II La Sapienza di Salomone

a. L’ Egitto

 

Studiosi laici hanno dibattuto la questione di quale civilizzazione sia la più vecchia, se la civiltà della valle del Nilo, o quella della valle del Tigri-Eufrate, ma per il nostro scopo ciò non è importante se non per dire che, per quanto concerne la Scrittura, entrambe hanno avuto inizio più o meno nello stesso periodo, ovvero poco dopo il Diluvio Universale, quando l’umanità è stata dispersa su tutta la faccia della terra. Tuttavia, è vero che nella storia di Israele, l’Egitto fu la nazione con cui entrò in contatto e conflitto in un’epoca assai precedente; per questo motivo, cominceremo con l’Egitto.

Nel mondo antico, e nell’antica esistenza del popolo di Dio, il grande scontro di interessi che emerse tra il Regno di Dio e il regno dell’uomo ha avuto luogo, al livello più alto, nel pensiero dell’uomo. Non era niente di meno che un conflitto tra Dio e gli dèi: l’adorazione di falsi dèi contro il culto del Dio vivente e vero. Quando Israele fu salvato dalla schiavitù egizia, al centro della rivelazione che Dio le aveva affidato comparve l’avviso relativo falsi dèi. Esodo 20:22 afferma: “Dì questo agl’Israeliti: Voi stessi avete visto che ho parlato con voi dal cielo. Non farete altri dèi accanto a me; non vi farete dèi d’argento o dèi d’oro”. Ogni problema, ogni differenza tra le civilizzazioni in lizza prende origine da — e s’impernia su — questo centrale confronto religioso. Così pure, quando si tratta di sapienza, intendimento e conoscenza, esiste un collegamento imprescindibile tra di esse e la prospettiva religiosa al centro della civiltà che esse rappresentano e cercano di promuovere.

Porre il problema in questo modo, tuttavia, può dare luogo a un equivoco. Infatti, anche se il problema principale in gioco ai massimi livelli nel mondo antico era un confronto tra l’unico vero Dio e i numerosi falsi dèi del mondo del pensiero pagano, sarebbe un errore ritenere che la questione fosse imperniata in una disputa pura e semplice tra il monoteismo teologico e il politeismo teologico. La vera natura della vicenda va molto più profonda. Nel toccare la questione della sapienza in particolare Geremia ha messo il dito direttamente sul problema: “Tra tutti i saggi delle nazioni e in tutti i loro regni, non c’è nessuno come te. Sono tutti insieme stupidi e insensati; il loro (idolo di) legno è una dottrina di nessun valore” (10: 7, 8). Per Geremia non è tanto una questione del monoteismo contro il politeismo, quanto le conseguenze per l’uomo quando ostinatamente e stupidamente persiste nel suo sfrontato tentativo di cancellare la distinzione tra Creatore e creatura. Questo è ciò che sta veramente al centro di tutte le false religioni dell’uomo; il politeismo è semplicemente la forma che la religione assume quando l’uomo cerca di spazzare via la differenza tra Dio Creatore e se stesso come creatura. Indica anche il vasto divario che c’è tra la sapienza salomonica e la sapienza delle due culture opposte d’Egitto e Babilonia. Entrambe sono per la totale distruzione della distinzione tra il Creatore e creatura, poiché con questo entrambe sperano di portare al successo la satanica asseverazione: “sarete come Dio conoscendo il bene e il male” (Ge. 3:5). Distruggendo la differenza tra Dio e l’uomo, l’uomo umanistico pensa che sia possibile scoprire un modo con cui l’uomo può giungere a partecipare nella natura della divinità stessa. Portando Dio all’interno dello stesso universo d’esperienza dell’uomo, l’uomo immagina di poter essere innalzato allo stesso livello di Dio e dunque proclamare divini ed eterni se stesso e i suoi sforzi.

Questa visione delle cose è la concezione fondamentale nella cultura e civiltà dell’antico Egitto. Per un egiziano “tra Dio e l’uomo non c’era nessun punto in cui si potrebbe erigere una linea di confine e dichiarare che qui la sostanza ha cambiato da divina, sovrumana, immortale, a terrena, umana, mortale”[1]. Semplicemente “Non c’era linea di divisione certa e definitiva tra dèi e uomini”[2]. Di conseguenza, non veniva mantenuta nessuna differenza in natura tra gli dèi e gli uomini. Partecipavano ambedue allo stesso modo nello stesso cosmo di esistenza, gli uomini e gli dèi legati insieme dalla stessa continuità di esperienza. Al massimo, il ruolo della divinità era inteso fornire l’uomo di un paradigma, un archetipo [3] per ogni attività umana entro i confini di una comune legge naturale. Il sacro e l’eterno fornivano un modello da essere attualizzato nell’ambito del profano e del temporale. Non esiste il concetto di creazione “ex nihilo” nel pensiero egiziano, perché ciò implicherebbe che la divinità trascende il cosmo di esperienza che delimita la vita dell’uomo, e non solo trascende l’universo, ma alla fine si erge responsabile della sua stessa esistenza. Qualsiasi idea di creazione nel pensiero egiziano si riferisce a niente di più che alla disposizione delle cose di comune esperienza sia per gli dèi che per gli uomini. Nella migliore delle ipotesi gli dèi potrebbero causare ordine dal caos preesistente. Anche se fosse, l’ordine non implica stabilità o perfezione poiché si profila sempre la possibilità che il caos primordiale possa invertire il lavoro degli dèi e ancora una volta sconfiggere l’ordine e l’armonia.

