VIII

Il mistero del bene e del male 6:10–8:1

 

Al suo tema principale, ovvero che Dio ha posto un pesante fardello sull’uomo, il Predicatore all’inizio di questa prossima sezione del suo discorso, aggiunge l’osservazione che fa riflettere sul fatto che in tutta la sorte dell’uomo “sotto il sole” ciò che è storto o tortuoso non può essere raddrizzato. Dio ha imposto all’uomo una maledizione a causa del peccato e l’uomo non è in grado di porre rimedio alla propria situazione. In ostinato orgoglio l’uomo rifiuta fermamente di riconoscere il diritto di Dio; nega ciecamente che sia con Dio che, soprattutto, debba fare i conti. L’uomo manifesta questa negazione affermando invano di possedere i corretti ideali di saggezza (principi di civilizzazione) con i quali correggere eventuali avversità che gli si presentano. Con ingenua presunzione, si propone di modellare un mondo perfetto senza Dio, rifiutando di riconoscere il peso imposto da Dio sotto il quale, tuttavia, deve condurre la propria esistenza. Il Predicatore richiama ancora l’attenzione sulla verità che la sapienza salomonica del patto si scontra inevitabilmente con la sapienza dell’autosufficienza umanistica perché Dio ha il suo patto col suo popolo, una base del tutto unica su cui concepire e costruire la vita. O gli uomini impareranno questa sapienza del patto e quindi prospereranno mediante la speranza in un mondo colpito dalla maledizione, o respingeranno stupidamente la sua corretta intuizione, accettando al suo posto la sterilità e l’insensatezza che alla fine sono legate alle lusinghe delle argomentazioni e degli obiettivi dell’umanesimo. Non rimane altra alternativa.

Il problema affrontato in questo gruppo di versi è la questione del bene e del male, non tanto del bene e del male che fanno gli uomini, anche se questo certamente influenza il problema, ma il bene o il male che accade all’uomo, che sembra entrare nella sua esperienza fortuitamente. In un mondo compromesso a causa della maledizione di Dio, nulla dell’esperienza umana è affidabile e coerente. In luoghi e tempi diversi la vita si divide casualmente in opposti. L’uomo può sperimentare il bene o il male imprevedibilmente. La vita cambia costantemente da qualche livello dell’uno all’altro. L’uomo sperimenta ricchezza o povertà, salute o malattia, prosperità o avversità, successo o fallimento, giustizia o ingiustizia. Tutto questo e molto altro, a volte consecutivamente, a volte simultaneamente nelle società degli uomini, indipendentemente da ciò che l’uomo potrebbe presumere di fare per controllare la propria situazione. Sicuramente molto di ciò che accade può sembrare il risultato dei misfatti dell’uomo o può essere attribuibile a ciò che l’uomo nella sua sapienza caduta designa come un caso, ma il Predicatore insiste sul fatto che tutto ciò che accade, nel bene o nel male, avviene, in ultima analisi, secondo la volontà di Dio. È sempre ciò che Dio fa a determinare la vita dell’uomo. Il fulcro di questa sezione sottolinea chiaramente questa nozione. 7:13 afferma: “Considera l’opera di Dio …”.

In precedenza il Predicatore aveva introdotto ogni sezione focalizzando l’attenzione su un aspetto del problema profondo della vita dell’uomo, influenzato com’è dal peccato e dalla maledizione solo per concludere alla fine o quasi alla fine della sezione con Dio e ciò che fa come ciò che conta davvero. Ora, tuttavia, il problema richiede che il Predicatore non lasci Dio alla fine, ma debba riconoscerlo fin dall’inizio. Sa bene che la questione speciale della “predestinazione” di Dio è qualcosa che nessun uomo accetterebbe mai come conclusione ragionata: deve essere proclamata come premessa. Di conseguenza, dichiara: “Ciò che è, è già stato chiamato da tempo per nome e si sa che cos’è l’uomo e che non può contendere con chi è più forte di lui” (6:10). Non c’è dubbio che colui che “nomina” e colui che “conosce” è Dio, proprio come colui che è chiamato e conosciuto è l’uomo. Tutto ciò che riguarda ciò che un uomo è, il suo carattere e le sue circostanze, è stato preordinato nell’eterno consiglio di Dio, molto prima che qualsiasi uomo esistesse o agisse. Tutta la vita dell’uomo, il buono come il cattivo, deve essere visto come conseguenza della volontà di Dio. Il predicatore sta dicendo che alla fin fine l’uomo vive in un ambiente personale; è Dio, non una natura impersonale, che determina la vita dell’uomo. Anche risalendo all’antico passato, agli ideali di sapienza umanistica non potrebbe essere presentato contrasto maggiore dell’affermazione del Predicatore secondo cui è il Dio personale del patto, non una configurazione misteriosa o una congiunzione di forze cosmiche impersonali, che influenza l’esistenza dell’uomo e della natura.

