Parte II     Il Testo

IV

Prologo: La radice del Problema 1:1-11

 

Tra i moderni commentatori del libro dell’Ecclesiaste, difficilmente se ne trova uno che ne abbia compreso il significato all’interno della sua struttura Biblica- pattizia. Quasi tutti hanno considerato i suoi pensieri come elucubrazioni fatte da un uomo sulla logica delle “situazioni umane in quanto tali”. Semmai, il suo pensiero è dipinto come l’inevitabile pessimistica conclusione di uno costretto ad osservare che la vita dell’uomo è circoscritta da un’inspiegabile necessità, che le circostanze che sono presenti nella comune esperienza umana alla fine dipendono dall’enigmatica volontà di un Deus Absconditus, un dio nascosto che rifiuta di permettere all’uomo qualsiasi conoscenza del significato della sua vita e la ragione per gli eventi, e che arbitrariamente lo carica del peso di mortalità e finitudine. Se nel libro si può trovare qualcosa di positivo questo viene cancellato via dalle riflessioni negative che lo pervadono. Ciò che vi viene detto riguarda tutti gli uomini in generale: l’uomo è un mero essere umano e niente di più. Non viene riconosciuta l’esistenza di alcuna distinzione tra “osservanti del patto” e “trasgressori del patto”; tra i giusti e i malvagi, tra il regno di Dio e il popolo e il regno dell’uomo. I pensieri dell’autore sugli uomini mancano di qualsiasi concezione di una fondamentale differenza “religiosa” tra di essi. Nella sua umile opinione (non sta parlando “dogmaticamente”) l’uomo è lasciato a trarre il meglio dalla propria situazione e alla fine deve soccombere alla finale assenza di significato della propria esistenza e delle proprie circostanze. Il libro non proferisce alcuna speranza duratura, nessun fermo fondamento su cui costruire la vita e affrontare il futuro, né per il breve termine né in senso finale. Se ci sia qualche “vangelo” da sperare, bisognerà trovarlo solo abbandonando del tutto il libro (se si abbia quantomeno un pizzico di sensibilità cristiana) e volgendosi alle dolci parole di Gesù che si trovano nel Nuovo Testamento. Una pia fiducia in Gesù può da sola salvarci dal peso dell’insignificanza e della vanità che è inevitabilmente nostro in questa vita. Eppure, la fede in Gesù non elimina il problema: consente meramente ad una persona di ottenere qualche sorta di consolazione emotiva malgrado il persistere del problema.

Per la maggioranza dei commentatori Ecclesiaste non è “parole di Dio”; è una composizione puramente umana, non dissimile, almeno non in modo cospicuo, dal quelle che si trovano comunemente diffuse nel mondo antico. La caratteristica più persistente nell’interpretazione globale del libro è l’evitare risolutamente di menzionare il “peccato” quale causa alla radice del problema dell’uomo. E qui non abbiamo in mente “manchevolezze morali personali”, il che sarebbe accettabile senza difficoltà; intendiamo invece la trasgressione del patto di Adamo nel Giardino che risponde per la corruzione e la ribellione di tutta la razza. Inoltre, non è fatta neppure remotamente menzione del giusto giudizio di Dio su tale volontaria disubbidienza, né del suo aver stabilito un Patto di Redenzione che comportava la promessa di una completa liberazione dalla maledizione e dalle sue conseguenze. Peggio ancora, si vorrebbe sostenere che l’autore di Ecclesiaste non avesse in mente tali pensieri. Piuttosto, per quanto lo concerneva, il problema della vita dell’uomo risiede semplicemente nella sua finitudine. È l’esistenza dell’uomo come creatura, non come peccatore, che provoca la dichiarazione di futilità e di mancanza di significato. Come ha affermato un commentatore recente: “La mente dell’uomo è per propria natura finita … il suo creatore gli ha deliberatamente negato … la capacità di scoprire qualsiasi principio che spieghi perché le cose accadono come accadono … questa ignoranza [enfasi mia] è una della cause basilari della frustrazione umana in generale”[1].

