III
La Sapienza di Cristo

 

Con il regno di re Salomone il Regno di Dio aveva veramente raggiunto l’apice dello splendore e della dominazione che Dio aveva inteso per esso nella sua forma veterotestamentaria. Ciò che più lo conferma è il modo in cui la sapienza di Salomone manifestamente sorpassò gli ideali di sapienza umanistici che si trovavano tra le nazioni. L’esaltazione della sapienza Salomonica mise chiaramente in mostra la preminenza della sapienza biblica e l’incomparabilità del Dio di cui parlava. Essa indicava che la sua parola, e l’obbedienza ad essa solamente poteva fornire l’unico fondamento su cui cultura e civilizzazione avrebbero potuto essere edificate. Qualsiasi altra cosa era “vanità e correre dietro al vento!”.

È ancor più straordinario e sconcertante quando in 1 Re 11 scopriamo improvvisamente che: “Così, quando Salomone fu vecchio, le sue mogli fecero volgere il suo cuore verso altri dèi” al punto che “il suo cuore non appartenne interamente all’Eterno il suo Dio …” (v.4). Salomone, malgrado il pinnacolo di magnificenza a cui Dio lo aveva elevato, ruppe il patto con Dio, e al suo posto sostituì un falso patto precisamente con quelle divinità il cui programma di civilizzazione Salomone aveva precedentemente provato essere vano, vuoto, e oneroso fino all’estremo per i suoi aderenti. Nella sua apostasia, Salomone attirò l’ira di Dio non solo su se stesso ma su Israele nel suo insieme. Dio avrebbe ridotto la preminenza d’Israele tra le nazioni e l’avrebbe costretto ad imparare la differenza tra servire lui e servire i falsi dèi delle nazioni. Israele avrebbe dovuto aspettarsi che abbandonare Dio avrebbe condotto solamente alla schiavitù sotto i nemici di Dio. Il comportamento del capo federale del Patto di Dio avrebbe ridondato a beneficio o maledizione del popolo di Dio.

È naturale che l’infedeltà di Salomone agiti in noi il più grave stupore. Dopo tutto, non possedeva egli ogni vantaggio? Come fu con Adamo, che egli tipizzava, a Salomone fu di fatto garantito ogni immaginabile favore – ricchezza in abbondanza, condizioni di pace nella quale goderne, e una insuperata intelligenza per l’esercizio della giustizia e del giusto governo. Di più ancora, Dio parlò direttamente con Salomone. Egli non avrebbe potuto equivocare riguardo alle basi della sua prosperità, e avrà certamente ben compreso cosa avrebbe comportato la violazione del patto del Signore. Che malgrado tutto ciò che sapeva e che aveva sperimentato riguardo al favore di Dio egli potesse tuttavia girare le spalle a Dio ed abbracciare abominevoli pratiche e credenze pagane può suggerire solamente che il ruolo di Salomone nella storia della redenzione non fu mai inteso essere permanente o finale. Anche se non accantoniamo con leggerezza il peccato di Salomone e le sue conseguenze, è chiaro che Dio non aveva inteso fin dall’inizio che il Salomone della storia dovesse essere l’Uomo di sapienza che Dio avrebbe posto eternamente alla testa del suo programma per il Regno. L’umiliazione del Salomone storico fu necessaria per sgomberare la strada affinché il Salomone Più Grande prendesse il posto che gli spettava a capo del patto di Dio ed al centro del suo Regno. Se la peccaminosità umana in questo caso compie il disegno di Dio è solo perché Dio desidera che comprendiamo che la redenzione di cui abbiamo bisogno può essere realizzata solo per mezzo di uno che è egli stesso senza macchia e senza difetto. Nemmeno Salomone, per quanto fosse glorioso, poteva assicurare quel risultato; il suo peccato lo prova. Noi dobbiamo cercare uno che è come Salomone, certamente, ma che non può fallire com’egli fece.

