V

L’Impotenza del sapiente 1:12-3:15

 

A 1:12 il Predicatore comincia l’esposizione delle idee che formeranno i contorni principali del suo libro [1]. Mentre lo fa, sente nuovamente il bisogno d’evidenziare la prospettiva salomonica pattizia su cui si basa il suo pensiero. Quando medita sulla natura dell’esperienza umana “sotto il sole”, fa le sue valutazioni in quanto figlio pattizio. Di conseguenza, le sue prognosi sono strutturate dalla parola di rivelazione che sta al centro del patto di Dio; non parla meramente come dettano la sua esperienza e la sua riflessione. Siccome il suo punto di vista è salomonico, i suoi pensieri sono preminentemente la spiegazione di Dio dell’esperienza dell’uomo, talché egli non comincia con la nozione che la sua esperienza sia da sé sufficiente a illuminare la sua comprensione e a provvedere direzione e perspicacia.

Tuttavia, la sua procedura non è meramente citare dalla parola pattizia di Dio; piuttosto egli spiega l’esperienza dell’uomo nel mondo da una perspicacia che da quella parola è stata resa più profonda. Dio intese che, mediante studi concentrati e riflessioni intellettuali, l’uomo cercasse di comprendere il mondo della propria esperienza; così facendo avrebbe accumulato la propria comprensione di esso e quindi aumentato la sua capacità di esercitare il dominio sul mondo. La sua conoscenza avrebbe accresciuto i poteri della signoria responsabile. Ci siamo sforzati di chiarire in precedenza questo collegamento tra sapienza, conoscenza, intendimento e potere. L’intento di Dio fu che la sua parola stesse al centro di quell’impresa. Nessun aspetto della creazione che Dio aveva legittimamente assoggettata alle fatiche dell’uomo poteva rimanere trascurata. È con questo in mente che il Predicatore dichiara in 1:13: “Ho applicato il mo cuore a cercare e a investigare con sapienza tutto ciò che si fa sotto il cielo”. Il suo commento fa riferimento principalmente all’uomo come servo di Dio nel dominio e all’ampiezza del compito che Dio gli aveva dato. La nostra attenzione viene attirata alla vocazione adamitica originale, e prendendo direzione da essa il Predicatore enfatizza che la sua restaurazione nella storia della redenzione aveva trovato fin qui la sua maggiore realizzazione in Salomone e nel programma sapienziale (di civilizzazione) per il quale si era speso. Implica ulteriormente che l’uomo, per esercitare il dominio con maggior successo, deve acquisire una comprensione totale dell’unità della sua esperienza sotto Dio. Proprio come la conoscenza che Dio ha delle proprie opere è completamente integrale, altrettanto dovrebbe esserlo quella dell’uomo, a livello della creatura finita. Il tentativo dell’uomo di plasmare la vita non era inteso ad ottenere un modo di vivere in sé e per sé ma per formare un regno. Ogni sfaccettatura della vita dovrebbe essere legata assieme.

Nella nostra epoca i cristiani hanno perso di vista la natura integrale della vita sotto Dio come fu intesa originariamente. Per molti predomina una prospettiva dualista. La tendenza perversa è di compartimentalizzare la vita in un reame della natura da un lato e un reame della grazia dall’altro. Nella prima, i cristiani procedono dall’assunto che la vita dovrebbe generalmente essere ordinata da una conoscenza e una comprensione dell’uomo che non ha necessariamente bisogno di essere controllata dalle Scritture, mentre la seconda viene compitamente riservata per quelle cose che sono considerate appartenenti a Dio, un’area che ai nostri giorni è stata ridotta virtualmente agli interessi personali e soggettivi. Questo ha lasciato aperta la porta a che gl’ideali pagani diventassero i principi di governo per grandi aree della vita di chiesa nel mondo, specialmente nella società. Restringere la parola di Dio ad una mera porzione dell’esperienza del cristiano ha distorto profondamente la rivendicazione totale di una responsabilità pattizia per tutto ciò che viene fatto “sotto il sole”. Ma come ha sapientemente rimarcato J. Gresham Machen: “…il campo del cristianesimo è il mondo. Il cristiano non può essere soddisfatto fintanto che una qualsiasi attività umana sia opposta al cristianesimo o disconnessa dal cristianesimo. Il cristiano … non può essere indifferente a nessuna branca di serio impegno umano. Tutto deve essere portato in qualche relazione col vangelo”[2]. È precisamente questa la prospettiva che governa il pensiero del Predicatore nel suo approccio alla sapienza. È supremamente consapevole che la vera sapienza biblica si applica a tutti gli aspetti dell’esperienza umana. La comprensione della vita dell’uomo deve essere totale e comprensiva. Nessun ambito della vita dell’uomo può essere lasciata fuori dalla sua relazione con Dio e col patto.