La causa principale del problema dell’uomo, dunque, è l’ignoranza che lo circonda e per la quale, si può notare, non è responsabile. Dio è da biasimare per aver creato l’uomo perché vivesse nella frustrazione fin dal principio. Egli rifiutò di concedere all’uomo qualsiasi conoscenza del perché delle cose. Whybry non può ammettere che il messaggio di Ecclesiaste debba essere studiato alla luce di tutta la Scrittura. L’unità della parola di Dio non fa parte della sua interpretazione. Di conseguenza egli prende le parole dell’autore del libro al loro valore nominale. Non si può fare nessuna menzione della maledizione di Dio sull’uomo come punizione per la sua ribellione. Come coi pensatori umanisti in genere, egli può dire solo che è perché l’uomo è meno che Dio che la sua vita è soggetta a inevitabile vanità e assenza di significato.

Persino un espositore della bibbia affidabile come H.C. Leupold, il quale almeno accettò l’autorità dell’ispirazione divina del libro, non potè trovare altro nel contenuto del suo messaggio se non che il suo scopo era “Persuadere gli uomini a non porre indebita fiducia nei tesori del mondo”[2]. Egli si mostra riluttante a dire in cosa gli uomini dovrebbero riporre la loro fiducia. Al massimo, la vita è tale che per procedere meglio possibile, l’uomo deve abbandonarsi alle vie misteriose di Dio. Farlo richiede alcuni requisiti negativi, vale a dire, che sia evitato ogni “formalismo, malcontento, tentativo di risolvere ciò che risiede al di là della nostra comprensione … e cose simili”[3]. Lo scopo del libro è ricordare all’uomo che è una mera creatura la cui vita è un’affare casuale nella migliore delle ipotesi e nella peggiore una tensione non alleviata. Se è sbattuto di qua e di là, l’uomo può stare certo che è Dio a produrre le mareggiate, ma più di questo non può e non ha bisogno di sapere.

Un terzo commentatore vede nel libro un proposito leggermente diverso. Fu inteso a contrastare le alte pretese dell’uomo nei confronti di se stesso e della propria sapienza; fu un attacco all’arroganza dell’uomo, come la reazione degli dèi greci che quando gli uomini perdevano il senso della loro collocazione nello schema delle cose, agivano con vendetta per riportare l’uomo alla sua dimensione e per rammentargli che la mortalità era il suo destino eterno.

Pertanto, il libro serve a rammentare all’uomo, che quale che sia la conoscenza che possa giungere a possedere, egli non può mai pretendere d’essere un “sistema auto-sufficiente”[4]. Non potrà mai pretendere di dire alcunché con certezza e convinzione. L’uomo non può mai dire d’avere la risposta finale all’enigma della vita.

Specialmente, non deve mai assumere di poter dire alcunché di definitivo riguardo a Dio e alle sue vie, perché “Dio e le sue azioni non sono mai prigioniere di forme definite …” Dio eluderà sempre i nostri tentativi di comprenderlo. Sembrerebbe che Egli non abbia mai pronunciato una chiara parola di rivelazione che l’uomo possa credere e conoscere con reale fiducia. Nessuna interpretazione finale di Dio e della sua volontà è concessa all’uomo che deve rimanere aperto a nuove prospettive e intuizioni. Siamo destinati ad essere costantemente alla ricerca della conoscenza ma mai ad averla realmente. L’Ecclesiaste rappresenta una protesta contro tutti i sistemi di verità chiusi; contrasta l’uomo nel suo tentativo di conoscere al di là di ciò che gli è permesso. Nessun uomo, nessun gruppo, neppure la chiesa — ha tutte le risposte. L’umanità possiede molte voci, e insieme esse possono provvedere, nella migliore delle ipotesi, un’intuizione parziale. La voce di chi osserva il patto non ha vantaggi su quella di chi lo trasgredisce. Ciò che Ecclesiaste insegna è che la vita in ultima analisi non ha una chiara spiegazione; esibisce meramente delle tendenze osservabili e permette utili prospettive temporanee.

Noi, da parte nostra, insisteremo che le parole del Predicatore [5] sono radicate nel patto, che egli intende parlare dal punto di vista della sapienza Salomonica [6] che è il punto di vista biblico nella sua interezza com’egli lo comprendeva.

