VI

L’ordinamento morale-sociale turbato 3:16-5:7

 

Nella prima sezione di questo libro il Predicatore ha descritto più ampiamente possibile la differenza tra la sapienza pattizia salomonica e la sapienza del trasgressore del patto. Lo scontro più feroce nel confronto tra il regno di Dio e il regno dell’uomo è costretto a essere su chi controlli il tempo e il suo contenuto, Dio o l’uomo. Implica niente di meno che la sovranità sulla natura e la storia. Di conseguenza, ha a che vedere con più che la pietà puramente individuale; riguarda l’obbiettivo di un intero programma di civilizzazione. L’uomo nella sua ribellione contro Dio ha ardentemente posto la propria speranza su ideali di sapienza auto-generati per costruire un paradiso in terra senza Dio. Lo scopo del Predicatore è stato di dichiarare che la presunta sapienza dell’uomo è “impotente”, non può avere successo contro un problema intrattabile nell’uomo e nel suo mondo: Dio ha maledetto l’uomo e il suo mondo. Di conseguenza esiste una “stortura” profondamente radicata che la sua vantata sapienza è incapace di raddrizzare. Fintantoché rifiuta di fare i conti col problema del peccato al centro del proprio essere l’uomo rimarrà frustrato nei suoi obbiettivi. Il suo desiderio è di essere il proprio dio, ma c’è un solo Dio vivente e vero — il Dio del patto. Se l’uomo non impara a fare i conti con lui è destinato ad una vita di futilità e insignificanza. La vera sapienza risiede nell’ammettere la signoria di Dio su “tempi e stagioni”. Proprio come ha il potere di chiedere all’uomo di rendergli conto, Dio solo ha il potere di permettere che gli sforzi dell’uomo di realizzare la vita abbiano successo contro la corruzione del peccato.

Da questa ampia generalizzazione sullo scontro tra ideali di sapienza il Predicatore si volge a un trattamento più dettagliato dei problemi necessariamente collegati. Lungi dal terminare il suo discorso sulla radice del problema dell’uomo per come incide sui sui sforzi di produrre una civiltà, il Predicatore considera ulteriormente gl’intenti dell’uomo separatamente da Dio e quelle che sono inevitabilmente le loro conseguenze. In questa sezione egli si concentra in modo particolare sull’ordine morale-sociale che l’uomo desidera realizzare ma che, a causa dell’innata stortura nel suo essere risulta inevitabilmente essere un disordine. Di nuovo il suo scopo è d’indicare che questo risultato scaturisce dalla perversità inerente la natura umana e dalla maledizione di Dio che ne è il corollario. Tutte le aspirazioni che ha per la perfetta comunità dell’uomo si infrangono costantemente sulle rocce della maledizione di Dio che ovunque frustra le sue ambizioni e i suoi progetti. La sua persistente speranza per un ordine imposto dall’uomo e una società giusta finiscono solo in oppressione, ingiustizia e futilità. Alla fine di questa sezione, il Predicatore rende chiaro che solo l’obbediente sottomissione alla parola della rivelazione di Dio può provvedere un fondamento per un ordine morale e sociale.