È per questa ragione che aggiunge immediatamente le parole forti dell’ultima parte del verso 13, che riguardano ciò che ha detto nella prima parte del verso. “Questa è un’occupazione penosa che Dio ha dato ai figli degli uomini perché vi si affatichino!” Intendere con chiarezza le intenzioni qui del Predicatore richiede un pensiero accurato. Quando regola la sua mente con certezza e convinzione così enfatiche non è affatto perché ha appena raggiunto la disperante conclusione di un’amara “investigazione mediante sapienza”. Al contrario! Lungi dal tracciare delle scoraggianti conclusioni con l’enunciazione di queste parole, annuncia anzi con veemenza il suo punto di partenza. Sono parole che non formano il risultato della sua riflessione, sono invece collocate proprio all’inizio e formano negli essenziali la direzione che il suo pensiero, disciplinato dalla sapienza pattizia salomonica, deve prendere. Da uomo che parla dalla cornice della sapienza pattizia egli è supremamente consapevole che le sue parole devono avere un fondamento centrato in Dio se vogliano vantare qualche validità. Sa che è con Dio che tutti gli uomini devono fare i conti e si rende chiaramente conto che il suo studio della sapienza deve fare i conti con lui dal principio e in tutti gli stadi del suo sforzo, non meramente alla fine. Ecco perché fa questa asserzione proprio all’inizio del suo libro e non alla conclusione. Gli interpreti che rifiutano di vedere nel libro una qualche logica sistematica farebbero bene a considerare questo fatto.

Per esempio, non possiamo concordare con l’affermazione di Whybray che Ecclesiaste “non è un’unica trattazione sistematica nella quale ci sia una progressione da una serie di premesse ad una conclusione logica”[3]. L’intero scopo del Predicatore nel riconoscere Dio fin dalla partenza serve precisamente a rendere chiara la “progressione” del suo pensiero. Egli indica che il problema della vanità e della mancanza di significato delle cose è legata alla relazione profondamente disturbata che l’uomo ha con Dio. Il peso di Dio è un peso imposto da Dio per una ragione che si può discernere. È inteso sfidare l’auto-proclamata autonomia da Dio e dalla responsabilità verso il patto di Dio da parte dell’uomo. Per quanto alcuni vogliano negare la sua natura sistematica, il resto del libro chiaramente svela le implicazioni logiche di questa contesa tra l’uomo e Dio.

Con queste parole: “che occupazione penosa (pesante) Dio ha dato agli uomini!” il Predicatore proclama il vero tema che scorre attraverso tutto il libro con incalzante persistenza. Ciascuna sezione maggiore del libro, che costituisce un capitolo nel nostro studio, mostra che questo tema continua a ritornare per sottolineare l’assoluto predominio di Dio sulla vita dell’uomo. Questo è il fatto con cui l’umanista nella sua visione non vuole fare i conti, ma che il libro renderà manifesto che deve. L’uomo nella sua ribellione farebbe a meno di Dio. Lo scopo del Predicatore è rendere chiaro che la vita dell’uomo nel mondo è senza alcun fondamento se rifiuta di fare i conti soprattutto con Dio. Poiché l’uomo si trova sotto la maledizione di Dio deve essere costretto a mettere in conto il fatto che è Dio ad essere tanto la causa della condizione che affligge la sua esistenza quanto la soluzione al problema. La sapienza, se voglia avere per l’uomo un uso risolutivo, deve cominciare dove il Predicatore dice che deve cominciare: con Dio e con ciò che Dio fa.