Il suo scopo è annunciare questo pensiero in 1:1. I commentatori vorrebbero spiegare questo primo verso come un’addizione di un’edizione successiva. Lo fanno da pura speculazione. È possibile mantenere questo punto di vista fintantoché si accetti che l’Ecclesiaste non possegga alcun messaggio biblico. Ma 1:1 è l’annuncio della prospettiva del Predicatore, la piattaforma da cui partiranno tutti i suoi pensieri. È la sua rivendicazione di stare parlando come un discepolo di Salomone ispirato da Dio, molto simile a quanto Paolo fu un ispirato discepolo di Cristo. È dire che tutto ciò che segue è strutturato dalla prospettiva pattizia salomonica che abbiamo delineato nella Parte I. Conseguentemente, tutto ciò ch’è contenuto in quella prospettiva sarà o dichiarato esplicitamente, o inteso implicitamente dappertutto. Questo include la promessa ad Abrahamo, le leggi di Mosè, e tutto ciò che attiene alla differenza tra Israele e le nazioni. Soprattutto, significherà che il Predicatore vedrà il peccato e le sue conseguenze come la radice del problema, non il fatto che l’uomo sia un essere finito. Questo, il problema più basilare dell’uomo, coinvolge la creazione nella sua totalità. L’uomo deve essere portato a vedere che una soluzione al suo problema coinvolge il totale rinnovamento della creazione. L’uomo vive sotto una maledizione che si ripercuote sulla sua vita in ogni senso. Quando il Predicatore asserisce di parlare come discepolo di Salomone sta dicendo che la risposta risiede nel programma redentivo di Dio. Senza questo tutta la vita dell’uomo è vanità e correre dietro al vento.

Nel parlare dal punto di vista salomonico il Predicatore insiste che, primo, il problema fondamentale della vita dell’uomo non può essere rimosso dal potere dell’uomo stesso. Questo è il proposito del tono negativo del suo messaggio. Desidera acclarare la totale inabilità dell’uomo di liberarsi dal pesante fardello sotto il quale vive. È un attacco a tutti gli ideali di sapienza dell’uomo umanistico, ovvero l’uomo nella sua auto-proclamata autonomia dal Dio vivente e vero. Evidenziando la vanità di tutte le cose, egli insegna che la soluzione al problema dell’uomo è da trovarsi solamente nel Dio del patto, che gli ideali pagani nei quali l’uomo crede sono privi del più minimo effetto nel cambiare la sua situazione. È vano guardare all’uomo. Secondo, il problema dell’uomo non è meramente personale, ma è di portata creazionale. Ne consegue che la soluzione al suo problema deve includere un totale rinnovamento della creazione. Terzo, il suo messaggio contiene un programma completo di civilizzazione. La liberazione di cui l’uomo ha bisogno deve collocarlo su un nuovo corso di vita nella creazione di Dio, un corso che deve essere diretto dalla legge di Dio (12:13). In nessun punto il libro offre come risposta al problema dell’uomo una fuga dalla creazione di Dio e dal proposito di Dio per l’uomo in essa.

In 1:2 è gridata a gran voce la proclamazione del problema dell’uomo, poiché indubbiamente il Predicatore intende sottolineare qui e lungo tutto il libro la centralità di quello che è il problema più fondamentale dell’uomo. Nulla gli può essere paragonato; nulla gli è commensurabile quale principale preoccupazione dell’uomo. Quando, perciò, esclama aspramente: “Vanità delle vanità, tutto è vanità!” Il Predicatore ha in mente la condizione dell’uomo com’è ora, non perché l’uomo sia un essere finito, ma perché è un essere decaduto. I suoi pensieri non sono né il prodotto di riflessioni filosofiche né di disperazione nichilista. Egli conosce la ragione per la vanità che grava sulla vita e l’esperienza dell’uomo: è la maledizione di Dio. Di conseguenza, la situazione in cui l’uomo ora si trova non è il risultato delle azioni impersonali della natura, ma dell’azione personale di Dio contro di lui. È il risultato del giudizio, non uno sviluppo naturale.

