Questo è il suo principio di interpretazione. Ma da dove ha preso questa regola ermeneutica? Sicuramente non da Giovanni e neppure da Gesù.

Thomas, in risposta ad altri commentari che sottolineano come questa parola greca chiarisca che quelli di Apocalisse siano scritti di carattere simbolico, dà una risposta incredibile. Prima ammette che la parola voglia effettivamente indicare una comunicazione per simboli; poi, però, insiste nel dire che questo elemento non debba avere alcuna rilevanza per le modalità d’interpretazione del libro nel suo complesso. In altre parole, ammette come Dio abbia dato a Giovanni dei simboli, ma nega che dovremmo interpretare il libro che ne è risultato come letteratura simbolica. Ve lo voglio citare. Egli dice:

[Le parole dell’Apocalisse] vanno interpretate come si interpreta il resto della Bibbia. [Mah! In realtà, la Bibbia stessa dice di contenere diversi tipi di letteratura. In ogni caso, continua dicendo:] Il verbo esímanen (“significò” in Apocalisse 1:1) fornisce un’anticipazione della natura simbolica della comunicazione di Dio con Giovanni. Questo però non ha nulla a che vedere con il modo in cui la comunicazione risultante deve essere interpretata[3].

Vedete come tenti abilmente di eludere la questione? In pratica, quanto Thomas afferma vuol dire questo: Giovanni ha avuto a che fare con dei simboli, sì; ma poi ce li ha comunicati in modo più chiaro, a parole – e, quindi, noi non abbiamo bisogno di interpretare il libro in modo simbolico. Ma questa è una posizione che mal si armonizza con la chiara grammatica del versetto 1 – l’intero libro è “significato” o “comunicato” per il tramite di simboli.

La citazione di Thomas continua così: “Dobbiamo assumere [e badate bene: trattasi, com’egli stesso dichiara, solo di un’assunzione] un’interpretazione letterale di ogni rappresentazione simbolica fornita a Giovanni, a meno che un fattore particolare nel testo non indichi che dovrebbe essere interpretata in modo figurato”.

Ora, capisco bene come questa faccenda, questo dibattito tra simbolisti e letteralisti, possa risultare alquanto ostico da seguire, me ne rendo conto. Alcuni, sentendosene un po’ appesantiti, potrebbero anche chiedersi come mai sia tanto importante da chiarire. Beh, vi assicuro come sia davvero una questione di fondamentale importanza. E a breve mi impegnerò ad illustrarvi chiaramente i motivi. Per adesso ci tengo semplicemente a farvi sapere dell’esistenza di molti commentatori che non hanno nessun problema nel riconoscere come la rivelazione comunicata a Giovanni fosse in simboli, ma che si rifiutano di approcciare il libro in questione come un’opera letteraria di carattere simbolico. Credono che non sia diverso dal resto della Bibbia, a parte per la presenza, qui e lì, di un certo numero di simboli, per l’appunto. Per citare ancora Thomas: “[Le parole dell’Apocalisse] hanno da essere interpretate come si interpreta il resto della Bibbia.”

 

È importante capire, però, che la Bibbia presenta cinque generi principali di letteratura, ciascuno con alcune regole di interpretazione uniche: storico, giuridico, profetico, poetico ed epistolare. (Ed abbiamo già visto come il genere apocalittico, in realtà, non possa far parte di questo elenco). L’Apocalisse è chiaramente identificabile nel genere profetico (1:3; 22:7,10,18,19; ecc.); non deve e non può dunque essere confusa con un testo di carattere “narrativo”, come, ad esempio, quello delle epistole. Caratteristica distintiva del genere profetico è sempre una massiccia presenza di “simboli”.

In molti, ripensando alle parole del signor Thomas, si chiederebbero: “E cosa vorrebbe dire con questa storia di interpretare Apocalisse come si interpreta il resto della Bibbia?”. Il resto della Scrittura non viene mica affrontato con un’unica modalità interpretativa. La Bibbia stessa afferma di presentare almeno cinque distinti generi letterari: storico, giuridico, profetico, poetico ed epistolare. Trattando, per esempio, il libro della Genesi come se appartenesse al genere poetico (come fatto da Meredith Kline), anziché a quello della narrazione storica, si rischierebbe seriamente di rovinare l’esito del proprio lavoro interpretativo. Allo stesso modo, si rischierebbe di irrimediabilmente compromettere l’interpretazione dell’Apocalisse non trattandola secondo le regole del simbolismo profetico dell’Antico Testamento.

Vi sono poi alcuni che vorrebbero affrontare la lettura dell’Apocalisse con l’armamentario tipico del simbolismo apocalittico. Ma per le ragioni esposte la scorsa volta, ciò non può funzionare, perché inappropriato ed inadatto.

Diamo una veloce occhiata al versetto 3 – anticipando in tal modo uno dei principi ermeneutici che tratteremo più in là. L’inizio del versetto 3 rivela chiaramente come lo stile letterario di quest’ultimo libro della Bibbia non possa che rientrare alla perfezione nel genere letterario profetico, non apocalittico. “Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia”. Per ben sei volte gli scritti dell’Apocalisse vengono detti profezia. E la letteratura profetica è piena zeppa di simboli. La letteratura in stile profetico è sempre una letteratura di carattere simbolico.

 

La letteratura di carattere simbolico non lascia spazio ad interpretazioni soggettive. Giovanni interpreta chiaramente i suoi simboli almeno 36 volte e si aspetta che i suoi lettori comprendano i simboli dei profeti dell’Antico Testamento.

Se riconosciamo il messaggio di questo libro come letteratura di carattere simbolico, allora dobbiamo assolutamente prima ben capire come la Bibbia tratti i simboli.