Si ricordi che nella Parte I abbiamo detto che la sapienza salomonica pattizia si opponeva alla cosiddetta sapienza dell’Egitto e della Mesopotamia, le due civiltà di trasgressori del patto più rappresentative nel mondo antico. L’ambizione dominante di queste civiltà era di spiegare che qualunque cosa accadesse nel mondo, specialmente nella vita dell’uomo, derivava interamente da eventi propizi o sfavorevoli di forze cosmiche proiettate come divinità. Tali “divinità”, tuttavia, erano alla fine libere di agire solo secondo un destino già fissato. Di conseguenza, era il fato che, in ultima analisi, governava gli affari degli uomini e della natura, dispensando la sua generosità o trattenendola rigorosamente secondo un destino capriccioso. Per quanto riguardava l’uomo ciò che accadeva era del tutto impersonale e accidentale. Niente che potesse fare per prendere in mano le questioni poteva alterare minimamente le cose. Il destino si doveva semplicemente accettare. Allo stesso tempo, gli uomini furono lasciati liberi di comportarsi interamente come ritenessero opportuno, poiché né il buon comportamento né quello cattivo potevano influenzare le circostanze della vita.

Il Predicatore vede questo atteggiamento da parte dell’uomo umanistico come un contendere con Dio che è più forte dell’uomo (v.10). L’uomo caduto incolpa Dio e si lamenta che è ingiusto per come distribuisce il destino agli uomini. Il peccatore sostiene che Dio non ha il diritto di ordinare la vita dell’uomo. L’uomo umanistico “moltiplica le parole” (v.11 NR), ma le sue parole sono solo controproducenti. La vita sembra essere una faccenda capricciosa per gli uomini fuori dal patto che non possono accettare che la loro vita sia organizzata da Dio. Tali uomini vogliono disperatamente avere la vita sotto il loro controllo, essere in grado di divinare il futuro per il proprio bene. Ma per il trasgressore del patto il futuro è un mistero nascosto.

D’altra parte, le parole del Predicatore rassicurano coloro che sono nel patto perché dicono loro che la loro vita non è il prodotto di eventi casuali, ma riposa nel consiglio della volontà di Dio. Inoltre, sebbene non sappiano cosa Dio intenda per il futuro in alcun senso specifico, sanno tuttavia dalla rivelazione di Dio nel tempio che il futuro è messianico, che Dio intende in definitiva fare loro del bene. Di conseguenza, non devono scervellarsi per il bene o il male che si verificano nel mondo, ma devono affidarsi a Dio che nel tempio si è rivelato come Jehovah [1] e ha dato la sua promessa di un futuro certo che sarà governato dal suo Unto. Non devono preoccuparsi di ciò che la vita riserba né criticare tutto ciò che accade, ma devono invece praticare la fede e l’obbedienza.

I versetti 7: 1–6 incoraggiano una visione definita della vita alla luce di ciò che il Predicatore aveva appena osservato in 6:10–12. Desidera dissipare, specialmente per quelli che fanno parte del patto, qualsiasi pensiero d’abbracciare una vita di fatalistica indifferenza. La verità che Dio “predestina” la vita dell’uomo, dispensando sia il bene sia il male secondo il suo piacere sovrano, non è una scusa per l’affermazione secondo cui il modo in cui un uomo vive e si comporta nel mondo non ha conseguenze durature. Anzi! Il popolo pattizio deve comprendere preminentemente questo: ciò che gli uomini fanno ha ripercussioni eterne. Alcune attività sono davvero “migliori di” altre. In particolare, “Un buon nome è meglio di …”, “il giorno della morte è meglio di …”, “È meglio andare nella casa del lutto di …”, “Il dolore è meglio di …”. “È meglio ascoltare il rimprovero di un saggio che …”, ecc. Per mezzo di una serie di contrasti, il Predicatore chiarisce che alcune cose nella vita hanno un’importanza maggiore di altre. Il saggio sceglierà la strada migliore, lo stolto opterà per il peggio.