Poiché questo pronunciamento è fatto con una tale smisurata veemenza qualcuno pensa che costituisca il tema del libro. Ma in sé forma al massimo un mero sotto-tema. Per avere un qualche senso deve essere combinato con la seconda metà di 1:13. Solo allora entra nell’idea centrale del libro che toccheremo nel prossimo capitolo. Nel frattempo deve essere chiaramente compreso che, mentre le considerazioni del Predicatore si concentrano sulla questione più basilare che concerne l’uomo, egli si dissocia da tutte le prospettive che sostengono che la presente condizione dell’uomo sia del tutto normale. L’intero suo proposito è d’enfatizzare che la vita dell’uomo s’incardina soprattutto sulla sua relazione col suo Creatore e Redentore. Inoltre, l’uso dell’assoluto (“tutto è vanità”) è inteso a sottolineare l’idea non c’è area della vita dell’uomo, non c’è aspetto della sua esistenza che sfugga da questo peso sotto cui vive. È un problema totale e richiede una soluzione totale.

Se il Predicatore non dichiarò enfaticamente che era la maledizione a rendere conto per la vanità di tutte le cose, era perché diede per scontato che chi l’ascoltava lo comprendesse già. Poiché mentre parla della situazione di tutti gli uomini in generale, e indirizza i suoi pensieri specificamente alla fiducia in sé dell’uomo umanista, pur tuttavia i suoi commenti sono indirizzati ai figli pattizi d’Israele. Le sue parole furono pronunciate in un tempo in cui al popolo di Dio si stava offrendo una grande tentazione d’abbandonare il patto e adottare gl’ideali e le pratiche del mondo. Il suo scopo è di ricordare ai suoi ascoltatori che allontanarsi dal patto è invitare su di loro lo schiacciante peso della maledizione senza alcuna speranza — che è diventato la sorte dei trasgressori del patto. A questo punto della storia della redenzione il vero Israele era stato ridotto di significato rispetto alle culture che lo circondavano, Avrebbe potuto pensare che il patto di Dio con lui non avesse più importanza. La nazioni credevano nell’Uomo. Israele doveva ricordasi che è con Dio che dobbiamo fare i conti.

1:3 attira l’attenzione sul reale interesse del Predicatore che scaturiva dalla maledizione e il problema delle sue conseguenze. Ha a che vedere con l’uomo, non l’uomo come semplicemente un’ordinaria creatura nel mondo, ma l’uomo in termini della sua creazione ad immagine di Dio e la sua sublime vocazione d’avere dominio sotto Dio. Il Predicatore comprende perfettamente il ruolo inteso per l’uomo nella creazione. Sa perfettamente bene che l’uomo fu creato e dotato per essere lo speciale servitore e compagno di Dio nel compito d’edificare il regno di Dio e di trasformare la terra in modo che le sue caratteristiche raffigurassero permanentemente la gloria di Dio. “Sotto il sole” fa riferimento tanto al luogo ove Dio ha posto l’uomo a dimorare quanto all’estensione del reame che era inteso trasformasse da parte di Dio. Per implicazione indica anche il luogo ove la maledizione di Dio fa il suo danno maggiore. L’uomo era stato creato per “lavorare”, per faticare; e il suo lavoro avrebbe dovuto conseguire sempiterni risultati. Ora, a motivo del peccato, tutta la sua fatica non può conseguire niente di durevole. Tutti i suoi sforzi alla fine decompongono. Non riceve frutti durevoli dalla sua fatica. Nel tempo interviene la morte e lo toglie del tutto da “sotto il sole”. L’uomo non possiede in sé risorse per rimediare a questo fatto basilare riguardo a se stesso e alla sua attività nel mondo.

Il Predicatore non sta parlando semplicemente di “guadagnarsi da vivere”. La fatica che ha in mente era l’opera di conseguire la vita eterna e il riposo che Dio diede originariamente da compiere ad Adamo. Il pensiero è che l’uomo è destinato a fallire in quello sforzo a meno che Dio non intervenga in suo favore e, con la potenza della sua grazia, renda l’uomo capace di conseguire ciò che diversamente non poteva neppure sperare di fare. Ci rendiamo conto ben poco che lungo tutta la storia gli sforzi dell’uomo per costruire culture e civilizzazioni sono stati pervasi dall’obbiettivo religioso di conseguire la vita eterna. Il Predicatore ci avverte che tutti tali sforzi da parte dell’uomo sono irraggiungibili fintantoché non faccia i conti con la radice del suo problema. L’uomo crede implicitamente che la natura (cioè la creazione) possa essere piegata alle sue voglie. Il Predicatore dice che la maledizione di Dio è più potente della natura. È una negativa indicazione che la speranza dell’uomo risiede solo nella potenza di Dio. È il modo in cui il Predicatore rompe con tutte le prospettive religiose cosmiche e asserisce che Dio e la natura non sono da identificarsi l’uno con l’altra.