3:16-22 riassume i pensieri iniziali del Predicatore sul problema della giustizia e dell’ingiustizia nel proposito dell’umanità di realizzare la “città dell’uomo”. A partire dal momento in cui soccombette alla parola di Satana nella questione dell’albero della conoscenza del bene e del male, l’uomo ha caparbiamente sostenuto di poter conoscere (cioè decidere) tutte le questioni di bene e male, giusto e sbagliato, giustizia e ingiustizia. Il suo continuo tentativo di edificare vita e cultura separatamente da Dio è la testimonianza della sua orgogliosa ostinatezza nell’asserire che la sua visione di un mondo giustamente ordinato per l’uomo sia essenzialmente valido. Il solo interesse del Predicatore è smentire questa presunzione. 3:16 registra il suo (il biblico-pattizio) verdetto su ogni vanto arrogante in questa faccenda: “Al posto del giudizio c’era empietà, al posto della giustizia c’era empietà”. Il Predicatore non si prende la briga di dilungarsi sui meccanismi del problema. Non entra in un’analisi dell’ordine sociale o politico per discutere i regimi migliori o peggiori. Non dice nulla della cause dell’ingiustizia, se emergano oppure no da ineguaglianze sociali o economiche, ecc. Egli si limita a concludere che dovunque si guardi “sotto il sole” l’uomo, nella sua auto-dichiarata indipendenza da Dio non può realizzare la società perfetta (leggi: “giusta”) che con convinzione si aspetta di conseguire. Come risultato della sua ribellione gli sforzi dell’uomo per la civilizzazione sono intrisi d’ingiustizia, non di tanto in tanto, ma dovunque e sempre. In questo modo il Predicatore addita alla differenza tra la vita sotto il patto di Dio e la vita fuori di esso. Le sue parole non sono intese ad offrire soluzioni ai problemi dove non è possibile soluzione senza Dio; si rivolgono invece ai figli pattizi d’Israele per incoraggiarli a non allontanarsi dal patto nel quale risiede la loro unica speranza.

Col patto in mente il Predicatore al verso 17 riconosce il giudizio di Dio e parla di nuovo del controllo di Dio sul tempo dell’uomo. Questo è eminentemente il modo in cui il popolo pattizio di Dio deve pensare le questioni di giustizia e ingiustizia. La sua parola giunse in un tempo in cui Israele era in soggezione alla volontà delle nazioni, un tempo in cui essi erano ricettori della “giustizia” dell’uomo. Dovevano riconoscere che Dio designa tempi d’ingiustizia. Allo stesso tempo, dovevano ricordare che proprio come Dio porterà il passato alla resa dei conti (v.15) così, anche, egli definirà un tempo quando farà giudizio su tutte le opere degli uomini. È Dio, non l’uomo, che costituisce l’arbitro finale delle azioni e delle conquiste dell’uomo, e la conoscenza che Dio giudicherà è la cosa più importante che i figli pattizi di Dio devono tenere presente.

Il Predicatore, comunque, si rende conto che i suoi ascoltatori hanno bisogno di un incoraggiamento maggiore della semplice affermazione che Dio giudicherà. Hanno bisogno di comprendere perché Dio permetta che prosperino tempi d’ingiustizia. Dio lo fa per rendere visibile il suo giusto giudizio. L’ingiustizia può essere sconfitta solo dalla giustizia. All’uomo dev’essere mostrato che la sua via è la via dell’ingiustizia mentre solo la via di Dio è giusta. Ancora una volta, il Predicatore intende incoraggiare a confidare nel patto. Di conseguenza dichiara: “Riguardo alla condizione dei figli degli uomini, Dio li mette alla prova, perché essi stessi si rendano conto che sono come bestie” (v. 18). Il paragone con gli animali, naturalmente, non ha nulla a che vedere con le qualità intrinseche di entrambi, uomo e bestia. E il Predicatore non intende neppure implicare che Dio non consideri l’uomo superiore agli animali. La prova cui sono sottoposti serve meramente a mostrare loro che non hanno vantaggi sugli animali i quali non edificano ordinamenti sociali né sperimentano giustizia o ingiustizia. Come gli animali l’uomo è destinato a morire. È una cosa che succede “ad entrambi” (v. 19). Con questa considerazione la stima eccelsa che l’uomo ha di se stesso e dei suoi ideali è “vanità”. I suoi propositi non resisteranno alla tomba e al ritorno alla polvere.

