(La sapienza di Salomone)

b. La Mesopotamia

 

Come faceva l’Egitto, la Mesopotamia sosteneva un ideale di civilizzazione integrato e autosufficiente [1]. L’uomo mesopotamico, come il suo omologo in Egitto, era profondamente in possesso di una visione cosmica totale della vita, che comprende d’un sol tratto il contadino più infimo e gli dèi più eccelsi. E ancora una volta, in mezzo c’era l’ufficio del re che rappresentava il legame tra il cielo e la terra [2]. Senza sorprenderci, osserviamo anche che una società totalitaria dominata dallo stato presentava l’aspetto del bene più grande per tutte le forme di vita all’interno dello stesso cosmo di esperienza. La ragione, si scopre, come fu per l’egizio, è che il mesopotamico desiderava e credeva disperatamente nel regno dell’ordine sopra la tirannia del caos. Il problema è che tutta la sua concezione dell’ordine era esso stesso niente meno che dispotico e di conseguenza lo riempiva nella migliore delle ipotesi, con un temuto senso di un cupo destino. A questo proposito, egli era molto meno ottimista del suo omologo egiziano; eppure non meno disposto ad aderire agli ideali e credenze che la sua civiltà rappresentava.

Il Mesopotamico antico guardava alla vita essenzialmente come un conflitto ineliminabile. L’ordine mondiale stesso era il prodotto del conflitto ed era mantenuto da una ri-attuazione annuale della lotta tra “le forze che producevano l’attività e le forze che producevano l’inattività”[3]. Gli dèi favorivano le forze di attività, e il caos riposo e inattività. Senza il trionfo dell’attività tutta la vita avrebbe cessato d’esistere. Attraverso questa vittoria la terra avrebbe dovuto produrre il sostentamento necessario per l’uomo. La società umana era il risultato della supremazia degli dèi sui poteri delle tenebre e del disordine.

Tuttavia, il mesopotamico non poteva mai sentirsi sicuro dei suoi dèi. Dopo tutto, i suoi dèi possedevano le stesse sue caratteristiche. Anch’essi esibivano tanto tutte le qualità quanto tutti i difetti che l’uomo stesso aveva [4]. Non avrebbe mai immaginato che i suoi dèi prendessero alcun interesse nell’uomo se non per ragioni essenzialmente egoistiche. La sua convinzione fondamentale concernente lo scopo dell’uomo è che egli fosse stato creato per vivere in cieca schiavitù agli dèi. Specificamente, egli credeva che “l’uomo è stato creato per alleviare la fatica agli dèi” [5], e per servire i loro bisogni arbitrari. Egli inoltre riteneva che lo Stato esisteva, con il re al vertice, per far rispettare l’assoggettamento al servizio degli dèi.

L’uomo mesopotamico si sottoponeva a questa servitù come espediente necessario per la protezione che egli, in cambio, si aspettava dagli dèi di fronte alle forze minacciose del caos nella natura. Se voleva sperare di vivere la “buona vita”, allora una tale obbedienza servile a divinità remote e imprevedibili era indispensabile [6]. Nella sua stima il successo nella vita era collegato al suo status come schiavo degli dèi. Se era un buon servo, se svolgeva bene i suoi doveri, allora poteva sperare di ricevere qualche rimessa, qualche favore, dai suoi dèi [7]. Ma di questo non avrebbe mai potuto sentirsi certo; e lui sicuramente non poteva contare su qualcosa di più di questo. Gran parte della sua incertezza era dovuta alla totale indifferenza con cui gli dèi consideravano l’uomo, e in parte al fatto che gli dèi erano essi stessi costantemente minacciati da un’impellente caos. I suoi dèi non erano onnipotenti. Questo problema grava sempre pesantemente sugli uomini quando essi dissolvono ogni distinzione tra il Creatore e la creatura.

Il rapporto del mesopotamico con le sue divinità non conteneva alcun componente morale di sorta. Non sentiva alcun senso di contrizione o di penitenza nei confronti degli dèi. Il rapporto era strettamente quid pro quo. Poteva oscillare tra la disperazione e la felicità esuberante sulla base di come lo toccassero gli eventi, ma non immaginava che fosse possibile avere intima comunione con i suoi dèi, né sentiva mai la minima necessità che i suoi dèi dovessero perdonare le sue offese. “I mesopotamici, mentre i sapevano di essere essi stessi soggetti ai decreti degli dèi, non avevano motivo di ritenere che tali decreti fossero necessariamente giusti” [8].

In realtà, si potrebbe dire che l’uomo mesopotamico venerava suoi dèi perché stabiliscono l’ordine cosmico e il ritmo della natura in cui l’uomo poteva sentirsi sicuro, non perché i suoi dèi vendicassero l’impurità morale. Egli non si sentiva di essere sotto l’ira degli dèi per trasgressioni morali. La morte, quindi, non era una maledizione per il peccato, ma un destino ineluttabile. Essa riguardava la natura dell’uomo in quanto uomo. A volte anche gli dèi devono subire questo destino, anche se essi non sperimentano la sua terribile permanenza. L’uomo mesopotamico riteneva che in qualsiasi momento sarebbe potuto accadere qualcosa che l’avrebbe derubato della sua felicità, per nessuna ragione apparente. Questo senso di fatalità produceva in lui un profonda prostrazione e una sconsolata disperazione.