Alcune persone, agendo di pancia, tendono a pensare che, avendo a che fare con un libro pieno di simboli, il loro approccio interpretativo possa essere soggettivo. E pensano che proprio come cinque persone diverse, che ammirano un dipinto in una galleria d’arte, possano uscirsene con cinque interpretazioni diverse (ed essere comunque benedette), così anche la lettura del libro dell’Apocalisse possa tranquillamente produrre esiti interpretativi diversi (tutti ugualmente portatori di benedizione). Nell’approcciare questo libro, il quesito guida della nostra lettura non sarebbe più “cosa significa ciò?”, ma “cosa significa ciò per noi?”. Trattasi, ovviamente, di una domanda assurda, visto che non sarà mai possibile giungere ad afferrare nessun significato per sé stessi, senza aver prima inteso quello oggettivo del I secolo.

Lascia sempre a bocca aperta passare in rassegna un certo tipo di commentari pieni zeppi di spiegazioni ed indizi collegati a idee moderne: computer, aerei, carri armati e altre tecnologie dei nostri tempi. Le pagine di queste opere abbondano di espressioni di questo tipo: “Questo mi ricorda…”, “Quest’altro mi fa pensare…” e così via. I loro autori, evidentemente, si danno un gran da fare nella proiezione (forzata) di fatti e idee attuali nel testo biblico – un testo biblico che, inutile dirlo, ne esce fuori oltremodo maltrattato.

Il punto è che è la stessa Bibbia a dover interpretare i suoi simboli. E in ogni caso, la soggettività nell’interpretazione contraddice i primi cinque principi che abbiamo esaminato la settimana scorsa. È, quindi, fuori luogo. Dio ci mostra il vero significato dei simboli spiegandoceli egli stesso nelle Scritture. Questi simboli Dio li decifra e li svela. L’interpretazione e la spiegazione della maggior parte dei simboli, inoltre, è rintracciabile nel canone delle Scritture che precedono l’Apocalisse; invece, quelli inediti, cioé nuovi per il resto della Bibbia, vengono chiaramente identificati e spiegati da Giovanni stesso.

Bene, giungiamo adesso alla questione centrale.

Come funzionano i simboli? È importante considerare la differenza tra la denotazione (cioè, la persona, l’evento o la cosa rappresentata) e la connotazione (le specifiche caratteristiche che di quella persona, di quell’evento o di quella cosa vengono evidenziate).

Ritengo che gli ebrei del I secolo, che avevano familiarità con la letteratura profetica (veterotestamentaria), avrebbero trovato questo libro estremamente facile da capire. E adesso vorrei sottoporvi ad un test, con l’obiettivo di convalidare e dimostrare praticamente questa mia affermazione. Vorrei illustrarvi quanto sia facile identificare, decifrare e comprendere i simboli della propria cultura. Porrò alla vostra attenzione diverse immagini, sicuro che la maggior parte di voi non avrà grandi problemi nel riconoscere i simboli e il significato che esse rappresentano – anche se alcune di queste saranno un po’ datate, essendo della mia generazione e di quella dei vostri nonni.

Eccovi le prime due:

 

(Un uomo che compie un giuramento avendo le dita della mano destra, nascosta dietro la schiena, incrociate);

 

 (Pinocchio col naso lungo).

 

Quale peccato rappresentano queste due immagini secondo voi?

Quasi tutti in Occidente saprebbero che queste immagini rappresentano il problema della menzogna. Eppure, in molti paesi del mondo non avrebbero idea del significato di questi simboli. Perché? Beh, semplice – perché nulla sanno delle “dita incrociate” (come gesto avente lo scopo di invalidare una promessa) e mai hanno avuto occasione di acquisire familiarità con la storia e con il personaggio di Pinocchio. Per queste culture a noi lontane, le “dita incrociate” e il “naso lungo” sarebbero immagini che rimarrebbero prive di significato, perché sconosciute. Eppure – ne son certo – persino quei pochi nostri compaesani che non hanno mai letto Pinocchio o visto il famoso film d’animazione della Walt Disney saprebbero in ogni caso del “naso lungo” e del suo significato in quanto simbolo popolare della nostra cultura.

Eccovi adesso altre due immagini: due famosissimi loghi di aziende di successo che la maggior parte delle persone riconoscerebbe immediatamente, soprattutto perché onnipresenti nella nostra società.

 

(La famosa mela morsicata che luccica su tanti nostri computer e cellulari);

 

(Un “cavallino rampante” nero in campo giallo)

 

Beh, immagino che sia facile indovinare di che si tratti e che sia piuttosto superfluo menzionarveli, no?

E adesso forse qualcosa di un po’ più difficile, specialmente per i più giovani:

 

(Un disegnino di un omino grassoccio e baffuto che indossa un abito elegante e un cilindro e porta un bastone da passeggio: Mr. Pennybags)

 

Beh, ammetto che, nonostante vi abbia già detto come si chiami, rimane comunque non molto semplice da identificare; a meno che non vi sveli in quale contesto appaia tale disegnino – allora sono sicuro che ve ne ricordereste immediatamente: si tratta dell’iconico banchiere del famoso gioco di società, Monopoly. Rich Uncle Pennybags ne è la mascotte e fa parte dello storico logo.

E quest’altra immagine?

 

(Disegno di omino con camicia a righe bianche e nere, occhi bendati, movenze furtive, recante una torcia accesa nell’oscurità e una cassetta degli attrezzi)

 

Anche questa potrebbe risultare piuttosto difficile per i più giovani. Di chi si potrebbe trattare? La camicia a righe bianche e nere è un segno rivelatore del fatto che si tratti di un criminale (di uno di quelli come spesso illustrato nei vecchi fumetti e cartoni animati). La maschera, la torcia e la cassetta degli attrezzi rivelano il tipo specifico di criminale: è un ladro, uno scassinatore.

La rappresentazione dei soggetti dei cartoni animati si basano su regole convenzionali e cliché precisi, e questo è uno dei modi convenzionali di come si era soliti disegnare i ladri alcuni decenni fa. Almeno qui da noi. In altre parti del mondo probabilmente le regole grafiche per la rappresentazione di un ladro potrebbero essere molto diverse e chi sa cosa penserebbero vedendo questo nostro bandito stereotipato. Potrebbero non riconoscerlo – potrebbero non capire il simbolo.