Tuttavia, benché l’uomo sia come l’animale in un aspetto importante, egli differisce dall’animale in un’altra considerazione non meno importante. Molti commentatori trattano i pensieri espressi nei versi 18-22 come un susseguirsi continuo, tuttavia, come nota correttamente Leupold: “Questo verso non è la continuazione del pensiero dei versi precedenti. Questi hanno dimostrato la misura in cui uomo e bestia siano simili. Ora giunge una dichiarazione sulla misura in cui sono diversi” [1]. Il Predicatore provvede una prospettiva necessaria per il popolo pattizio. È chiaro che la morte non è la fine perché, diversamente dall’animale, dopo la morte lo spirito dell’uomo “ascende a Dio”. Il pensiero è legato ancora una volta all’enfasi principale in questo gruppo di versi: Dio giudicherà sia il giusto che il malvagio. Questo è ciò ch’è implicito nello spirito che ritorna a Dio. Una ragione ancor maggiore dunque, per comprendere correttamente il significato del verso 21. Ancora una volta Leupold ne ha reso il pensiero correttamente: “Non sono molti a prendere a cuore come dovrebbero il fatto che lo spirito dell’uomo sale in alto”[2]. Al popolo pattizio deve essere rammentato in modo particolare che Dio chiamerà in giudizio ogni azione dell’uomo, poiché questo è il modo di dire del Predicatore, quel che dice Ebrei 9:27 “E come è stabilito che gli uomini muoiano una sola volta, e dopo ciò viene il giudizio …”. Da questo consegue il verso 22: “Non c’è nulla di meglio per l’uomo [pattizio] che rallegrarsi nei suoi lavori …”. Specificamente, intende le loro opere di “giustizia”. Ciò è sufficiente poiché l’uomo non può calcolare il futuro. Il giudizio di Dio deve essere tutto quello che gl’interessa.

Nel capitolo 4, mediante una serie di riflessioni, il Predicatore espande sui problemi e le difficoltà che sono necessariamente associate con la rivendicazione dell’uomo di costruire un ordinamento sociale e morale giusto. In 4:1-3 attira l’attenzione al fatto che il tipo d’ordinamento che l’uomo si prefigura, ogni qual volta sia realizzato in pratica, alla fine si vedrà spaccarsi in una dicotomia irreconciliabile — da un lato gli oppressori, dall’altro gli oppressi. La storia registra regolarmente che dovunque l’uomo postuli la propria nozione di giustizia e di buona società, quivi la realtà inevitabilmente si dimostra essere una lotta per il potere politico da parte di chi è sufficientemente forte da imporre la propria volontà ad altri. I filosofi e i pensatori dell’antichità studiarono questo problema con profondo interesse. Da Platone ed Aristotele a Polibio e Cicerone, libri e trattazioni sono stati scritti per promuovere la società giusta e perfettamente ordinata. Come risolvere il problema della tirannia impegnò particolarmente la loro attenzione. Sembrava che il forte domini sempre il debole. Ciascuno offerse la propria soluzione ma nessuno ha mai raggiunto alcun successo nell’alterare la realtà delle cose. Ai nostri giorni abbiamo universalmente acclamato l’ideale democratico come risposta a questo problema, ma tutto ciò che abbiamo compiuto come risultato è la “tirannia della maggioranza” [3], forse la forma d’oppressione fin qui peggiore. Al di fuori del patto non c’è soluzione al problema. Questo è certamente ciò che il Predicatore suggerisce quando dice che, per quanto concerne l’uomo umanista, gli oppressi tra di loro “non hanno chi li consoli” (v.1). L’umanista non ha Dio che giudicherà le azioni degli uomini, di conseguenza non ha motivo per agire con giustizia e d’astenersi dalla malvagità. Nei versi 2, 3 egli rende chiaro quello che deve essere la prospettiva sulla vita che l’umanista può avere quando soffre l’oppressione. Il suo atteggiamento non è di cinica rassegnazione; meramente riflette sobriamente su ciò ch’è inevitabile per l’uomo nella sua ribellione contro Dio.