Poiché l’uomo non può contendere con Dio che è più forte di lui, sorge la tentazione di prendere la vita “sotto il sole” semplicemente come viene e di considerare i suoi piaceri come tutto ciò che vale. Poiché l’esperienza sembra insegnare che ciò che gli uomini fanno non fa alcuna differenza, lo sciocco trae la conclusione che il meglio che questa vita ha da offrire è tutto ciò che conta davvero. Il suo desiderio è liberarsi dalla responsabilità e vivere per banchettare, ridere e divertirsi. La vita non ha uno scopo studiato e quindi non dovrebbe essere presa sul serio. L’emozione successiva è tutto ciò che gl’interessa. Poiché lo stolto crede che la vita non abbia uno scopo intrinseco, la sua unica intenzione è quella di vivere spensieratamente il momento. Lo stolto è attento al presente, non si preoccupa né del passato né del futuro. Spreca e sperpera il suo tempo, concentrandosi solo sull’indulgenza personale e sull’auto-gratificazione. È insensibile a qualsiasi idea che affermi che il frutto della sua vita verrà giudicato alla fine di essa, quindi non presta attenzione al giorno della sua morte se non per la delusione nel riconoscere che mette fine al suoi sperperi e dissolutezze. Un’intera civiltà, quando assorba questa filosofia di vita, finisce con l’ereditare una decadenza nevrotica. Nient’altro può spiegare la cultura della droga e del rock dei nostri giorni.

Il saggio non dimentica la serietà della vita. Di conseguenza, i suoi giorni sono pieni di preparazione per la morte e il giudizio. Ricorda che deve rendere conto di se stesso davanti a Dio. Per lui un buon nome significa più che un profumo, un simbolo questo dei piaceri della vita. La sua vita è vissuta per piacere a Dio e non a se stesso, perché “chi cerca un buon nome è una persona che cerca di fare buone opere in questa vita” [2]. Sa che il modo in cui gli uomini trascorrono il loro tempo durante i pochi giorni che Dio concede loro fa la differenza. Ecco perché entra più volentieri nella casa del lutto invece che nel banchetto, “perché la morte è la fine di ogni uomo” (v.2) e con la morte i frutti della sua vita vengono giudicati. Il predicatore intende incoraggiare la convinzione che Dio sia contento di coloro che sono sensibili al fatto che la vita deve essere vissuta in sua presenza. Il futuro appartiene a loro; le loro opere non rimarranno senza ricompensa. Non sorprende che un tale uomo sia più veloce nell’ascoltare il rimprovero del saggio di quanto non sia attirato dal canto di sirena degli stolti (v.5). Il saggio in questo caso è Salomone, vale a dire la saggezza biblica pattizia. In senso ultimo è Cristo. Gli uomini devono decidere se le sue parole debbano avere o meno la precedenza sull’interesse personale. La scelta fatta avrà risultati eterni.

I versetti 7: 7–14 hanno lo scopo di inculcare al popolo del patto una certa prospettiva, specialmente alla luce del controllo sovrano di Dio sul bene e sul male che accade nel mondo. In particolare, non devono lasciare che il fatto di giorni preminentemente malvagi li conduca allo scoraggiamento assoluto o alla precipitosa idea che devono fare qualcosa per correggere il problema. Il loro corso deve essere quello di fare i conti con Dio e imparare che solo in lui possono sperare di trovare una soluzione.

È nella natura dell’uomo caduto voler forzare le circostanze della vita. Desidera piegare la realtà alla sua volontà. Impiegherà tutti i mezzi che ritiene necessari per raggiungere quel risultato. Non esiterà a ricorrere all’estorsione o alla corruzione se questi sembrano garantire il risultato che desidera. È facile per i giusti essere disturbati dalle conseguenze di questo comportamento e rispondere a tono al fine di correggere le cose (v.7). Ma il Predicatore mette in guardia dal sentirsi provocati rapidamente, poiché tale ira può portare a risultati dannosi per i giusti stessi (v.9). È una grande tentazione da parte del giusto voler correggere ogni errore, desiderare di correggere l’ingiustizia ovunque, eppure non vedere che la sua impazienza con il male può solo rivelarsi dannosa per lui stesso. Bisogna ricordare che i giorni buoni e quelli cattivi sono questioni che si trovano nelle mani di Dio.