Eccovi un’ulteriore immagine:

 

 

(Disegno stilizzato di un omino in volo con mantello rosso)

 

Beh, questa è piuttosto facile: è un supereroe (uno alla Superman, per intenderci). È il mantello a fare la differenza, in quanto elemento tipico degli eroi con super poteri dei nostri fumetti preferiti, nonché di tanti film di Hollywood. Ora, possiamo ben immaginare come in altre culture questo elemento, il mantello, non sarebbe sufficiente a suscitare la stessa associazione, perché mancherebbe quella familiarità con le convenzioni della simbologia popolare occidentale.

Il mio scopo nel fare questo piccolo test è stato quello di mostrarvi quanto sia facile per noi capire i simboli, se appartenenti alla nostra cultura. È per noi possibile individuarli e riconoscerli senza grossi sforzi. Non abbiamo neppure bisogno di un esperto che ci spieghi il loro significato. Quando leggiamo i fumetti e vediamo un certo tipo di topino, beh, sappiamo immediatamente di quale “topolino” si tratti. Allo stesso modo, gli ebrei del I secolo avrebbero trovato estremamente facile leggere il libro dell’Apocalisse. Sarebbe stato quasi come leggere un fumetto: quei simboli e quelle immagini nella mente dei lettori di allora sarebbero stati di una chiarezza immediata.

Ora, ai letteralisti tra noi, vorrei far notare che i simboli possono essere fluidi senza tuttavia perdere il loro significato. Tra poco vi fornirò alcuni esempi tratti direttamente dall’Apocalisse. Ma adesso vorrei porre alla vostra attenzione ancora una volta la celebre “mela morsicata” (del logo della nota azienda produttrice di computer e cellulari). Questa volta in quattro varianti (ufficiali) diverse:

 

(bianca, come insegna di uno store)

(semplicemente nera, bidimensionale)

(a strisce colorate)

(argentata con uno stile tridimensionale)

 

Sono incredibilmente differenti l’una dall’altra, eppure vi sono sufficienti caratteristiche comuni che la maggior parte delle persone riconoscerebbe immediatamente, associandole al famoso logo. C’è fluidità, ma la denotazione (ovvero, l’oggetto che viene indicato) è la medesima per tutt’e quattro le immagini, anche se la connotazione (le specifiche caratteristiche di ogni singola rappresentazione) potrebbe essere leggermente diversa.

Eccovi un altro esempio per illustrarvi ancora il concetto di “fluidità nell’uniformità”. Poco fa avevamo avuto a che fare col buffo banchiere del Monopoly. E adesso vorrei mostrarvi altri due banchieri in due immagini molto diverse tra loro.

 

 

La prima immagine (un disegnino) è quella di un maiale. Eppure, è ben identificabile ancora una volta come banchiere. Questo perché l’immagina rappresenta un disegno di un personaggio abbigliato elegantemente, col sigaro in bocca e circondato da banconote e sacchi di soldi, insomma, tutti elementi tipici del cliché del banchiere nei cartoni animati.

Il fatto è che, evidentemente, esistono regole convenzionali precise per la rappresentazione di questi simboli; regole e coordinate che indicano cosa debba imprescindibilmente far parte di una data illustrazione e anche quanto e come ci si possa discostare da quegli elementi senza che il significato del simbolo si perda. È come se, per esempio, si potesse distorcere e deformare il volto di un certo politico in una sua caricatura solo fino a un certo punto prima che la gente rischi di non riconoscerlo più. Ma, nel momento in cui alcune caratteristiche fondamentali sono chiaramente presenti, allora è incredibile quante alterazioni un’immagine possa subire, così che la gente non debba compiere sforzo alcuno per riconoscerla immediatamente.

Questa è la bellezza e la forza dei simboli. Quando un simbolo cambia un po’, conserva ancora la stessa denotazione (in altre parole, continua ad indicare sempre la stessa persona, lo stesso evento o lo stesso oggetto), ma può presentare una connotazione leggermente diversa (vale a dire, le sue caratteristiche specifiche).

Lo stesso vale per i simboli delle profezie dell’Antico Testamento. Giovanni fonde le quattro bestie di Daniele per rappresentare la sua. Le quattro bestie di Daniele ritraggono Babilonia, Medo-Persia, Grecia e Roma. Ebbene, Giovanni prende la quarta bestia di Daniele (ed è proprio riconoscibile come la quarta bestia del profeta dell’Antico Testamento), ma vuole anche mostrare che un po’ delle bestie precedenti sono ancora presenti in Roma. Quindi, cosa fa? Inserisce alcune delle loro caratteristiche nella bestia di Roma. E ancora oggi, nonostante tutte le controversie, quasi tutti riconoscono esattamente ciò che Giovanni attua almeno su questo punto. Di certo, tutti gli ebrei del I secolo avrebbero colto immediatamente sia la denotazione (Roma) sia la connotazione (cioè, che Roma avesse raccolto in sé elementi degli imperi precedenti nella sua visione del mondo e nelle sue azioni).

Ed ora è il turno del secondo banchiere.

 

 

Questo è un po’ più simile a quello del Monopoly, ma comunque abbastanza diverso da farvi possibilmente avere per alcuni secondi almeno dei dubbi sulla sua identità e professione. Anche se alla fine anche lui è riconoscibile come ricco banchiere, così come raffigurato nelle vignette d’inizio Novecento: è un omino baffuto (come quello del famoso gioco di società), vestito molto elegantemente, fuma soddisfatto un sigaro, siede beato sulla poltrona coi piedi sulla scrivania del suo ufficio; nonostante manchino in questa immagine diretti riferimenti a soldi e banconote, ha comunque elementi sufficienti per farsi riconoscere come il tipico banchiere della nostra cultura. Insomma, ancora una volta osserviamo come la connotazione è diversa, ma la denotazione è la medesima.