La preoccupazione del Predicatore è d’enfatizzare che il problema dell’ordine sociale risiede in una perversità profondamente radicata nel cuore dell’uomo. È un problema che non può essere eliminato con i suoi tentativi di riarrangiare la società secondo qualche progetto ideale. Fintantoché il male risieda nel cuore dell’uomo i suoi tentativi di realizzare la “buona vita” non possono avere successo. Secondo 4:4-6 la “buona vita” è ciò che si aspetta di ottenere mediante la sua fatica. Il Predicatore sa che l’uomo fu originariamente creato per realizzare un obbiettivo culturale comune, uno nel quale tutti avrebbero condiviso. Però il peccato, che si manifesta nell’invidia, riesce soltanto a fare a pezzi i suoi tentativi di costituire una comunità. “Ho pure visto che ogni fatica e ogni successo nel lavoro risultano in invidia dell’uno contro l’altro” (v. 4). A ciò s’aggiunge che l’uomo è pertinacemente indolente (v. 5) o consumato dalla scontentezza (v. 6). Tutte queste caratteristiche vogliono sottolineare che l’obbiettivo dell’uomo di produrre una comunità senza Dio è destinato a scomporsi perché nulla può sradicare la stortura nella natura stessa dell’uomo.

Questa perversità dell’uomo, comunque, non assume necessariamente sempre le stesse caratteristiche. In 4:7, 8 il Predicatore indica un altro ostacolo, forse maggiore, nella natura dell’uomo che distrugge i suoi tentativi di costruire la comunità dell’uomo: avarizia e concupiscenza. Qui menziona un uomo che è intento ad accumulare ricchezze materiali ad esclusione di tutto il resto per poter attirare l’attenzione sulla “solitudine” che sembra inevitabilmente accompagnare quella ricerca esclusiva. Tale uomo vede sempre gli altri come una minaccia al suo cumulo di ricchezza. Perfino i membri della sua famiglia sono visti come quelli che lo priverebbero del suo tanto caro guadagno materiale. Costui è disposto a sacrificare volontariamente qualsiasi cosa, anche la semplice compagnia, per proteggersi contro la perdita dei suoi beni. Il Predicatore sa che Dio ha creato l’uomo per la relazione sociale e commerciale. Dio non intese che l’uomo vivesse solo sulla terra. Nel programma di Dio la ricchezza non fu mai intesa per essere divisiva; anzi, dovrebbe essere sperimentata come mutuo beneficio reso possibile da reciprocità e collaborazione. Ma il peccato produce nell’uomo una concupiscenza che mina ogni sforzo di realizzare un ordine sociale senza Dio. Perciò, con parole d’esortazione indirizzate in particolare al figli pattizi il Predicatore in 4:9-12 dichiara enfaticamente che “due valgon meglio di uno solo …” e che “una corda a tre capi non si rompe tanto presto”. Il vantaggio dell’amicizia è una caratteristica realmente conosciuta solo nel patto. Solo lì la ricchezza può essere un fattore che non distrugge la comunità degli uomini, perché è il suo modo di dire che i legami del patto sono più forti della ricchezza considerata in sé e per sé. Non è suo scopo denunciare le ricchezze, ma semplicemente indicare che senza il patto di Dio la concupiscenza dell’uomo fa diventare impossibile qualsiasi comunione tra gli uomini. All’interno del patto l’uomo può avere solo un padrone: Dio, ma fuori dal patto l’uomo ha molti padroni incluso il denaro.

Il Predicatore provvede una ragione addizionale per cui il sogno dell’uomo di un ordine sociale finisce sempre per fallire. È l’incostanza e la volubilità di generazioni di uomini che sono portati ad aspettarsi benefici dai loro governanti. Quando a 4:13 il Predicatore dichiara: “È meglio un giovane povero e saggio che un re vecchio e stolto, che non sa più ricevere ammonimenti” non sta impartendo un consiglio; piuttosto, egli modella le proprie parole come farebbe il popolo stesso la cui lealtà e stabilità cambia costantemente come risultato di un’alterata percezione di ciò che potrebbe aumentare la loro felicità e il loro benessere mediante la fede che sono giunti a riporre in un nuovo governante politico. È una riflessione sulla speranza che la gente pone in governanti politici in generale e come siano facilmente delusi solo per essere di nuovo ingannevolmente spinti ad avere aspettative ancora maggiori. È il modo del Predicatore di dire che il potere politico si rivela essere un bene instabile quando le richiesta utopistiche della gente esigono più di quanto possa effettivamente dare. Ciascuna generazione agogna un messia politico che introduca il paradiso. La storia abbonda di demagoghi che si sono presentati con attraenti nuove proposte con le quali rimpiazzare uno status quo che è giunto ad essere percepito come regressivo e non ricettivo. Le masse sostengono volontariamente la rivoluzione perché non possono credere che il problema risieda in loro stesse. La volubilità è evidente nel fatto che ogni generazione ha della questione una visione diversa, perciò il Predicatore osserva sardonicamente: “Era immensa la moltitudine di tutti coloro alla cui testa egli si trovava. Eppure, quelli che verranno in seguito non si rallegreranno di lui!” (v. 16). Nonostante la rivoluzione non raggiunga mai i risultati desiderati arriverà comunque una nuova generazione con grande fede che avrà finalmente successo, solo per essere soppiantata da quella successiva, e così via. Questa è la vita per l’uomo fuori dal patto. Un problema profondamente radicato nell’uomo previene la realizzazione su basi permanenti degli ideali sociali del regno dell’uomo.