Il peccato di Salomone, anche se non invalida la sapienza salomonica, certamente indica la sua inadeguatezza. A coloro che avrebbero voluto edificare la vita sulle basi della sapienza salomonica furono mostrati i suoi limiti. Finché il programma redentivo di Dio non ha raggiunto il suo culmine in Gesù Cristo, la sapienza che Salomone incarna rimane, e deve rimanere, incompleta. Questa consapevolezza deve governare il nostro intendimento del messaggio di Ecclesiaste. La prospettiva del libro è quella di Salomone e perciò condivide la sua verità quanto la sua deficienza. E proprio come Salomone addita in avanti a Cristo, anche Ecclesiaste deve dirigere a lui i suoi lettori. Certamente, noi ora abbiamo il vantaggio di vedere Ecclesiaste dal punto di vista di Cristo e perciò dobbiamo afferrare la sua lezione dalla sua prospettiva e non solamente da quella di Salomone.

a. “Più Grande di Salomone”

Benché in molte occasioni Gesù avesse fatto dei miracoli proprio alla loro presenza, in un pungente rimprovero per la richiesta dei farisei e dei dottori della legge che operasse qualche grande miracolo (Mt. 12:38) in modo da poter avere qualche scusa per annullare le sue pretese messianiche, Gesù sollevò il paragone tra Salomone e se stesso. Disse: “La regina del mezzogiorno risusciterà nel giudizio con questa generazione e la condannerà, perché essa venne dagli estremi confini della terra per udire la sapienza di Salomone, ed ecco, qui c’è uno più grande di Salomone” (Mt. 12:42).

Anziché elencare le possibili ragioni per l’incidente con i Farisei e i maestri della legge che provocò questo paragone, il nostro obbiettivo è semplicemente far conoscere ciò che Gesù stesso pensava di Salomone e di come Gesù concepisse che la sapienza di Salomone fosse in una categoria a sé. Nella mente di Gesù, Salomone non era solamente un esempio qualsiasi di un uomo di sapienza del Vecchio Testamento, ma era l’uomo di sapienza per antonomasia. Il paragone quindi fu sollevato per chiarire il significato che ciascuno dei due possiede come designato portatore della parola di Dio e perciò come annunciatore della sua volontà. Ambedue possono giustamente affermare di essere stati designati in modo speciale per parlare agli uomini con l’autorità di Dio. Gesù, però, indica che il proprio ruolo nel programma di Dio rimpiazza quello di Salomone. Se una grande regina del mondo antico fece un lungo viaggio per ascoltare le parole di Salomone perché provenivano da Dio, quanto più gli uomini del tempo di Gesù avrebbero dovuto ascoltare e credere le sue parole. Benché Salomone fosse stato un uomo sapiente, e benché le parole che pronunciò siano state vere e di spessore, pure ciò che egli disse non reggeva il paragone con ciò che Gesù ha da dire. Né avrebbe potuto fare ciò che Gesù fa per dimostrare la potenza delle sue parole. “Salomone con tutta la sua sapienza non poté predicare ciò che Gesù predicò, né poté avvalorare le sue parole con segni miracolosi”[1]. Malgrado la sua grandezza, Salomone non regge il confronto col Salvatore. Dall’altro lato, il ruolo di Salomone nella storia della salvezza non è neppure negato. Per questo Gesù può dire ai maestri della legge che saranno condannati da una che venne ad ascoltare la sapienza di Salomone. Ma è la loro reiezione di Cristo che li rende colpevoli, una chiara indicazione che non possono affermare di dare ascolto a Salomone quando rifiutano di sottomettersi alle parole di Gesù. Essi stessi avrebbero dovuto riconoscere che Salomone altro non era che un sostituto temporaneo di Cristo sino al tempo in cui egli sarebbe venuto. Ora che Cristo è apparso, egli è il vero Salomone che tutti gli uomini dovrebbero ascoltare e obbedire. Salomone è grande solamente in ragione della grandezza di Cristo cui additava.

Già alla nascita di Gesù è resa brillantemente manifesta la superiorità della sapienza Dio dispiegata in Cristo su quella delle nazioni che camminano nelle tenebre. Anche il paragone con le nazioni che vennero ad ascoltare Salomone è evidentemente incluso. Infatti in Matteo 2:1 leggiamo di “Magi” o “Sapienti” dall’oriente (cioè dalla civilizzazione mesopotamica) che vennero a dare omaggio e onore e a rendere culto al “Re dei Giudei”. Proprio come re Salomone attrasse al suo sapiente consiglio uomini delle civilizzazioni umanistiche che stavano separate e opposte ad Israele in tacita ammissione che i suoi principi di civilizzazione erano superiori ai loro, uomini dall’oriente vennero ad adorare Gesù confessandolo un re e perciò come un definitivo reggente di un programma di civilizzazione che avrebbe di gran lunga superato qualsiasi cosa l’uomo sia mai stato capace d’immaginare, tantomeno di realizzare, coi propri perversi lumi. Il loro tributo dà testimonianza simbolica del fallimento degli ideali umanistici che sgorgano dagli obbiettivi religiosi del regno dell’uomo e, allo stesso tempo, fornisce un assaggio del trionfo del Regno di Dio verso il quale il futuro è diretto.