Beh, che dire, i simboli della nostra cultura li riconosciamo senza grande sforzo. Di contro, le immagini dell’Apocalisse paiono darci filo da torcere, semplicemente perché non siamo molto addentro nella letteratura profetica dell’Antico Testamento come lo erano gli ebrei del I secolo.

Inoltre, l’Apocalisse presenta anche nuove immagini, immagini precedentemente ancora non apparse da nessuna parte nelle Scritture. Giovanni, esattamente come la maggior parte dei profeti, ne introduce anch’egli di nuove. Ma il punto è questo: le sue sono facilmente identificabili perché tutte chiaramente spiegate. Nel caso di queste immagini inedite non viene lasciato spazio a congetture e speculazioni. Nel capitolo 1:20 Dio spiega il significato dei simboli delle stelle e dei candelabri; nel capitolo 4:5 spiega cosa rappresentano le sette lampade accese dinnanzi al trono; in Apocalisse 4:6 ci dice cosa rappresentano le sette corna e i sette occhi; nel capitolo 5:8 ci dice cosa rappresentano le coppe d’oro piene di profumi (cioè, le preghiere dei santi che salgono al cielo). E più avanti nel libro identifica chiaramente i 144.000 (7:13-14), il grande drago (12:9), le teste della bestia (17:9), le corna su quelle teste (17:12), cosa rappresentano le acque (17:15) e cosa rappresenta la donna che cavalca la bestia (17:18). Insomma, come vedete, davvero non c’è né bisogno né spazio alcuno per la soggettività interpretativa.

Ecco perché risulta tanto avvilente vedere come svariati commentatori tentino di importare le proprie interpretazioni nei simboli. Per esempio, anche se Giovanni ci dice chiaramente che le cavallette del capitolo 9 simboleggiano dei demoni, Charles Ryrie azzarda comunque l’ipotesi che possano invece trattarsi di UFO e Lindsey che possano simboleggiare alcuni elicotteri militari speciali detti Cobra. Tutto ciò evidentemente viola gravemente l’ermeneutica della letteratura profetica. La Scrittura deve interpretare la Scrittura – da questa regola non si può deviare, senza che si vada incontro a sfaceli.

E non dobbiamo pensare che questo sia un principio ignorato solamente dai dispensazionalisti. Anche se Giovanni dice chiaramente come i 144.000 nel capitolo 7 fossero un numero specifico di credenti di ogni tribù d’Israele che sarebbero stati salvati nel I secolo, gli idealisti e gli storicisti (che non possono immaginare alcuna distinzione etnica tra ebrei e gentili nel Nuovo Patto, in quanto sostenitori della teologia della sostituzione) insistono sul fatto che si riferiscono all’intera chiesa, composta da ebrei e gentili. Il problema, però, è che la prima metà del capitolo tratta chiaramente di credenti ebrei e si contrappone alla seconda metà, ovvero al grande numero di santi di ogni nazione, che rappresenta credenti gentili. Ignorare l’interpretazione di Giovanni dei 144.000 (cosa che fanno anche alcuni preteristi parziali), sarebbe come dire che l’immagine del ladro considerata poc’anzi – ricorderete – rappresenti, in realtà, una ballerina di polka piuttosto che un bandito. Operando in tal maniera si finisce per importare nell’immagine un significato inedito, oltre che alquanto inappropriato ed arbitrario.

Quindi, sapendo come interpretare la letteratura simbolica dell’Antico Testamento, ci si ritrova piuttosto avvantaggiati andando a leggere l’Apocalisse. In genere, la letteratura profetica usa spiegare il significato di un simbolo e poi si aspetta semplicemente che si sappia cosa rappresenta quel simbolo attraverso il resto del libro.

Facciamo un esempio – si veda il capitolo 11. Nel libro dell’Apocalisse c’è una città malvagia destinata alla distruzione che viene chiamata nove volte “la grande città” o semplicemente “la città”. Questa grande città porta il nome di quattro civiltà pagane. È identificata come Babilonia, Roma, Sodoma ed Egitto. In Apocalisse 11, incontrando per la prima volta l’espressione “la grande città”, vediamo come Dio stesso ci dia un’anticipazione su come intende usarla nel libro.

Allora, qual è la grande città del capitolo 11? Guardate il versetto 8. Dice: “I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente [il “maggioritario” traduce qui “spiritualmente”] si chiama Sòdoma ed Egitto, dove appunto il loro Signore fu crocifisso”. Ma Gesù fu forse crocifisso in Egitto? Beh, no! Fu crocifisso a Sodoma? Neppure. Sodoma non esisteva nemmeno più. Dove fu crocifisso allora? A Gerusalemme. Allora perché parlare di Sodoma ed Egitto? Beh, perché evidentemente il giudaismo presentava un comportamento del tutto simile a quello di Sodoma e dell’Egitto ed era quindi destinato alla stessa distruzione che aveva interessato queste due civiltà.

I giudei sostenevano di essere veri credenti, ma Giovanni dice che non erano da considerarsi più credenti di quanto lo fossero stati Sodoma o l’Egitto. Non erano più da vedersi come facenti parte del Patto. Nel capitolo 2 parla della bestemmia di coloro che dicono di essere ebrei e non lo sono, e della bestemmia di coloro che dicono di essere una sinagoga di Dio quando, in realtà, sono una sinagoga di Satana. Dio li ha scomunicati e ora fanno parte del mondo.

E più avanti dice che Gerusalemme si comporta come Roma; quindi, sarà soggetta allo stesso giudizio di Roma. E ancora più avanti chiama Gerusalemme Babilonia – non solamente a causa dell’indebita attenzione dedicata al Talmud babilonese e per le altre questioni legate all’occultismo babilonese che gli ebrei praticavano, ma perché era in procinto di cadere proprio alla stessa maniera di Babilonia. Babilonia non esisteva più nel I secolo: era stata distrutta da tempo e il suo sito era stato completamente abbandonato. Babilonia rappresenta il simbolo della “grande città” destinata alla distruzione, ovverosia Gerusalemme.