Avendo dichiarato il proprio punto di partenza, il Predicatore, nei versi 14-18 fa un ampio commento sui vantaggi della sapienza. Rivolge la sua attenzione all’uomo che afferma di essere sapiente, perché la radice del problema risiede nell’uomo; la sapienza nell’uomo è affetta dalla natura dell’uomo. Le sue constatazioni sono dirette primariamente alla sapienza umanista, la sapienza dell’uomo in ribellione contro Dio, e al fatto che la sua sapienza è completamente impotente nel tener fede alla promesse che fa a partire dagli ideali che esprime. Le dichiarazioni maestose dell’uomo umanista ignorano completamente la corruzione morale e religiosa che sta al centro del suo essere. C’è una depravazione nella natura dell’uomo che la sua sapienza non può risolvere e che distorce anche il suo apprendimento di vera sapienza. “Ciò ch’è storto non si può raddrizzare e ciò che manca non si può contare” (v.15). Fino a che questo problema non sarà sistemato l’uomo continuerà a vivere sotto una falsa sapienza, e i suoi sforzi rifletteranno la vanità di farli.

Ad ogni modo, quando diamo uno sguardo più da vicino ai vv. 16-18, vediamo un’altra dimensione del pensiero del Predicatore che fluisce anch’essa attraverso il libro. Il suo collocare l’accento sulla propria ricerca di sapienza indica che non solo ha qualcosa da dire riguardo alla sapienza degli uomini al di fuori del patto, ma che intende chiarire un problema anche per la sapienza salomonica, specificamente, il fatto che anch’essa esibisca una certa impotenza. Benché Salomone nella sua sapienza avesse capito la radice del problema dell’uomo, egli era fondamentalmente incapace di fare qualcosa per risolverlo. Questo è il pensiero che il Predicatore esprime nel verso 18: “Poiché dove c’è molta sapienza c’è molto affanno e chi aumenta la conoscenza, aumenta il dolore”. Non è che la sua sapienza sia inutile, solo che è impotente a raddrizzare la stortura al centro dell’essere e dell’esperienza dell’uomo. Ecco perché, nell’analogia fatta dal Predicatore, la sapienza è un cercare d’afferrare il vento. È un’indicazione che il problema dell’uomo è così profondo da non poter essere trattato dall’uomo. Se questo era vero dal punto di vista di Salomone all’interno del patto, quanto più sarà vero da quello dell’uomo fuori dal patto! Il punto non è sminuire Salomone, né di reclamare che la sua sapienza non è migliore della sapienza umanista da fuori d’Israele; anzi serve a dimostrare che Salomone deve sbiadire di fronte a Cristo, nel quale non solo si troverà la sapienza di cui l’uomo ha bisogno, ma anche il potere di renderla efficace nella vita delle persone che appartengono al popolo di Dio. La Sapienza — perfino quella di Salomone — non ha alcun valore se non può correggere in modo permanente la peccaminosità dell’uomo. Tuttavia, la sapienza salomonica rimane sufficiente per rivolgersi alla vera natura del problema dell’uomo e a indirizzarlo al Dio col quale deve fare i conti se spera di trovare liberazione da vanità e insignificanza. Se gli uomini dessero ascolto a Salomone, sarebbero costretti a sperare in Cristo.

Il capitolo 2:1-11 continua la serie di riflessioni sulla natura del problema della sapienza correlata alla vita. Qui il Predicatore ha in mente la sapienza nel suo allontanamento dal patto. La domanda che sorge è: visto che la sapienza è impotente a raddrizzare ciò ch’è storto, in che modo questo incide sul godimento della vita e sull’accumulo dei tesori della vita? La sapienza può riuscire a trovare qualche modo per sanare la tristezza e il dolore che sembrano essere la sola sua ricompensa? È possibile trovare nel reame dell’esperienza dell’uomo qualche strumento che svii l’attenzione dall’angoscia che prova? La sapienza può sfuggire al dolore e continuare a parlare con sapienza? Il lettore avrà bisogno d’essere consapevole che nel contesto di questi versi il “praticare la sapienza” con i divertimenti e le fatiche della vita per acquisire beni e piaceri è esperito “senza Dio in mente”[4], talché, strettamente parlando, non è un riferimento alla vita di Salomone. Il concetto qui è ciò che il sapiente umanista raccomanda: che l’uomo possa sfuggire ai propri problemi e non debba confrontarsi con essi.