L’uomo antico agognò l’apparizione di Dio in forme umane. Stauffer spiega che: “Poiché laddove la divinità si muove come un uomo tra gli uomini, il sogno di tutte le epoche è compiuto, i dolori del mondo sono dispersi, e c’è il cielo sulla terra”[2]. L’uomo ha continuamene sperato che attraverso tale teofania il mistero della storia venisse chiarito e che fosse introdotto uno stato permanente di paradiso in terra. Con l’uomo antico quel desiderio fu perseguito dovunque in “forma politica”. Come Stauffer ulteriormente dichiara: “Volta dopo volta la speranza delle nazioni viene ravvivata da qualche governante promettente, e volta dopo volta questa escatologia politica finisce frustrata. Ma la gente disillusa si riprende, e alza di nuovo le vecchie grida dell’avvento. E ogni nuova proclamazione dell’avvento è il rinnovamento della richiesta che alla fine sarà compiuta una volta per tutte — l’anelito che Dio diventi uomo. Questa è la disperante ripetizione della speranza politica dell’avvento del mondo classico” [3]. Abbiamo constatato che è così negli ideali fondamentali di Egitto e Mesopotamia. Ciascuna guardava al proprio re come al cosiddetto salvatore promesso. Ma proprio come le Scritture proclamano che la sapienza di Salomone eccelle in valore quella che era rappresentata in quelle civilizzazioni, altrettanto gli uomini venuti dall’oriente vennero a Cristo e riconobbero in lui il superiore proposito di Dio. Egli è il solo Messia nel quale le nazioni possano legittimamente riporre le loro speranze.

La portata limitata della sapienza di Salomone non sembrerebbe così inequivocabile come di fatto è se non percepiamo la minore importanza di ciò che le sue parole dicono, o non dicono, riguardo a se stesso. Per contrasto, la superiorità di Cristo su Salomone appare chiaramente dalle stupefacenti affermazioni che Cristo fa di sé. Basta esaminare anche solo il capitolo sei del vangelo di Giovanni. Lì ripetutamente Gesù dice di se stesso cose che Salomone non avrebbe mai potuto dire. Per esempio leggiamo: “Io sono il pane della vita, chi viene a me non avrà mai fame, e chi crede in me non avrà mai sete” (v. 35). O, ancor più notevole: “In verità, in verità vi dico che se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete la vita in voi. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (v. 53s.). Con tutta la sua sapienza, Salomone avrebbe potuto pronunciare una tale affermazione? Qui, perciò, c’erano parole che superavano in sapienza la sapienza di Salomone! Quando noi rammentiamo che nessun mero uomo ha mai avuto, o mai potrebbe avere una sapienza più grande di quella di Salomone, allora siamo obbligati a comprendere che la sapienza di Gesù non è quella di un mero uomo, poiché Gesù è certamente più che uomo, egli è l’epifania di Dio stesso. “Nessuno ha visto il Padre se non colui che è da Dio…” (v. 46). Conseguentemente Gesù può dire: “Le parole che vi dico sono spirito e vita” (v. 63). Le parole di Salomone possono essere una testimonianza di vita, ma le parole di Gesù sono vita stessa. La differenza consiste non nella verità che ciascuno esprime ma nella capacità che ciascuno ha per rendere quella verità efficace contro le corrosive conseguenze del peccato. La sapienza di Salomone mancava della potenza per renderla efficace a vita eterna e perciò la genuina vita pattizia mancava del suo vero fondamento. La solenne confessione di Pietro riassume il proposito trascendente di Gesù nella storia della redenzione — “Signore, da chi ce n’andremo? Tu hai parole di vita eterna” (v. 68). Dobbiamo vedere che la sapienza di Dio ha il suo culmine in Cristo il quale annuncia: “Io sono la resurrezione e la vita; chiunque crede in me, anche se fosse morto, vivrà. E chiunque vive e crede in me non morrà mai in eterno” (Gv. 11:25-26). Gesù collega chiaramente la sapienza alla sua propria persona in un modo che Salomone non avrebbe potuto. Allo stesso tempo, egli rende effettivo per le nazioni ciò che Salomone non avrebbe nemmeno potuto pensare riguardo a se stesso. Anziché negare la sapienza di Salomone, Gesù la assume nella sua persona.