Giovanni opera esattamente alla stessa maniera dei profeti veterotestamentari. Anche questi sono stati soliti far riferimento a Gerusalemme come “la grande città” destinata alla distruzione (Ger. 22:8) paragonandola a Sodoma (Is. 1:10; Ger. 23:14; Ez. 16 e ancora altri), a Gomorra (Is. 1:10; Ger. 23:14), all’Egitto e dicendo del giudaismo che fosse discendenza di un ittita e di un amorreo – ittiti ed amorrei, ricordiamolo, erano stati distrutti da Giosuè in Canaan. Ebbene, vediamo quindi pure Giovanni riferirsi all’apostata Gerusalemme usando gli appellativi “Sodoma” ed “Egitto” e, in seguito, paragonarla a Roma e a Babilonia. Vediamo, quindi, come sia lo stesso Giovanni a definire i termini basandosi sulle espressioni delle profezie del Vecchio Testamento.

Giovanni ci fornisce anche altri indizi. Per esempio, per tutto il libro ci sono due città che vengono contrapposte: la grande città sulla terra contrapposta a quella del cielo, alla Nuova Gerusalemme. La grande città sulla terra è chiamata la prostituta e la grande città del cielo è chiamata la sposa. E ci sono oltre venti altri indizi che collegano la Babilonia del capitolo 17 con la Gerusalemme terrena. C’è quindi la Gerusalemme terrena contro la Gerusalemme celeste; la prostituta terrena contro la sposa celeste; la città destinata alla distruzione contro la città che durerà per sempre.

Eppure, nonostante la chiarezza della definizione di Giovanni a proposito della “grande città” prostituta, molti interpreti ritengono che il capitolo 11 sia l’unico luogo dell’Apocalisse in cui Gerusalemme viene descritta come la grande città. Secondo la loro interpretazione, la “grande città” in Apocalisse 11 non ha alcuna relazione con la grande città altrove. Non lasciano che siano Giovanni o i profeti dell’Antico Testamento a definire i termini.

 

Il carattere simbolico della storia non dovrebbe essere contrapposto alla sua letteralità. Il termine “letterale” presenta due definizioni: 1) Una visione corrispondenziale della letteratura in cui ogni parola ha un significato definito; contro 2) una visione secondo cui “letterale” significa semplicemente “non simbolico”.

Bene, questa è un’altra questione che è importante affrontare circa l’interpretazione dei simboli. L’avevo già anticipato un po’ nell’esposizione della settimana scorsa: il libro nel suo complesso è letterale o è simbolico? E sappiate che un tale quesito è capace di generare risposte estreme ed opposte. Io sono persuaso del fatto che in realtà il testo possa essere entrambi; almeno, se definiamo “letterale” in maniera classica (sensus literalis), quindi come portatore di un significato unico, grammaticale, storico. A breve cercherò di spiegarmi ulteriormente su questo punto particolare.

Sappiate, in ogni caso, che i dispensazionalisti usano il termine “letterale” in modo molto diverso. L’autore dispensazionalista, Norm Geisler, dice riguardo all’Apocalisse: “…la regola generale è ancora valida: «Se il senso letterale ha un buon senso, allora non cercare altro senso affinché non ne risulti qualcosa di insensato»”.

Ora, in generale, devo ammettere di esser d’accordo con questa regola (che è anche un po’ uno scioglilingua) – se, però, il termine “letterale” viene definito correttamente. Il fatto è che in molti intendono “letterale” come “non simbolico”. E qui casca l’asino! Anche perché è proprio l’autore del libro dell’Apocalisse a sostenere il contrario. Giovanni afferma che la parola di Dio, passata dal Padre a Gesù, da questo all’angelo, dall’angelo a Giovanni e infine a noi, è stata comunicata in forma simbolica.

E poiché sia ​​gli storicisti che i dispensazionalisti hanno purtroppo frainteso il rapporto e la connessione che sussiste tra il carattere letterale e quello simbolico, ritengo importante trattare più a fondo la questione.

Vorrei citare il commento di Vic Reasoner sui due diversi modi in cui è stato definito il termine “letterale”. Reasoner ci dice prima di tutto del modo in cui il termine “letterale” è stato utilizzato nella storia, quindi del sensus literalis (di cui mi servo anch’io). Cito: “In realtà la parola «letterale» deriva dal latino litera che significa «lettera». Interpretare la Scrittura letteralmente significa interpretarla come letteratura. In altre parole, deve essere interpretato secondo le normali regole della grammatica, del discorso, della sintassi e del contesto”[4].

E questo include, ovviamente, anche lo stile di letteratura con cui si ha a che fare, aggiungo io. Quindi, quando dico di avere un approccio di gran lunga più letterale dei dispensazionalisti, come pure di altri presunti letteralisti non simbolisti, intendo dire che prendo molto più seriamente l’intento autoriale, lo stile letterario e l’effettiva corrispondenza tra i termini simbolici e ciò a cui essi si riferiscono (ossia la corrispondenzialità).

Reasoner prosegue descrivendo adesso il secondo utilizzo del termine “letterale”. Egli dice: “Ma «letterale» può anche significare «non figurato o simbolico». Il dispensazionalismo ha richiesto che tutta la Bibbia fosse interpretata in modo monolitico e che i simboli fossero riconosciuti solo quando il loro letteralismo contraddice il buonsenso”[5].

Il fatto è che, se provaste ad interpretare l’Apocalisse in questo modo “monolitico”, secondo lo stile dispensazionalista, beh, spesso gli esiti sarebbero semplicemente pessimi.

Ma se si andasse all’estremo opposto e si prendesse il libro solo come simbolico, non ricavando una corrispondenza del linguaggio simbolico con gli eventi letterali della storia, allora si violerebbero i principi 6, 7 e 8, e si finirebbe per trattare i simboli in modo vago ed inaccurato. È molto importante nel lavoro di analisi ed intepretazione tenere tutti i principi ermeneutici ben presenti.