I versi non implicano, come sostiene Loader, che il Predicatore si è dato alla vita dello stolto [5]. Ci sono due ragioni per resistere questo suggerimento: uno è che due volte, nel verso 3 e di nuovo nel verso 9, il Predicatore enfatizza che la sua investigazione in questa questione è fatta con la sapienza che lo guida. Non è ciò che ci si aspetta dallo stolto. Secondo, se egli avesse adottato lo stile di vita dello stolto avrebbe avuto una risposta al problema dello stolto, e cioè che deve abbandonare quello stile di vita e adottare le vie della sapienza; ma questo non lo dice. Infatti il problema a questo punto riguarda qualcosa della natura della sapienza solamente e non tratta ancora la questione della stoltezza. Di conseguenza, i piaceri e le fatiche culturali a cui fa riferimento sono quelle interamente legittime nel mondo di Dio. Egli non condanna questa attività. Il suo punto è affermare che il sapiente non può trovare in esse una distrazione dai suoi dolori. Non nega che in queste occupazioni si possa trovare qualche ricompensa (v. 10), ma riconosce che quella ricompensa viene infine negata dalla permanenza del problema basilare dell’uomo. Che valore hanno dunque queste fatiche? Anch’esse sono un correre dietro al vento. In queste attività, per quanto benefiche, non si trova alcun riposo per l’anima. E mediante la chiara assenza di Dio in queste attività egli mette ancora una volta il dito sulla presunzione dell’uomo umanista.

In questo contesto (dei versi 1:12-3:15) il Predicatore porta la sua preoccupazione principale, l’impotenza del saggio, attraverso una serie di riflessioni sul problema, verso una destinata conclusione. Ciascun gruppo di sotto-versetti lungo la strada spinge inesorabilmente la questione nella direzione cui vuole che arrivi. Questi insiemi (raggruppamenti) dei suoi pensieri non sono privi di correlazione, ma sono voluti per esaminare il dilemma dell’umanista da un selezionato gruppo di angoli cruciali. Intende assalire i puntelli principali sui quali l’uomo cerca di poggiare la propria auto- dichiarata autonomia da Dio. Il suo proposito è di non lasciare via di fuga all’uomo secolare se non quella di prendere in considerazione il Dio del patto.

In questo modo, in 2:12-16 porta la questione un ulteriore passo avanti. Ora, con un paragone diretto tra il saggio e lo stolto intende evidenziare la questione del vantaggio nel possedere sapienza. Tuttavia, si noti attentamente che il paragone non è tanto tra sapienza e stoltezza quanto tra l’uomo saggio e lo stolto, perché il cuore del problema è nell’uomo. Può perfettamente concordare che prendendo le caratteristiche a sé stanti, la sapienza sia superiore alla stoltezza. Lo dice nei versi 13 e 14: “Ho visto che la sapienza ha un vantaggio sulla stoltezza, come la luce ha un vantaggio sulle tenebre”, ecc.. Naturalmente, egli ha in mente principalmente la sapienza pattizia come ciò che veramente è luce. Tuttavia — e qui il problema fa riferimento in modo speciale all’uomo separato da Dio — se la sapienza non ha il potere di liberare dalla morte l’uomo che afferma d’averla, allora che possibile vantaggio gli dà la sapienza? In verità, l’uomo che si suppone saggio deve sperimentare la stessa conseguenza del peccato dello stolto. Perché, dunque, prendersi la briga di acquisire sapienza? Questo significa forse che per quanto concerne il Predicatore non faccia differenza se gli uomini siano saggi oppure stolti? Nient’affatto! Il Predicatore qui non prende posizione a favore di qualche relativismo di valori. Guarda alle questioni com’esse effettivamente finiscono con l’essere per gli uomini in ribellione a Dio, perché, ancora una volta, l’assenza di menzione di Dio nel contesto suggerisce che questo sia ciò che intende implicare. Portando l’esito fino in fondo, cioè alla morte, ha portato la questione della sapienza alla sola conclusione cui può arrivare a meno che l’uomo non venga a termini col Dio del patto. Solo in questo modo può sperare di trovare la risposta all’impotenza del sapiente e contemporaneamente giustificare la sapienza sulla stoltezza.