L’ansia che questa minaccia produceva nella mente degli antichi egizi era palpabile e costante. In generale, l’egiziano non avrebbe mai potuto essere certo che la provvidenza del suo dio fosse una garanzia contro la rovina totale che gli sarebbe capitata in una simile catastrofe. Egli era incoraggiato a credere che l’unica garanzia dell’ordine e della regolarità della sua esperienza dipendesse dalla formazione di una società cosmica inclusiva degli dei e degli uomini, del cielo e della terra. Nel suo sistema di credenze la preoccupazione più importante era quella di essere pienamente integrato nella vita della natura e “l’esperienza di quell’armonia era pensata essere il bene più grande cui l’uomo potesse aspirare”[4]. Il raggiungimento di questo obiettivo è stato immaginato risiedere nell’idea egiziana dello Stato con al centro il suo re dio/uomo come mediatore tra cielo e terra. Una società dominata dallo stato con un monarca infallibile stava al cuore del programma di civilizzazione dell’antico Egitto.

Nell’antica cultura e religione egizia il concetto di stato era un necessario corollario nell’ideale cosmico totale. E al centro dell’idea dello stato c’era la divinità del re. “Lo Stato non era un’alternativa ad altre forme di organizzazione politica fatte dall’uomo. Era stato dato da Dio … continuava a dare espressione all’ordine universale. Nella persona del Faraone un essere sovrumano si era fatto carico degli affari dell’uomo”[5]. Il re non si limitava a esercitare il governo; era responsabile per il mantenimento dell’armonia del cosmo. L’assalto delle forze del caos era una minaccia sempre ricorrente. Il re incarnava nella sua persona l’equilibrio tra Seth e Horus, tra Conflitto e Ordine. Questo antagonismo era permanente e senza soluzione. Tuttavia, poiché il re era ambedue contemporaneamente, in qualche modo manteneva la pace tra loro [6]. Di conseguenza: “il servizio di Faraone era religioso, non una funzione puramente secolare, e il senso del dovere era rafforzato dalla fede”[7]. L’antica cultura egiziana era una cultura schiavista, una di assoggettamento assoluto al potere e all’autorità del re. Nel suo schema delle cose ciò rappresentava la sua speranza di redenzione. La parola divina del faraone non poteva tollerare alcuna opposizione. La vita dell’egiziano era nelle mani del suo re come fosse nelle mani del suo dio.

Gli egiziani avevano una parola per descrivere il concetto cosmico di ordine che essi immaginavano esistere e che supponevano il loro re fosse stato consacrato per difendere. Lo chiamavano Ma’at. Spesso la parola è stata tradotta come “verità” o “giustizia”, ma il suo significato corretto è più quello di “giusto ordine”[8]. Vivere secondo Ma’at, secondo il giusto ordine significava, per ogni egiziano, vivere la miglior vita possibile. Quell’uomo che vive in sintonia con Ma’at è dunque un uomo sapiente.

L’egizio temeva profondamente il possibile ritorno di caos e disordine, il rovesciamento completo di ogni normalità e regolarità. L’istituzione dell’ordine, egli sperava, sarebbe stato un baluardo permanente contro tale ricorrenza. Se avessero dovuto verificarsi cambiamenti ovunque in natura egli poteva essere certo che il caos fosse responsabile e che fosse determinato a riconquistare il suo precedente dominio. Il vero ordine doveva essere non solo permanente ma anche statico e immutabile. La nozione di storia o di progresso era estranea al suo pensiero. Di fatto, credere che l’uomo e la società dovessero subire sviluppo e crescita era la più profonda eresia. Non è strano, quindi, che la sua concezione di Ma’at (giusto ordine) fosse considerata più in termini di ciò che non è, che di ciò che è; che egli avrebbe dovuto essere più interessato a ciò che minacciava di distruggerla che con ciò che giustificava la sua natura e la sua esistenza. Ma’at è stata stabilita. Questo è assiomatico. L’uomo sapiente vivrà in modo da non sconvolgere la regola del giusto ordine. Egli s’inchinerà in umile sottomissione a Ma’at. Egli si sottometterà senza riserve al suo dio-re.