In 5:1-7 il Predicatore elabora la sua tesi rispondendo alla sua osservazione sulla “vanità” che incide profondamente sulla vita dell’uomo e l’inevitabile e totale fallimento di qualsiasi ordine sociale che l’uomo al di fuori dal patto si sforzi di erigere. Egli offre la sola soluzione disponibile; però, anziché rivolgersi all’uomo in generale, come se ci fossero delle prescrizioni morali comuni disponibili per ogni uomo senza distinzione, egli si volge con diretta ammonizione solamente ai figli pattizi. Le sue parole sono intese offrire loro speranza e il solo fermo fondamento su cui costruire l’ordinamento sociale-morale. A meno che il popolo di Dio si poggi fedelmente sulla parola di rivelazione che sta al centro del patto di Dio con loro, il Predicatore non può concepire alcuna possibilità di rettificare l’innata stortura dell’uomo al cuore di tutte le sue difficoltà. Egli non intende offrire una soluzione “politica” a quello che è essenzialmente un problema “religioso”. Neppure consiglia una studiata indifferenza verso la questione come se Dio non avesse considerazione per la vita sociale dell’uomo. È il suo modo di dire che solo nel patto risiede la possibilità per un progetto sociale per l’uomo. Se lo stesso popolo di Dio non lo comprende, come potrà mai il mondo essere portato a vedere che è così? Che il Predicatore ora diriga le sue parole specificamente ai figli pattizi d’Israele si può vedere dalla sua solenne esortazione riguardo alla “casa di Dio”. “Bada ai tuoi passi quando vai alla casa di Dio” (5:1). La casa di Dio è, senza dubbio, il tempio di Gerusalemme. È una chiara indicazione che il punto di vista del Predicatore è solidamente scritturale e che la sua “sapienza” non è della varietà generale dell’antico oriente. Egli si poggia solamente sul fondamento degli ordinamenti mosaici, com’è chiaro dalle sue istruzioni riguardo a ciò che si debba o non debba fare nella casa di Dio. La legge di Dio è il fulcro del suo curriculum educazionale.

Il tempio è la parte principale del proposito redentivo di Dio per il suo popolo. Indica la presenza di Dio col suo popolo perché è il luogo ove egli ha posto il suo nome e ha scelto di dimorare in mezzo a loro. Inoltre, è la località principale dove il popolo di Dio deve portare la sua adorazione a Dio e avere comunione con Lui. Che Dio dimori col suo popolo è un segno del suo favore verso di loro. Fondamentale per la presenza di Dio col suo popolo è la parola-rivelazione che si trova lì con Lui. È per questa ragione, più che per ogni altra, che il tempio era così importante nella vita del popolo di Dio, e che ora il Predicatore indirizza ad esso l’attenzione dei suoi ascoltatori. Dio intese che al centro della vita del suo popolo ci fosse la sua parola a ordinare la loro vita. Non dovremmo essere sorpresi, quindi, se la prima ingiunzione del Predicatore nell’avvicinarsi al tempio è d’attenta prontezza nell’ascoltare quella parola. “Avvicinati per ascoltare…” (v.1). Tutto il resto è ancillare a questo requisito. Come può un uomo aspettarsi d’avere successo in un mondo oppresso da vanità e da ciclicità? Solo quando la parola di Dio ha la priorità su tutto ciò che fa. La vita dell’uomo deve essere modellata e diretta in ogni maniera da quella parola se vuole sperare di trovare un percorso chiaro in un mondo gravato dal peccato e dalla maledizione. Ascoltare è obbedire. Dichiarare la questione in questo modo è specificare chi debba avere autorità sulla vita dell’uomo. Deve essere Dio e Dio solamente.