Nella serie successiva di versetti, 17-23, il Predicatore è infine giunto alla sommatoria dei suoi pensieri riguardo all’uomo nella sua ribellione contro Dio e ciò che questo significa per la sua vita e i suoi ideali. Tutto ciò che rimane è “odiare la vita” (vv. 17s). Poiché l’uomo secolare non vuole fare i conti col suo peccato e la sua ribellione egli trova che la vita finisce con l’essere un’amara delusione. Quando l’uomo ha creduto nell’uomo così supremamente e la sua vita diventa intollerabile perché il suo obbiettivo di essere il proprio dio non è riuscito a realizzare la vita perfetta che si aspettava la sua reazione diventa inevitabilmente una di nichilismo e completa disperazione riguardo a tutti i valori che aveva cari. La sua sola opzione è d’odiare totalmente se stesso e il tutto della vita; il suo unico obbiettivo è ridurre tutto al disordine nella vana speranza che qualche nuovo ordine emerga. Tutti i tentativi dell’uomo di modellare per sé un mondo in opposizione a Dio sono destinati a portare alla futilità e alla frustrazione. Alla fine l’uomo perde la pazienza, perché, come ha osservato Rushdoony: “Anche la sua pazienza è associata alla speranza perciò per implicazione la perdita della speranza diventa impazienza. Quando non abbiamo speranza, tanto aspettare che tribolare diventano senza significato per noi e non possiamo sopportarle con pazienza”6. Il Predicatore esprime l’amarezza che deve risultare quando uno considera che gli sforzi dell’uomo sono transitori. Infatti l’uomo deve morire e lasciare i frutti delle sue fatiche alla generazione successiva, e non può assicurarsi ch’essa continuerà i suoi ideali o ritornerà alla stoltezza.

Avendo descritto la condizione umana al suo nadir, l’uomo, nella sua auto-proclamata indipendenza da Dio, il Predicatore introduce un passaggio di transizione che porta al culminare del suo pensiero in questa sezione. Richiamando l’attenzione alla presenza determinante di Dio nella vita dell’uomo in 2:24-26, egli indica che l’impotenza del saggio deve avere la propria risoluzione nel Dio del patto. L’uomo deve imparare a fare i conti con colui che solo può permettere all’uomo di godere la vita e di vivere nella speranza. È futile per l’uomo faticare se il suo arrovellarsi non riceve infine la propria benedizione dalla “mano di Dio”.

In questi versi il Predicatore indirizza le proprie parole direttamente ai figli pattizi d’Israele, il cui abbandono del patto a questo punto della loro storia era divenuto una seria preoccupazione. Era necessario ricordare loro che abbandonare il loro Dio e la sua parola non avrebbe giovato nulla. Fuori da Dio tutto è maledizione e le sue conseguenze. Devono considerare seriamente che mentre tutta la vita è al presente affetta dalla maledizione (il peso di Dio), solo Dio stesso ne è inviolato; che benché la vita dell’uomo sia ora vincolata al ciclo di transitorietà (ciò che Van Den Born definisce Alzarsi, Risplendere, e Sparire)[7], Dio non è in tal modo limitato; che Egli veramente si trova al di sopra e sovranamente dispone tutto ciò che avviene all’uomo. Devono essere costretti a vedere che la loro vita e prosperità sono inseparabili da ciò che Dio fa, che sia per maledizione o per benedizione. Comprendere questo è comprendere da dove aspettarsi la propria salvezza. Inoltre, la menzione qui dei godimenti delle proprie fatiche indica che i piaceri e le attività registrate in 2:1-11 non erano per niente illegittime o prodotti di comportamento stolto. Il Predicatore ha mostrato che la vera questione è se Dio sia riconosciuto essere al centro di tutte le imprese e godimenti dell’uomo oppure no.