Chi vive secondo Ma’at fiorirà e prospererà, ma “Chi agisce contro Ma’at perviene infine al dolore”[9]. Per l’egizio era un articolo di fede. Una formula pronta veniva fornita per ogni manifestazione del bene o del male nella vita di un uomo. Ogni evenienza aveva una spiegazione prevedibile a causa di questa prescrizione morale. Azioni che necessariamente turbassero il giusto ordine del cosmo si sarebbero rivelate inevitabilmente dannose e avrebbero causato all’uomo gravi ferite. Quale possibile fattore avrebbe potuto ispirare l’uomo ad agire in modo così contrario ai propri interessi? Era una mancanza di corretta comprensione o di corretto autocontrollo, e non qualche corruzione di base dentro l’uomo, a rispondere per le sfortune dell’uomo[10].“L’egizio vedeva i suoi misfatti non come peccati, ma come aberrazioni”[11]. Egli era preoccupato non tanto che il suo comportamento fosse moralmente sbagliato, quanto che gli portava infelicità. In particolare il fallo apparteneva alle sue “passioni” o alle “emozioni”, che erano un residuo di caos nella sua natura, qualcosa di cui non poteva essere biasimato, che comunque era in suo potere prevenire. Se un uomo sceglieva di vivere secondo i suoi impulsi e desideri irrazionali, allora la sua volontaria mancanza di auto-controllo gli avrebbe certamente portato miseria. Tuttavia, “colui che sbagliava non era un peccatore, ma uno stolto, e la sua conversione a una vita migliore non richiedeva il pentimento, ma un migliore intendimento”[12].

Qui incontriamo la sua dottrina della sapienza. “La vera sapienza … significa padronanza sui propri impulsi …. Si deve essere in grado di evitare di farsi coinvolgere in situazioni in cui ci sia la probabilità di essere portato via dai propri sentimenti”. “Moderazione delle passioni e un modo di evitare gli estremi in generale, caratterizzavano il sapiente”[13]. La boria, o l’orgoglio, era un altro agente che operava contro la buona vita. Significava la “perdita del senso della proporzione, una fiducia in se stessi, una affermazione di sé che superava i limiti dell’uomo e, quindi, portava al disastro”[14]. In poche parole, Ma’at era un ordine che non poteva essere violato con impunità. L’egiziano sentiva il pesante fardello quotidiano di organizzare tutte le attività in conformità col suo comando inviolabile. Non poteva essere certo momento per momento quali azioni avessero potuto essere contrarie al suo governo e perciò attirare su du lui una violenta punizione.

Tuttavia, Ma’at non esprime uno specifico comandamento etico. L’opposto di Ma’at non è ingiustizia o empietà, ma il caos. Ma’at determina persino l’ordine degli dèi. Anch’essi sono vincolati da Ma’at, e sono passibili della sua vendetta se dovessero oltrepassare i suoi confini. Molto semplicemente, si trattava di una forza cosmica di prim’ordine, nulla stava più in alto. Naturalmente, quando gli uomini commettevano un errore non stavano commettendo un peccato contro gli dei, ma si stavano muovevano contro l’ordine stabilito delle cose. Gli uomini non sono visti in ribellione contro Dio, né, in ultima analisi, la saggezza viene da Dio o riflette la volontà di Dio, ma è strettamente umana in natura.[15]

Il raffronto tra la visione egiziana delle cose, della la sua prospettiva di civilizzazione con quella di Salomone e la visione biblica è ovvio. Allo stesso modo, la visione del mondo salomonica contrasta con quella dell’antica Mesopotamia.

Note:

1 John A. Wilson in H. e H.A. Frankfort, John A. Wilson, Torkild Jacobsen: Before Philosophy: The Intellectual Adventure of Ancient Man, Baltimore: Penguin Books, 1964, p. 75.
2 Before Philosophy, p. 64.
3 Vedi, ad es. Mircea Eliade, The Mith of the Eternal Return, New York: Princeton University Prss/Bollingen Foundation Incorporated, 1974.
4 Henry Frankfort: Ancient Egyptian Religion, New York, Harper & Brothers, 1961, p. 29.
5 Frankfort: Ancient Egyptian Religion, p. 35.
6 Henry Frankfort: Kingship and the Gods, Chicago, The University of Chicago Press, 1984, p. 22
7 Frankfort: Ancient Egyptian Religion, p. 45.
8 Frankfort: Kingship and the Gods, p. 51.
9 Frankfort: Ancient Egyptian Religion, p. 62
10 Frankfort: Ancient Egyptian religion. p. 74.
11 Frankfort: Ancient Egyptian Religion. p. 73.
12 Frankfort: Ancient Egyptian Religion. p. 73.
13 Frankfort: Ancient Egyptian Religion. p. 66, 68.
14 Frankfort: Ancient Egyptian Religion. p. 69.
15 Frankfort: Ancient Egyptian Religion. p. 76, 77, 81.


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