Quindi, questi scritti con cui abbiamo a che  fare sono da vedersi come letterali o simbolici? La risposta è che sono entrambe le cose!

Andiamo ad Apocalisse 9 per confrontarci con un esempio concreto che ben ci illustri questo concetto in maniera semplice. Questo è un brano che è stato maltrattato ed abusato sia dagli storicisti che dai futuristi. Io adesso non mi dilungherò nell’interpretazione di ogni sua singola parola, non è questo il mio obiettivo.

Iniziamo a leggere il primo versetto: “Il quinto angelo suonò la tromba e vidi un astro caduto dal cielo sulla terra. A lui fu data la chiave del pozzo dell’Abisso“.

In precedenza, avevamo visto l’astro essere il simbolo di un angelo. Qui si tratta chiaramente di un “lui”, e questo “lui” apre il pozzo dell’Abisso. Alcuni interpreti non lo vedono come un angelo: pensano che una stella che cade e il fumo che si alza assomiglino ad una bomba nucleare e ad un fungo atomico. La prospettiva risultante da questa interpretazione sarebbe che, quando quella testata nucleare verrà fatta esplodere, inizierà la Terza Guerra Mondiale. Ma Giovanni parla di un “pozzo dell’Abisso”. E l’abisso è dove si trovano i demoni, giusto?

Leggiamo il verso 2 e 3: “Egli aprì il pozzo dell’Abisso e salì dal pozzo un fumo come il fumo di una grande fornace. Allora il sole e l’aria si oscurarono a causa del fumo della fossa. Dal fumo uscirono cavallette sulla terra. E a loro fu dato potere, pari a quello degli scorpioni della terra”.

Ora, essendo cavallette provenienti dalle profondità dell’abisso, beh, diciamo che non può trattarsi proprio di cavallette ordinarie, no? E, difatti, sono da intendersi come un simbolo per dei demoni – un simbolo, a dire il vero, molto appropriato: pensate ad un’invasione di cavallette e a come queste possano essere in grado di davvero oscurare il cielo e coprire la terra posandosi su ogni cosa, divorando e distruggendo ogni cosa. Beh, l’immagine è molto calzante anche quando applicata a dei demoni scatenatisi su Israele nel I secolo in così gran numero da comportarsi alla stessa maniera di uno sciame di cavallette: comprendo, divorando e distruggendo ogni cosa. E proprio come gli scorpioni avvelenano e causano dolore, anche questi demoni possono fare lo stesso. Ora, le comuni cavallette mangerebbero esclusivamente piante, ma queste, evidentemente, sono di diverso tipo. Il fatto è che non sono da interpretare in modo rigido.

Leggiamo dal quarto al sesto verso:

Fu loro comandato di non danneggiare né erba, né arbusti, né alberi, ma soltanto gli uomini che non avessero il sigillo di Dio sulla fronte. E non fu loro dato il potere di ucciderli, ma di tormentarli per cinque mesi. Il loro tormento è come il tormento dello scorpione quando punge un uomo. In quei giorni gli uomini cercheranno la morte e non la troveranno; brameranno morire e la morte fuggirà da loro.

Ora, leggendo Apocalisse 9:7-11, questi demoni ci vengono descritti in maniera più dettagliata:

L’aspetto delle cavallette era simile a cavalli pronti per la guerra. Sulla testa avevano come delle corone d’oro e la loro faccia era come viso d’uomo. Avevano dei capelli come capelli di donne e i loro denti erano come denti di leoni. Il loro torace era simile a una corazza di ferro e il rumore delle loro ali era come quello di carri tirati da molti cavalli che corrono alla battaglia. Avevano code e pungiglioni come quelli degli scorpioni, e nelle code stava il loro potere di danneggiare gli uomini per cinque mesi. Il loro re era l’angelo dell’abisso, il cui nome in ebraico è Abaddon e in greco Apollion.

Ora, se seguite le regole bibliche dell’interpretazione grammaticale della letteratura simbolica, vedrete tutto ciò come una rappresentazione simbolica dei demoni che sono stati letteralmente fatti uscire dall’abisso e che sono stati scatenati su Israele nell’anno 66 d.C., quando iniziò la guerra e quando era ancora possibile identificare varie tribù di Israele (cosa che oggi non è più possibile). Mettiamo a confronto questa interpretazione diretta e semplice (quella che io chiamo interpretazione letterale dei simboli) con due estremi alternativi.

Il primo estremo vede le cavallette come un simbolo di qualcosa di demoniaco (e fin qui tutto bene) – e il demoniaco come qualcosa che è un simbolo delle invasioni musulmane del VII secolo (cosa, quest’ultima, purtroppo non più accettabile). Il motivo per cui un tale esempio risulta come parecchio difettoso è la presenza di simbolo di un simbolo: le cavallette sono un simbolo dei demoni e i demoni, a loro volta, diventano simbolo dei musulmani. Matthew Poole e molti storicisti sostengono questa posizione. Ma questo significa portare la simbologia troppo oltre scadendo in esagerazioni a dir poco difettose. I simboli biblici hanno sempre una corrispondenza con qualcosa di letterale. Un simbolo simboleggerà sempre qualcosa di reale o letterale, ma non per il tramite di un ulteriore simbolo.

Secondo l’interpretazione storicista, poiché esiste il simbolo di un simbolo di un vero elemento storico, non esiste alcuna connessione necessaria (vale a dire “diretta”) tra il simbolo originale e ciò che il commentatore dice che il simbolo abbia da significare. Insomma, un processo interpretativo siffatto presente troppi step prima che si giunga all’esito finale: c’è un passaggio di troppo. E ciò ha spesso come conseguenza una soggettività inopportuna. I primi storicisti videro queste cavallette demoniache come simbolo degli ordini benedettini cattolici che sorsero nel 530 d.C.; altri ancora lo applicarono agli ordini domenicani nell’anno 1200 d.C. ed in seguito anche ai gesuiti, dopo il 1500 d.C. E, come detto la settimana scorsa, alcuni cattolici hanno ovviamente voluto ricambiare il favore tirando in ballo i luterani. Ma non c’è nulla nel testo che possa fornire nessun indizio su quali persone “il simbolo del simbolo” rappresenti.