La sapienza salomonica ha rappresentato una visione radicalmente diversa della vita. Essa sola conserva la verità centrale biblica che Dio e l’uomo non appartengono affatto allo stesso cosmo di esperienza, che Dio è davvero il Creatore di tutte le cose, e che l’uomo è la sua creatura, modellato a sua immagine, per le ragioni menzionate nell’ultimo capitolo. Dio non è sotto una legge superiore di necessità come è l’uomo. Nessun ordine finale o il caos delimitano Dio come l’uomo. Dio non muore, neppure è nato, ma Egli è da sempre e per sempre. Poiché Dio ha creato tutte le cose, Egli è Signore e Sovrano sopra tutte le cose. Egli determina il corso della vita dell’uomo. La vita dell’uomo non è alla mercé di qualche caso o destino ultimo. La morte è il risultato della ribellione contro Dio, non una fatalità ineluttabile. L’uomo e Dio perciò stanno in relazione morale l’uno all’altro, e le conseguenze della vita dell’uomo sono prodotti di giustizia o d’ingiustizia. Sulle basi della rivelazione pattizia l’uomo può sapere con certezza che la sua vita è nella mano sicura del suo Signore e Dio, e che può contare sulla prosperità per l’obbedienza e su miseria e difficoltà per la disobbedienza.

La preghiera con cui Salomone dedicò il tempio al suo completamento dice tutto. Le parole d’apertura: “O Signore, Dio d’Israele! Non c’è nessun dio che sia simile a te, né lassù in cielo, né quaggiù in terra! Tu mantieni il patto e la misericordia verso i tuoi servi che camminano in tua presenza con tutto il cuore. Tu hai mantenuto la promessa che facesti al tuo servo Davide, mio padre; e ciò che dichiarasti con la tua bocca, la tua mano oggi adempie” (1 Re 8: 23, 24), esprimono il pensiero fondante della sapienza salomonica. Il resto della preghiera dispiega un distinto programma di civilizzazione per il popolo pattizio di Dio. Il trionfo della sapienza salomonica significò il trionfo del programma di civilizzazione che rappresentava.

Che questa verità sia stata adempiuta nei giorni del Salomone storico compare chiaramente in 1 Re 10:23 – “Così il re Salomone fu il più grande di tutti i re della terra per ricchezze e per saggezza. E tutto il mondo cercava di veder Salomone per udire la saggezza che Dio gli aveva messa in cuore”. Una in particolare venne ad ascoltare la sapienza di Salomone e a portare doni in testimonianza della superiorità della sua civilizzazione su quella propria. Ella era uno dei grandi faraoni dell’Egitto stesso, la Regina di Saba9. Nel farlo, riconobbe che il credito avrebbe dovuto essere dato al Dio di Salomone al quale in ultima analisi appartenevano ogni onore e gloria.

Note:

1 Si veda, George Roux, Ancient Iraq, Penguin Books, 1964, p. 11.
2 Nell’antica Mesopotamia, diversamente dall’Egitto, la persona del Re non era vista come divina in se stessa; ma il suo ufficio era sovrumano in origine, e il re manteneva un ruolo di mediatore nella relazione tra gli dèi e gli uomini: si veda Frankfort, Kingship and the Gods, pp. 224 e 237.
3 Torkild Jacobsen, in: Before Philosophy, The Intellectual Adventure of Ancient Man, p. 187.
4 “…altamente intelligenti, potevano esaurire le idee; generalmente giusti, erano capaci anche di pensieri e di azioni cattive; soggetti ad amore, odio, ira, gelosia e tutte le altre passioni umane, mangiavano, bevevano e si ubriacavano; essi litigavano, combattevano e soffrivano ed erano feriti e potevano persino morire …” Roux: Ancient Iraq, p. 88.
5 Jacobsen: Before Philosophy, p. 88.
6 Jacobsen: Before Philosophy, p. 201.
7 Jacobsen: Before Philosophy, p. 220.
8 Frankfort: Kingship and the Gods, p. 278.
9 Io, personalmente, accetto l’opinione che la Regina di Saba è la Regina Hatshepsut della famosa XVIII dinastia, il cui regno cadde non nel XV secolo a.C., ma nel X secolo a.C. Per una discussione su questa veduta e del problema della datazione dell’antica cronologia in generale si veda: Immanuel Velikovsky: Ages in Caos, From the Exodus to King Aknaton, New York, Doubleday & Company, Inc., 1952; e, Donovan A. Courville: The Exodus Problem and its Ramifications, Vol I, Loma Linda: Challenge Books, 1971.


Altri Libri che potrebbero interessarti