Più ancora di questo, Gesù reclama il diritto incontestabile di dettare i termini del programma di civilizzazione che quel precedente Salomone con la sua sapienza aveva cercato di promuovere. Come menzionato precedentemente, la sapienza di Salomone non fu intesa solamente per suo beneficio privato, ma fu data per forgiare le basi costruttive del patto e del regno di Dio. Avendo un’applicazione più che meramente personale o pietistica, la sapienza Salomonica conteneva i necessari principi per una civilizzazione florida e prosperosa. Possiamo dire che il suo maestoso proposito era di promuovere una cultura biblica completa e una prospettiva totale sulla vita per il popolo pattizio di Dio, Israele. È un tragico malinteso del tempo presente, da parte di così tante persone nella chiesa, il pensare che Gesù avesse in mente un obbiettivo minore di questo. Al contrario! potremmo persino insistere con perfetta giustezza che Gesù intende realizzare pienamente quello stesso progetto di civilizzazione che Salomone precedentemente cercò di realizzare, ma che in realtà poté solamente prefigurare. A questo riguardo, Gesù non introduce un qualche “nuovo” ideale di civilizzazione quando afferma di rimpiazzare il Salomone storico; ma anzi egli si aspetta di realizzare ciò che Dio aveva voluto fin dal principio. Di fatto, egli raggiungerà il successo totale laddove il primo Salomone avrebbe al massimo potuto avere un successo parziale.

Forse nessun passo delle Scritture manifesta questa verità più di quanto faccia la parabola del costruttore saggio e di quello stolto in Matteo 7:24-27. Qui Gesù rende perfettamente chiaro che la sua parola e l’obbedienza alla sua parola fanno la differenza basilare tra l’attività costruttiva che è saggia e quella che è stolta. Pertanto leggiamo: “Perciò chiunque ode queste mie parole e le mette in pratica, io lo paragono ad un uomo avveduto, che ha edificato la sua casa sopra la roccia” (v. 24). dall’altro lato: “Chiunque invece ode queste mie parole e non le mette in pratica, sarà paragonato ad un uomo stolto, che ha edificato la sua casa sulla sabbia” (v. 26). Perché, Gesù dice, verrà un uragano — l’uragano del giudizio di Dio sull’opera di ogni uomo — e ogni casa (vita) che non è solidamente fondata sarà completamente distrutta. “Cadde poi la pioggia, vennero le inondazioni, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa; essa crollò e la sua rovina fu grande” (v. 27).

Tutti gli uomini cercano di realizzare qualche forma di civilizzazione — questo è ciò che l’attività di costruzione della casa implica. La domanda è: su quale fondamento la stanno costruendo? L’uomo costruisce o nei termini dei principi religiosi alla radice del regno dell’uomo, o lavora sullo stabile fondamento del regno di Dio. Gesù fa della risposta alla sua parola autoritativa il solo punto di partenza per entrambi 4. L’adesione alla sua parola è l’unico criterio che determina chi sia veramente saggio. Ma ancor più sul punto, quando Gesù fa dell’obbedienza alla sua parola il criterio, egli non intende che la sua parola sia adesso qualcosa di diverso da ciò che Dio ha detto in precedenza. Anzi, egli indica che la sua parola e la parola di Dio sono una e la stessa. L’obbedienza alla legge di Dio adesso è vista come obbedienza a Gesù e viceversa. Gesù non nega la parola-legge di Dio, ma la unisce alla sua persona. Gesù pone se stesso e la sua parola al centro di un completo programma di civilizzazione. Perfino la sapienza di Salomone deve ora essere compresa alla luce di Gesù. Quando leggiamo ulteriormente nel Nuovo Testamento scopriamo il contrasto che Paolo fa tra “la sapienza di Dio nascosta nel mistero, che Dio ha preordinato prima del mondo” e ciò che definisce la “sapienza di questo mondo e dei dominatori di questo mondo che sono ridotti al nulla” (v.6). Nella mente di Paolo, quest’ultima sapienza — la sapienza umanistica — è realmente follia perché è una sapienza di morte “per quelli che periscono …” (1 Co. 1:18). Eppure, ironicamente, nella sapienza di quelli che periscono è la sapienza di Dio, fondata sulla croce di Cristo, ad essere considerata come follia. In altre parole, una chiara antitesi esiste tra la prospettiva del peccatore e la comprensione che è gratuitamente data a quelli che hanno la mente dello Spirito. “L’uomo naturale (senza lo Spirito) non riceve le cose dello Spirito di Dio, perché sono follia per lui e non le può conoscere, poiché si giudicano spiritualmente (cioè per mezzo dello Spirito)” (2:14). Chiaramente Paolo vuole significare che al mondo esistono solo due tipi di sapienza corrispondenti a due tipi di uomini: la sapienza di Dio in Cristo “Cristo Gesù il quale da Dio è stato fatto per noi sapienza” (1:30) o la cosiddetta sapienza dell’uomo che si pretenderebbe autonomo che auto-consapevolmente disprezza la sapienza di Dio e desidera solo una sapienza che glorifica l’uomo. Con la piena manifestazione della “Sapienza di Cristo” l’opposizione tra i principi e i valori che caratterizzano il regno di Dio e quelli che caratterizzano il regno dell’uomo si delinea sempre più chiaramente. È necessario sottolineare questo punto perché influenza il modo in cui leggiamo il libro dell’Ecclesiaste.