A questo punto penso che ben capiate il problema. Tali tentativi d’interpretazione non lasciano che sia il testo a determinare ciò che è simbolizzato. E come vedremo la prossima settimana, i principi 11 e 12 escludono categoricamente questa opzione interpretativa. Crediamo che i riferimenti all’abisso (da cui provengono queste cavallette) e al fatto che hanno un re, il cui nome è Apollion, davvero non lascino molto spazio a grandi speculazioni. Le cavallette simboleggiano demoni, non uomini. E se ci limitassimo a considerare il simbolo con un referente di tipo letterale, allora tutti sarebbero d’accordo sul fatto che le cavallette abbiano da simboleggiare dei demoni e i demoni semplicemente non simboleggiano null’altro. I demoni sono demoni, punto.

Andiamo adesso a vedere cosa accade all’estremo opposto dando un’occhiata ad interpretazioni di tipo dispensazionalista. Anch’esse violano questi indizi contestuali nell’aver a che fare coi simboli. Charles Ryrie, affrontando questo brano, conviene su un certo coinvolgimento demoniaco. Ma, l’aspetto demoniaco della vicenda, secondo la sua analisi, rimane sullo sfondo, mentre egli cerca di mettere a punto descrizioni letterali per ogni singolo elemento della vicenda, producendo tutta una serie di associazioni con fenomeni ed elementi della modernità. Ci dice, quindi, per esempio:

La descrizione di Giovanni somiglia molto a una specie di macchina da guerra o ad un UFO. I demoni hanno la capacità di assumere forme diverse, quindi è del tutto possibile che Giovanni stia immaginando un’imminente invasione di UFO molto agguerriti. Fino a quando qualcuno non troverà un’obiezione soddisfacente alla storia degli UFO, questa possibilità non dovrebbe essere esclusa[6].

Ma questa cosiddetta ermeneutica letterale non è più radicata nel testo letterale di quanto lo fosse l’interpretazione storicista delle invasioni musulmane.

Lindsey, anch’egli dispensazionalista, ci dà un’interpretazione diversa. Invece di pensare agli UFO, dice: “Ho un amico cristiano che era un Berretto Verde in Vietnam. Quando lesse questo capitolo per la prima volta disse: «So cosa sono. Ne ho visti centinaia in Vietnam. Sono elicotteri Cobra!»”. E poi continua dicendo:

Un elicottero Cobra si adatta molto bene a quella descrizione complessa. Fanno anche il suono di ‘molti carri’[7]. Notate come Giovanni continui a dire: ‘sembrava, era qualcosa di simile, somigliava, era come, ecc.’. Con questi termini qualificanti Giovanni cercò di sottolineare come fosse consapevole di star descrivendo veicoli e fenomeni ben oltre la sua comprensione del I secolo. Quindi usò simboli tratti da fenomeni del I secolo che ‘apparivano’ come meraviglie della scienza. Utilizzando un insieme misto di cose del I secolo, si sforzò di rappresentare ciò che vedeva. Tenendo questo a mente, vediamo se riusciamo a trovare il significato del passaggio. La forma complessiva del veicolo [notate come Lindsey semplicemente assumi che debba trattarsi per forza di un veicolo – ‘la forma complessiva del veicolo’] sembrava a Giovanni come una ‘cavalletta’. La forma esterna generale di un elicottero è simile a quella di una cavalletta. La frase ‘cavalli preparati per la battaglia’ probabilmente significa che ‘gli elicotteri d’attacco’ erano pesantemente corazzati. Giovanni aveva visto i romani drappeggiare armature sui loro cavalli per proteggerli da frecce, lance e spade. A questo punto Giovanni sembra passare a ciò che ha visto all’interno della macchina. La frase ‘qualcosa come corone d’oro’ molto probabilmente descrive gli elaborati caschi indossati dai piloti di elicotteri. E ‘i loro volti somigliavano a volti umani…’ – mentre Giovanni guardava la parte anteriore dell’elicottero, il volto del pilota apparve attraverso il parabrezza anteriore. L’aspetto di qualcosa che assomigliava ai capelli di una donna potrebbe descrivere l’elica rotante che sembrava capelli vaporosi. Ricorda, Giovanni non aveva mai visto un grande strumento girare così velocemente da non poter essere visto chiaramente. Il termine ‘denti’ probabilmente descrive le armi che sporgono dall’’elicottero’: c’è un mostruoso cannone a sei canne sospeso al muso della maggior parte degli elicotteri d’attacco odierni[8].

Beh, finiamola qui con queste citazioni. Son sicuro che abbiate capito il modus operandi di questa categoria di commentatori: in pratica, quella che è l’interpretazione del simbolo data da Giovanni viene ignorata ed ogni caratteristica del simbolo viene trasformata in qualcosa di non simbolico. Questa modalità, questa versione dall’interpretazione letterale, causa un vistoso allontanamento dal sensus literalis. Ecco perché vado affermando di essere più letterale di quanto lo siano i dispensazionalisti. Questi simboli descrivono demoni veri e propri, quindi letterali, scatenati sull’Israele del I secolo – non certo elicotteri d’attacco Cobra. E credetemi, quei demoni erano molto più spaventosi di quanto sarebbero stati gli elicotteri Cobra.

 

Conclusione

Oggi abbiamo dedicato molto tempo all’analisi di un solo principio, ma è probabilmente uno dei principi più importanti.

La semplicità della simbologia di questo libro mi fa pensare come Dio sia molto attento ai bisogni dei bambini più piccoli e di quelli come loro. A volte, accade come questi riescano a trarre dalla lettura del libro dell’Apocalisse maggiore profitto degli adulti, perché le loro menti sono ancora aperte alle immagini e ai simboli. Noi adulti abbiamo grande necessità di venire guidati ed istruiti, dovendo prima disimparare le tante sciocchezze accumulate nel tempo.