Alcuni hanno detto che il Predicatore non intendeva dire niente di positivo riguardo a Dio in questi versi, che in concomitanza col suo pessimismo intendeva meramente registrare una contestazione nei confronti di Dio come dicesse che per l’uomo non si può trovare speranza neppure in quella direzione. Alcuni hanno asserito che il proposito del Predicatore fosse meramente di evidenziare l’ “arbitrarietà” di Dio per quanto concerne le fortune dell’uomo. Pertanto, per esempio, Loader commenta che: “La Sapienza non ha nulla a che vedere con la fortuna o la sfortuna di una persona. Dipende tutto dall’imprevedibile comportamento e dal piacere totalmente arbitrario di Dio”[8]. Questo genere d’analisi è tipica d’interpreti che disconoscono la prospettiva pattizia dell’autore del libro. Due argomenti sono a favore di questa visione. Primo, in generale, parlare di “arbitrarietà” di Dio è accusarlo d’ingiustizia e beffarsi delle parole pattizie di Dio che compaiono altrove nelle Scritture, e questo il Predicatore l’avrebbe certamente saputo. Benché il comportamento di Dio trascenda l’intera comprensione umana, non si può dire che non possegga coerenza. Che sia impossibile dimostrare sempre che le vie di Dio siano giuste non prova che siano ingiuste. Secondo, il testo stesso presenta un fatto importante: il “peccatore” vi compare lì specificamente come quello che lavora invano, ed è messo in contrasto con “l’uomo che gli (a Dio) è gradito”, presumibilmente l’uomo “giusto”. In questo modo il passo può essere visto come un’affermazione che le azioni di Dio sono prevedibilmente benedizioni per il giusto, mentre l’affermazione “anche questo è vanità e un cercare di afferrare il vento” (v.26) fa riferimento ai giudizi non-arbitrari di Dio sulle iniziative del peccatore.

In 3:1-15 il Predicatore è giunto al picco del primo segmento del suo pensiero. Ora che ha introdotto Dio nella sua discussione è nella posizione di spiegare cosa significhi il “peso di Dio” per quanto concerne questa vita. Allo stesso tempo, i suoi pensieri offrono indizi sulla fine delle cose. In questi versi incontriamo una ricca e completa sequenza di riflessioni che, se non avessimo una visione scritturale più ampia, ci lascerebbero semplicemente perplessi e disorientati. Sono parole che l’uomo osservante del patto può leggere per ricevere comprensione e incoraggiamento, mentre l’uomo che rigetta il patto nella sua alienazione da Dio rimane estraneo al loro significato.

3:1-8 è, probabilmente, una delle porzioni meglio conosciute della Scrittura. Allo stesso tempo, è una delle meno comprese perché abbiamo generalmente studiato il passo fuori contesto e non siamo riusciti ad afferrare il suo significato nella cornice della forte enfasi sul Dio del patto che il Predicatore fa che, come abbiamo detto, è stata messa a fuoco in 2:24. Il capitolo 3 continua il pensiero che cominciava lì per giungere alla sua poderosa conclusione nel verso 15. Quando, perciò, il Predicatore esclama in 3:1: “Per ogni cosa c’è la sua stagione, e c’è un tempo per ogni cosa sotto il cielo”, mentre la sua intenzione è di dire qualcosa d’importante circa la vita dell’uomo, il suo scopo primario però è enfatizzare la prospettiva di Dio il quale “ordina” ogni singolo aspetto della vita e della azioni dell’uomo. Non si rivolge qui agli uomini con qualche banalità morale su come essi debbano ordinare la loro vita, benché frequentemente si pensi che questo sia ciò che sta facendo. L’interesse del Predicatore non è d’offrire consiglio all’uomo per insegnargli come meglio comportarsi; non prescrive ma descrive [9]. Il Predicatore intende che, per quanto concerne la vita dell’uomo, “Dio ha i suoi tempi e le sue stagioni — per Dio c’è un tempo appropriato per fare le cose”[10]. Nella vita dell’uomo c’è un ordine strutturato, anche quando implica malattia, morte, e guerra; perché nonostante la maledizione, Dio non permette al mondo, e in esso alla vita dell’uomo, di sprofondare nel caos più completo. Egli fa sì che ci siano tempi anche per nascere, stare in salute e avere pace.