Due pensieri circa la sapienza umanistica di cui si parla in questa porzione delle Scritture hanno bisogno d’essere messi in risalto. Primo, Paolo menziona che la sapienza di questo mondo è la sapienza dei “dominatori” di questo mondo, poiché nei contenuti l’ideale della sapienza che oppone Cristo edifica civilizzazioni. Non è semplicemente personale.

“Dominatori” fa riferimento a tutti quelli che cercano di esercitare il potere in qualsiasi senso — ma certamente nel senso politico — in modo da modellare una cultura che rifletta gli obbiettivi in cui credono. essi hanno in mente una struttura totale di civilizzazione come prodotto della sapienza che rappresentano. Ad ogni modo, Paolo non intende suggerire che la sapienza di Dio, in contrasto, non rappresenti un proposito di civilizzazione. Al contrario! Il punto del suo paragone è interamente volto ad enfatizzare che la sapienza di Dio, per mezzo della quale Egli rende folle la sapienza del mondo, di fatto appoggia la realizzazione di un definito tipo di civilizzazione. Secondo, Paolo dichiara che l’ideale di sapienza dei dominatori di questo mondo è storicamente quello dei Greci: “I Greci cercano sapienza” (1:22). Nell’ultimo capitolo, abbiamo osservato che le grandi civilizzazioni dell’Egitto e della Mesopotamia offrirono un programma di sapienza umanistica in contrasto con quello propugnato da Salomone. Dobbiamo comprendere che, Paolo dice che all’avvento di Cristo, il mantello di questi antichi punti di vista pagani era stato passato ai Greci. Infatti, saranno i Greci a porre un accento maggiormente centrato sull’uomo sugli ideali che l’uomo caduto ha sostenuto dal tempo della sua espulsione dal giardino. Allo stesso tempo sono proprio loro che daranno una più ampia giustificazione intellettuale ai principi del regno dell’uomo. A partire dagli ideali umanistici avviati dai Greci l’uomo crescerà nei termini della sua ostilità verso Dio. Quell’antagonismo prenderà la forma di una crescente auto-consapevole opposizione a Cristo e alla sua chiesa. Fin dai tempi di Cristo possiamo rintracciare nel corso della storia dell’occidente gli sviluppi dei principi enunciati dai greci e vedere apertamente che l’uomo umanistico fino al giorno d’oggi ripone la sua speranza per la civilizzazione nei termini di quei principi.

Note:

1 H. N. Ridderbos, Mattew: The Bible Student Commentary, trad. di Ray Togtman, (Grand Rapids: Zondervan Publishing House, 1987), pp. 246-247.
2 Ethelbert Stauffer: Christ and the Caesars, trad. da K. e R. Gregor Smith; Philadelphia: Westminster Press, 1955, p. 36.
3 Stauffer: Christ and the Caesars, p. 39. 4 Ridderbos: Mattew, p. 155.


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