Ora, con ciò non vorrei dare l’impressione che il libro sia privo di qualsiasi complessità. È un libro straordinariamente profondo, che affronta un gran numero di problemi impressionanti, gli stessi che riguardano anche noi oggi. La sua struttura è certamente complicata e più anni lo si studia, maggiore vantaggio se ne trarrà. Ma il suo messaggio fondamentale (ovvero che il Signore Gesù ha il pieno controllo, che trionferà e che noi abbiamo ottimi motivi per porci con coraggio di fronte ai problemi) può essere certamente compreso anche dai bambini più piccoli.

Vern Poythress, professore in un seminario riformato, una volta disse ai bambini della sua comunità: “Voglio che anche voi bimbi leggiate l’Apocalisse. Se siete troppo giovani per leggerla da soli, allora che i vostri genitori la leggano per voi. Anche voi potete comprenderla. In effetti, potreste capirla meglio dei vostri genitori.” E quei bambini iniziarono a leggere l’Apocalisse per davvero, comunicando al pastore cosa pensavano significasse, con esiti spesso molto più vicini alla verità di quanto lo fossero quelli di certi commentari strambi e spaventosi che si trovano in giro. Ai bambini era chiaro come Dio avesse il controllo della storia, che Gesù ne fosse il signore, che egli fosse il re, che i governi a volte possono essere molto malvagi (e che, quindi, non sono degni della nostra fiducia), che Dio protegge il Suo popolo in mezzo al male, che il bene sta vincendo e il male sta fallendo e che alla fine Gesù trionferà. Ebbene, il libro dell’Apocalisse è, in fin dei conti, proprio questo.

Quindi vi incoraggio a ricominciare a leggere il libro dell’Apocalisse senza l’aiuto di alcun commentario (almeno all’inizio – vedete quanto riuscite a comprendere da soli). Potreste non capire tutti i dettagli. Ma va bene così. Se iniziate a leggerla con in mente questi primi nove principi, potreste sorprendervi dei risultati.

Il primo principio che abbiamo trattato vi darebbe sufficiente fede per credere di riuscire ad intenderne il messaggio. Durante la lettura, non pensate all’Apocalisse come un libro impossibile. Consideratela come una rivelazione. Avvicinatevi a questo libro con fede, fede che Dio può aiutarvi a comprenderla.

Considerate anche il secondo principio. La vostra attenzione dovrebbe concentrarsi su Gesù Cristo e su ciò che sta facendo nella storia. È una rivelazione di Gesù Cristo; non è l’anticristo ad essere al centro.

Terzo, è Dio ad aver dato queste parole comunicandole perfettamente. Non c’è, quindi, da desiderare che fosse scritto diversamente.

Quarto, pensate fermamente che questo libro sia capace di mostrarvi i pensieri di Dio.

Quinto, non scordate come Dio intendesse questo libro come accessibile a tutti i suoi servi. È il suo dono per ciascuno di voi. Dunque, potete chiedergli la saggezza necessaria per mostrarvi ciò che mostrò ai santi del I secolo.

Sesto, tenete sempre bene a mente che quella dell’Apocalisse è vera storia.

Settimo, è vera storia e soprattutto una Storia della Provvidenza divina.

Ottavo, considerate come la maggior parte di quanto registrato nei primi 19 capitoli (anche se non tutto, attenzione) avesse da avvenire “poco” o subito dopo la stesura del libro da parte di Giovanni. Ogni sezione del libro inizia a verificarsi “presto”. Questi sono scritti probabilmente risalenti al 64 d.C. o, comunque, redatti non più tardi del 66 d.C. Inoltre, la maggior parte dei primi 19 capitoli furono adempiuti entro sette anni. Affrontando la lettura con questa prospettiva temporale ben in mente, il libro vi si “aprirà” in un modo nuovo e sorprendente.

Ed infine, secondo quanto appreso esaminando il nostro nono principio, leggetelo come un libro illustrato (forse persino come una sorta di fumetto). Rendendovi forse conto di avere scarsa familiarità con le convenzioni bibliche relative ad alcune immagini, potreste allora rileggere anche i libri profetici di Daniele ed Ezechiele. Questi due libri dell’Antico Testamento vi forniranno informazioni utili sulla maggior parte dei simboli usati nell’Apocalisse. E nel momento in cui non riusciste a ben comprendere tutte le immagini, beh, non sentitevi scoraggiati: leggetelo in ogni caso per avere un’idea generale della storia.

La mia preghiera è quella che Dio possa darvi grande gioia ed incoraggiamento mentre vi apprestate a leggere il suo ultimo dono alla chiesa di Gesù Cristo: il libro dell’Apocalisse. Amen!


 

Originale: https://biblicalblueprints.com/Sermons/New%20Testament/Revelation/Revelation%201_1-11/Revelation%201_1b?utm_source=kaysercommentary.com

[1] Questa è una traduzione basata sul testo maggioritario di Pickering (f35).

[2] John F. Walvoord e Roy B. Zuck, eds. The Bible Knowledge Commentary: New Testament. Accordance electronic ed. (Wheaton: Victor Books, 1983), n.p.

[3] Robert L. Thomas, Revelation 1-7 Exegetical Commentary, Kenneth Barker, ed. 2 vols. (Chicago: Moody Bible Institute, 1992), pp. 35-36. Enfasi mia.

[4] Vic Reasoner, Revelation, p. 39.

[5] Vic Reasoner, Revelation, (Evansville, IN: Fundamental Wesleyan Publishers, 2005), p. 39.

[6] Charles Ryrie, The Living End: Enlightening and Astonishing Discoveries about the Coming Last Days of Earth (Old Tappan, NJ: Fleming H. Revell, 1976), p. 37.

[7] Hal Lindsey, There’s a New World Coming, (New York: Bantam Books, 1973), p. 124.

[8] Hal Lindsey, Apocalypse Code, (Palos Verde, CA: Western Front Ltd., 1997), p. 42.


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