Il Predicatore ha parlato del Dio del patto diversamente da come i saggi delle nazioni potevano parlare dei loro dèi. Le sua parole vogliono avere un duplice affetto. Per i figli pattizi d’Israele è essenziale realizzare che la vita non è un azzardo, che non sono il fato o il caso a governare gli eventi, ma Dio onnipotente il quale, al contempo è diventato il loro Dio. È il suo modo di dire che Dio è in grado di mantenere la sua parola per quanto li concerne, perché lui solo, non l’uomo, è al comando della natura e della storia. Niente potrebbe indicare in modo più conclusivo che Ecclesiaste non è un libro con un fatalismo stoico al cuore del suo punto di vista. In secondo luogo, le sue parole qui sono una sfida frontale all’uomo secolare che desidera essere dio su tutte le cose. Se l’uomo pagano voglia riuscire a raggiungere le sue più basilari aspirazioni religiose, la sua sovranità deve essere in grado di controllare il tempo e tutto ciò che vi succede. Per certo questa è stata la sua ambizione. È la forma più alta che la sua idolatria possa assumere, che è la ragione per cui il Predicatore attacca proprio in questo punto vitale.

Il “peso di Dio”, il concetto centrale di questo libro, mancherebbe di forza se il Predicatore avesse mancato di enfatizzare il dominio assoluto di Dio su “tempi e stagioni”. Poiché tutto quello che compara Dio nel suo regno contro l’uomo nel suo, giunge alla sua antitesi più acuta su questo punto. La sovranità sul tempo significa potere ed autorità su ciò che avviene nel tempo. Questa è la questione che mette Dio a confronto con l’uomo nella sua ribellione. La precisa qualità della ribellione dell’uomo risiede nella suprema aspirazione di far sì che la natura e la storia servano e glorifichino Dio. Per raggiungere quell’obbiettivo egli deve avere l’assoluta signoria del tempo e del suo contenuto. In che altro modo potrebbe essere il proprio dio? Come abbiamo menzionato in precedenza, l’uomo antico ebbe certamente quel desiderio come caratteristica principale degli ideali della sua sapienza. Rushdoony commenta: “Nell’antico paganesimo, l’uomo umanista cercò di governare il tempo per mezzo di riti il cui scopo era di controllare il tempo e la natura. Nei culti di fertilità e del caos, gli uomini credevano di poter rendere di nuovo fruttifera la natura, spazzare via la storia e i peccati passati, rovesciare tempo e ordine, e rigenerare se stessi, la natura e la storia”[11]. Ma dobbiamo riconoscere che l’uomo moderno non ha in mente un obbiettivo inferiore. È solo diventato più sofisticato nei suoi concetti e procedure. L’uomo moderno vorrebbe controllare tutti gli eventi del tempo per mezzo di scienza e politica. Con queste pensa di garantirsi sicurezza, pace e prosperità.

Quest’atteggiamento nei confronti del tempo è stato costante attraverso tutta la storia. Si è dimostrato essere un completo fallimento. Probabilmente è stato qui che l’uomo nella sua ribellione si è scontrato con la frustrazione più grande. Siccome non può tener conto di Dio non può ammettere la sua signoria sul tempo. Il suo disappunto, specialmente nel mondo moderno, l’ha portato ad adottare un’attitudine alternativa verso il tempo. Mentre molti ripongono ancora grande fede nel tentativo dell’uomo di controllare il tempo, sempre di più molti si sono rivolti a ciò che ritengono essere la sola speranza rimasta: sfuggire al tempo. Sfuggire al tempo è sfuggire alla responsabilità di tutte le proprie azioni; è la mente nichilista che cerca l’ordine mediante caos e disordine. Ma questo è egualmente futile, come il Predicatore sarcasticamente afferma: “Che vantaggio ha chi lavora da tutto ciò in cui si affatica” (v. 9).