La follia delle sue azioni, quando hanno fallito nel loro disegno previsto, lascia il giusto tristemente assorbito e con le attuali circostanze malvagie. Invece di accettare la vita dalla mano di Dio e sperare per il futuro, si ritira in un melenso sentimentalismo per il passato che, a torto, crede sia stato un momento migliore. Il predicatore rimprovera domande del tipo: “Come mai i giorni passati erano meglio di questi?” (V.10). Non è il passato che i giusti dovrebbero desiderare di ricordare, ma il futuro in cui devono sperare, perché è “meglio la fine di una cosa che il suo inizio, e meglio il paziente di spirito che il superbo di spirito” (v.8). La fine ha la precedenza sul principio perché Dio chiamerà in giudizio ogni azione. Il popolo di Dio deve stare tranquillo che Dio ha uno scopo in tutto ciò che fa. La loro preoccupazione non dovrebbe essere di farsi prendere da ciò che accade, ma di cercare la sapienza. In particolare, devono avvicinarsi al tempio ascoltando fedelmente la parola di Dio, perché allora impareranno che il futuro è in definitiva a loro favore. L’acquisizione di tale sapienza ha il vantaggio di preservare dal male il suo possessore (v.12). La natura di quel vantaggio risiede principalmente nella conoscenza di Dio e della sua volontà. Impareranno a “considerare l’opera di Dio” e che nessuno “può raddrizzare ciò che Dio ha fatto storto” (v.13). Questo è il cuore del pensiero del Predicatore sul problema del bene e del male. È una verità che può essere compresa solo nel patto. Separatamente dal patto, rimane un mistero. Dio non permette a se stesso di dover rendere conto agli uomini. Quando gli uomini imparano la sapienza pattizia, “nei giorni di prosperità” saranno “felici, ma nel giorno dell’avversità” considereranno “che Dio ha fatto tanto l’uno che l’altro” (V.14 ).

Insieme alla necessità di fare i conti con la disposizione sovrana di Dio sugli affari dell’uomo, è necessario prendere sul serio il potere del peccato.

Da 7:15 a 8:1 il Predicatore considera di nuovo che il male, che predomina in tutto ciò che gli uomini fanno, ha una grande forza. È un pensiero particolarmente preoccupante che nell’ambito della saggezza salomonica egli espone chiaramente al verso 15. Lì osserviamo un sorprendente cambiamento nell’enfasi che in precedenza era collegato alla “vanità” che accompagna necessariamente la “stortura” della vita dell’uomo. Al posto dei suoi poderosi commenti all’uomo umanistico nel suo rifiuto di fare i conti con il “peso di Dio” sulla sua vita e sul suo mondo, le parole del Predicatore sono dirette a se stesso. Comincia, “Ho visto tutto nei giorni della mia vanità …”. Non aveva mai parlato in questo modo prima; lo fa ora per un motivo molto speciale. Le parole possono essere quelle del Predicatore, ma dobbiamo capire che la persona che le pronuncia è Salomone! Con il potere del peccato la saggezza salomonica incontra i suoi limiti. Salomone confessa la sua impotenza nell’affrontare il peccato alla radice. Non è in grado di far sì che né la giustizia né la malvagità ricevano ciò che meritano. È il riconoscimento del Predicatore che solo Dio può affrontare il peccato al cuore; dobbiamo aspettare il suo Messia, il vero Salomone, se vogliamo sperare in una soluzione permanente a questo problema imperscrutabile. Nel frattempo, Dio permette alla malvagità di prosperare affinché gli uomini, specialmente gli uomini del patto, possano arrivare a vedere che il peccato è un potente agente nel mondo e che le sue conseguenze malvagie non possono essere sradicate da qualsiasi cosa gli uomini possano fare.

Egli afferma: “Ho visto entrambi: un uomo giusto che muore nella (cioè a motivo della) sua giustizia e un empio che vive a lungo nella (cioè a motivo della) sua malvagità” (v.15). Queste parole trasmettono l’impotenza che il Predicatore percepisce come un fedele discepolo della sapienza salomonica pattizia. Sa che non è così che la vita avrebbe dovuto essere, che in verità dovrebbe prevalere il contrario: il giusto dovrebbe vivere a lungo a motivo della sua giustizia e il malvagio dovrebbe morire a causa della sua malvagità. Chiaramente c’è qualcosa che non va. Perfino i convenzionali ideali di saggezza umanistica hanno insegnato, almeno implicitamente, che dovrebbe essere così. Quanto più il punto di vista pattizio! La contraddizione è profondamente inquietante.