L’urgenza del Predicatore d’accertarsi che i suoi uditori accordino alla parola di Dio un’indiscussa autorità nella loro vita deriva dal fatto che a quel tempo Israele era tentata d’allontanarsi dal patto e di rivolgersi al mondo per assorbire la sua cultura e i suoi valori. Era un periodo in cui la cultura ellenista si stava espandendo rapidamente sull’antico Medio Oriente, assorbendo tutto ciò che incontrava. La peculiarità del popolo pattizio rispetto alle nazioni rischiava la cancellazione. Al centro della preoccupazione del Predicatore c’era la questione dell’autorità finale su credo e condotta. In linea di massima Israele praticava ancora le forme di pia devozione nel tempio, ma la sua attitudine lì stava sempre più assumendo le caratteristiche dei costumi pagani. Lo si può vedere dal fermo avvertimento del Predicatore riguardo “il sacrificio degli stolti”. Fa riferimento ad una rumorosa ostentazione davanti a Dio (precipitoso con la bocca, affrettato nel cuore) che manifesta la malavoglia di sottomettersi alla sua parola. Tale irriverenza esibisce un auto-centricità che facilmente imita la consapevolezza pagana nel suo tentativo di manipolare i propri dèi per fini propri. Il Predicatore intende che, nel patto, l’obbedienza a Dio deve avere la precedenza su tutto. L’uomo deve venire davanti a Dio per ascoltare e ricevere, non per domandare o spiegare.

Il Predicatore ha dimostrato che per l’uomo veramente sapiente tutto ciò che avviene “sotto il sole” è un legittimo campo d’investigazione. C’è però un’eccezione: il tempio. Il tempio, in quanto il luogo della rivelazione verbale di Dio, non può essere trattato da oggetto che l’uomo debba investigare. Anzi, lì l’uomo si sottomette in umile obbedienza solamente.

Tutte le esperienze dell’uomo stanno sotto la vanità e la mancanza di significato, ma solamente il tempio non è sottoposto alla vanità. Anzi, solo esso offre all’uomo l’unico fondamento per la vita in un mondo colpito dal peccato e dalla maledizione. Lì l’uomo ode la parola di Dio e si sottomette alla signoria di Dio su tutta la sua vita. “Dio è in cielo e tu sulla terra” (v. 2). Van Den Borne ha espresso bene l’idea: “Nel tempio c’è autorità e quivi Dio stabilisce il tuo andare e venire. Qui Dio t’istruisce, e tu puoi solo ascoltare con reverenza. Entra dunque in umiltà e presenta la tua offerta e ascolta con obbedienza. Qui tu non spieghi nulla, anzi tutto viene spiegato a te” [4]. Dio ha eretto il suo tempio e ha impartito la sua parola. Questo è ciò che Dio ha fatto; se vogliamo risolvere il problema dell’ordinamento sociale-morale, ancora una volta dobbiamo fare i conti con ciò che Dio fa e prendere sul serio ciò che comanda. L’alternativa, dice il Predicatore, è che Dio s’adirerebbe a ciò che dici e distruggerebbe le opere delle tue mani (v.6). Può solo lasciare l’uomo con la vanità di “molti sogni e molte parole” (v.7). La parola di Dio solamente deve essere presa sul serio “temi Dio!” (v.7).

Note:

1 Leupold, Ibid., p. 100.
2 Ibid.
3 Cfr. Friedrich A. Hayek, The Constitution of Liberty, Chigago: University of Chigago Press, 1985, pp. 103-117) In Italiano, La Società Libera, Rubbettino.
4 De Wijsheid van Der Prediker.


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