Ma il Predicatore non si ferma lì. Si rivolge al popolo pattizio con positive parole di speranza. Rammentando loro del “peso di Dio” (“occupazione”v. 10), dirige i loro pensieri alla fedeltà pattizia di Dio — “Egli ha fatto ogni cosa bella nel suo tempo” (v. 11). È il suo modo di dire che Dio nel tempo alla fine farà belle tutte le cose. Dio può farlo perché Egli solamente è signore del tempo dell’uomo. Non è compito degli uomini, quindi, essere dèi sopra il tempo. Essi devono affidarsi a Dio anziché tentare di “decifrare” le azioni di Dio. Però, questo non è un invito all’ozio o alla passività, perché il Predicatore emette un ordine positivo per quel che il popolo di Dio dovrebbe fare col tempo che Dio dà loro. “…non c’è nulla di meglio per loro [gli uomini pattizi] che rallegrarsi e fare del bene durante la loro vita … mangiare, bere e godere benessere in tutta la loro fatica — questo è un dono di Dio” (vv. 12s.). Dio chiama i suoi non a controllare il tempo, né a sfuggirlo, ma ad usarlo “durante la loro vita” per fare il bene. Il Predicatore sa bene che il solo bene che Dio riconosce è quello che si conforma con la sua parola-legge. Davide aveva sicuramente riconosciuto la sua responsabilità a questo riguardo perché confessa: “I miei giorni sono nelle tue mani …” (Sl. 31:15). Nel Salmo 34:1 aggiunge: “Io benedirò l’eterno in ogni tempo …”. Inoltre, il bene che Davide voleva fare si trovava nella legge di Dio perché dichiara: “L’anima mia si consuma per il desiderio dei tuoi decreti in ogni tempo” (Sl. 119:20). Ancora: “Beati coloro che osservano la giustizia, che fanno ciò che è giusto in ogni tempo” (Sl. 106:3). Questa ingiunzione era anche nella mente di Paolo quando scrisse: “Badate dunque di camminare con diligenza non da stolti, ma come saggi, [cioè riscattando il tempo]…” (Ef. 5:15). Il popolo pattizio deve vivere responsabilmente davanti al Signore. Per rinforzare la loro confidenza a questo riguardo, il Predicatore conclude che “tutto ciò che Dio fa è per sempre” (v. 14). Dio non dà all’uomo la sovranità sul tempo perché Dio vuole che gli uomini “lo temano” (v. 14). E noi possiamo essere certi che le opere di giustizia che facciamo, quanto le azioni malvagie che gli uomini fanno, saranno ricordate perché “Dio investiga ciò ch’è passato”. Rushdoony riassume bene la questione: “Per il credente il tempo è l’area designata da Dio per le opportunità e i compimenti dell’uomo … Il cristiano è un pellegrino che rifiuta di trovare la permanenza nel tempo. … In Cristo, che è il suo redentore, trova novità di vita e il ruolino di marcia per il tempo, cosicché è a posto per quanto riguarda la fede, e il marciare nel tempo”[12].

 

Note:

1 L’intestazione del capitolo che comincia qui è stato preso in prestito, con alcune modifiche, dalla traccia fornita da E. Th. Van Den Born nel suo utile piccolo lavoro De Wijsheid van Der Prediker: Kamper, Olanda: J.H. Kok, 1939.
2 J. Gresham Machen: Education, Christianity and the State, John W. Robbins editore; Jefferson, Maryland: The Trinity Foundation, 1987, p. 50. Enfasi mia.
3 Whybray, Ecclesiastes, p. 19.
4 Leupold, Ecclesiastes, p. 61.
5 Leupold, Ecclesiastes, p. 29.
6 Rousas John Rushdoony, Revolt Against Maturity; Fairfax, Virginia: Thoburn Press, 1977, p. 257.
7 De Wijsheid van Den Prediker.
8 Loader, Ecclesiastes, p. 32.
9 Vedi Loader, Ecclesiastes, p. 35. “Come regola, l’errore nasce dal fraintendere questi pronunciamenti come prescrizioni.”
10 Leupold, Ecclesiastes, pp. 82, 81.
11 Rushdoony, Revolt Against Maturity, p. 228.
12 Rushdoony, Revolt Against Maturity, pp. 232, 288.


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