Eppure il Predicatore non è nella disperazione né la consiglia. Piuttosto, procede ad avvertire i “giusti” contro il tentativo di correggere ingiustizia e male come se farlo fosse in loro potere. Quindi, ai versi 16 e 17 collega il “troppo giusto” col “troppo malvagio”; poiché qui il termine “giusto” è inteso ironicamente. I “giusti” sono coloro che, essendo eccessivamente convinti di se stessi, si fidano incommensurabilmente della loro giustizia come fosse sufficiente a risolvere ingiustizie e comportamenti malevoli. Il Predicatore avverte che un simile atteggiamento e le azioni che seguono scaturiscono da un tipo di “giustizia autonoma” che, per quanto riguarda Dio, è una forma di malvagità. È un atteggiamento che cerca di prendere il posto di Dio nella governance degli affari umani; come commenta Leupold, “È chiaramente presa in considerazione una giustizia esagerata che nasce dalla presunzione e che è pronta a sfidare Dio per la sua incapacità di ricompensare” [3]. Tali persone non tengono in considerazione il potere del peccato il quale è capace di resistere loro e di ritorcersi contro di essi. È più certo che sperimenteranno la distruzione anziché raggiungere l’obiettivo desiderato. Il Predicatore consiglia al popolo di Dio di comprendere questo fatto e, invece di confidare in se stessi, di imparare a temere Dio. Coloro che temono Dio non dimenticheranno i loro limiti e non correranno agli estremi (v.18).

I versetti 19–22 ampliano questo concetto. La maggior parte dei commentatori ritiene che il verso 19 sia una mera parentesi, ma è parte integrante del pensiero del Predicatore. Sottolinea che, indipendentemente da quanto preziosa la saggezza spesso dimostri di essere, non ci sarà alcuna garanzia che esista un uomo giusto sulla terra che fa sempre ciò che è giusto e non pecca mai (v.20). Anche i giusti a volte sono in balia del potere del peccato. Le persone del patto non possono guardare alla loro giustizia, ma devono guardare al loro Dio per trovare sicurezza contro il giorno del male. Pertanto, non dovrebbero essere pronti a condannare la malvagità degli altri contro di loro quando loro stessi non hanno sempre agito con le intenzioni appropriate (vv. 20 e 21). Anche tra i fedeli il peccato può avere e spesso ha il sopravvento. È un promemoria che la “stortura” nell’uomo è un problema sempre presente che egli non è in grado di risolvere da solo.

Un senso profondo dell’inadeguatezza della saggezza salomonica riappare al verso 23. Quando aveva riferito che il bene e il male non possono essere dispensati dall’uomo a suo piacimento, è sciocco supporre che l’uomo di propria iniziativa possa raddrizzare ciò che è implacabile storto, il Predicatore, come discepolo di Salomone, aveva voluto scoprire esattamente come Dio alla fine avrebbe prodotto la linea retta dalla linea storta in questo mondo. Lo vediamo quando dichiara: “Io ho esaminato tutto questo con sapienza. Ho detto: ‘Diventerò saggio’; ma la sapienza è ben lontana da me” (V.23). Dal punto di vista di Salomone, aveva riconosciuto che tutto ciò che accade nella vita dell’uomo ha la sua spiegazione finale nel disegno nascosto di Dio. Ma che sia possibile sapere come Dio intende rimuovere del tutto la presenza del male? Si potrebbe scoprire il modo in cui Dio assicurerebbe che il bene e il male, anziché essere indissolubilmente intrecciati nel mondo, potrebbero essere separati e ognuno ricevere la sua giusta ricompensa? Il predicatore sa che la risposta a queste domande deve trovarsi in Dio. Tuttavia desidera anche sapere come Dio solleverà la maledizione con il suo peso sulla vita e così permetterà ancora una volta alla vita di abbondare in bontà e giustizia senza restrizioni. Salomone non aveva una risposta specifica. Dal suo punto di vista la questione appare “tanto lontana e tanto profonda …” (v.24). Sa solo che nel tempio Dio ha rivelato che chiarirà queste questioni nel futuro messianico.

Tuttavia, la saggezza salomonica è tutt’altro che inutile. Solo perché il Predicatore non sapeva come in futuro Dio avrebbe affrontato una volta per tutte il peccato e le sue conseguenze, non si dovrebbe pensare che la prospettiva della saggezza di Salomone fosse priva di qualcosa di salutare. Sebbene non riuscisse a trovare la risposta al “come” Dio avrebbe agito in definitiva, il Predicatore tuttavia sa per certo che la saggezza salomonica è ancora necessaria per fare una vera distinzione tra bene e male, per capire perché gli uomini sono così inclini al male, e per riconoscere che è solo nel patto che si può imparare perfettamente il vero bene e sperare di sperimentarlo nel futuro. Pertanto, invece di offrire un’invettiva amara e deprecante contro la sapienza salomonica pattizia, prende da essa ciò che Dio intendeva prendesse e lascia a Dio la questione di risolvere il problema del bene e del male. “Allora ho applicato il mio cuore per conoscere, per investigare e per ricercare la sapienza e la ragione delle cose e per conoscere la malvagità della follia e la stoltezza della pazzia” (v.25). È sufficiente per lui mettere in guardia il popolo del patto contro le insidie del comportamento malvagio. Senza Salomone non avrebbe potuto scoprire “lo stupefacente potere della corruzione” [4]. Impararlo significa mettere sulla retta via il popolo del patto.

Nel suo sommario il Predicatore afferma che sebbene avesse cercato il come della liberazione di Dio, “ma non ho trovato” (v.28), tuttavia non tutto era stato vano. Con la saggezza salomonica ha appreso (“scoperto”, “trovato”, vv. 27, 29) che se il male esiste e ha esibito un grande potere, la colpa non è di Dio, ma esclusivamente dell’uomo. Perché “Dio ha fatto l’uomo retto, ma gli uomini hanno ricercato molti artifici” (v.29). La malvagità nell’esperienza dell’uomo non è una semplice casualità, non è un incidente della natura, ma un comportamento deliberatamente ricercato. L’uomo non pratica il male per caso; agisce da una mentalità che calcola attentamente sia i suoi mezzi che i suoi fini. Il peccato nell’uomo è un principio attivo, che cerca sempre maggior territorio da conquistare. Lungi dall’avere un posto periferico nella sua esperienza, è la dinamica di controllo in tutto ciò che fa. Il predicatore vuole dire che il peccato nell’uomo si manifesta come una filosofia di vita totale e come un ideale di civiltà. È con questo in mente che impiega l’analogia morale della seduttrice: “la donna il cui cuore è lacci e reti e le cui mani sono catene” (v.26). Lungi dal denigrare le donne, usa semplicemente l’esempio della seduzione sessuale per caratterizzare la natura del potere corruttore della sapienza del mondo. La lussuria e la seduzione sessuale sono una tentazione sottile e pericolosa per l’uomo, quando una volta che ha mostrato la volontà d’essere attratto dalla sua apparente avvenenza. La tentazione di corteggiare le filosofie umanistiche della vita, con le quali le persone del patto sembrano così spesso disposte a giocare d’azzardo, presenta un parallelo appropriato. Se non fosse stato per la grazia di Dio (v.26), le lusinghe dell’umanesimo sarebbero facilmente riuscite nelle loro seduzioni, poiché il potere del peccato negli uomini, compreso il popolo del patto, è tale da lasciarli indifesi alle astuzie intriganti dei malvagi. Proprio come un uomo non può abbracciare una meretrice senza distruggere la propria anima, così anche lui non osa flirtare con gli ideali dell’umanesimo per non esserne assorbito. Per il Predicatore è possibile trovare “un uomo retto su mille” – un riferimento alla saggezza del patto e coloro che la vivono – ma non “una donna retta”, (v.28) perché l’umanesimo non ha in esso nulla di buono.

Mentre Salomone può avere i suoi limiti per quanto riguarda la comprensione di ciò che Dio fa e farà, tuttavia regna superiore agli ideali della vita che scaturiscono dal trasgressore del patto. Il predicatore si gloria nella sua visione biblica salomonica della vita. “Chi è come il saggio? Chi conosce l’interpretazione delle cose? La Sapienza dell’uomo fa risplendere la sua faccia e ne cambia la durezza del volto” (8:1). Il popolo pattizio deve rimanere fedele al patto. La vita ha qui la sua vera spiegazione. La speranza che induce offre gioia, pace e contentezza. Al di fuori del patto, la vita è una lotta per obiettivi che non possono essere raggiunti, per ideali che non possono essere realizzati, con delusioni che non possono essere attenuate.

 

Note:

1 Van Den Borne, De Wijsheid van Der Predicker.
2 Van Der Borne, Ibid.
3 Exposition of Ecclesiastes, p. 164.
4 Van Den Borne, Ibid.
5 Cfr. Leupold, p. 185.


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