Nei versi 4-11 il Predicatore indirizza i nostri pensieri ai reami di natura e storia quali arena dell’esperienza dell’uomo. Entrambi sono promemoria simbolici che l’attività dell’uomo non giunge a risultati permanenti ma è intrappolata in un ciclo di ripetizioni e futilità. I versi 4-7 specialmente insegnano una poderosa lezione dalla natura. Una generazione va e una generazione viene; il sole sorge e poi tramonta; il vento soffia da una direzione e poi da un’altra; l’acqua va verso il mare, ma il mare non si riempie mai, ma restituisce la propria acqua all’atmosfera solo per ricominciare di nuovo il procedimento. Tutte queste attività sono eventi sui quali l’uomo non ha controllo. Gli è ricordato che la sua stessa vita non è in suo potere. Il reame della natura non si piega al suo desiderio di creare qualcosa di valore veramente duraturo. Tutto ciò che continua è un’incessante ripetizione. L’uomo non può guardare alla natura per scoprire vita eterna.

Infine, nei versi 8-11 il Predicatore riflette sul mondo dell’umanità in particolare; infatti il suo interesse principale è per come la maledizione colpisca, come abbiamo detto, le fatiche dell’uomo. Questi versi evidenziano un preoccupante paradosso: l’uomo continua a faticare e a sperare in risultati permanenti dai suoi sforzi, tuttavia manca o di riconoscere o di ammettere che tutte le sue imprese sono, come la natura, intrappolate in un ciclo senza fine. Malgrado tutti i suoi sforzi l’uomo in realtà non giunge mai da nessuna parte, ma compie ripetutamente gli stessi tentativi per farlo. 1:8 specialmente indica la confidenza che gli uomini mantengono risolutamente riguardo ai loro ideali e obbiettivi per la cultura e la civilizzazione. Loader è senza dubbio corretto nel tradurre questo verso non con “Tutte le cose richiedono fatica”, ma con “tutte le parole sono piene di fatica”[7]. Questo ci rammenta che il Predicatore, in quanto discepolo della sapienza salomonica, intende fare il punto sulla futilità della sapienza umanistica. Gli uomini rifiutano di fare i conti con Dio e le sue azioni e così continuano a credere di essere in possesso di una vera spiegazione della vita e del suo scopo. Le loro “parole” sputano costantemente sentenze per dirigere e guidare gli uomini nel conseguimento della vera buona vita. In nessun altro ambito l’uomo fatica con maggiore energia che nella promozione dei suoi valori e della sua visione per la società perfetta. I suoi occhi e le sue orecchie sono sempre ingaggiati nella ricerca d’imparare con l’aspettativa che sbloccherà il segreto di come penetrare nel ciclo della natura e del tempo e sarà in grado di realizzare per l’umanità intera una condizione permanente ed eterna. Questo obbiettivo dell’uomo umanistico è sempre rimasto lo stesso. Non c’è realmente niente di “nuovo” in questo aspetto.

Perciò, quando il Predicatore chiede retoricamente in 1:10 se ci sia qualcosa che l’uomo faccia che possa chiamare “nuovo” (cioè permanente), intende dire che la storia dimostra diversamente. Egli conclude che gli uomini non imparano veramente dalla storia come Dio intese facessero. Gli uomini mancano persistentemente di riconoscere che gl’ideali di sapienza del presente sono gli stessi del passato. Non conclusero nulla allora, né lo faranno ora. Gli uomini semplicemente scelgono d’ignorare questo fatto, com’egli indica in 1:11. Peraltro, il futuro non sarà diverso. Nell’antichità l’uomo credeva di poter prescindere dalla storia perché non voleva fare i conti col mutamento. Era qualcosa che gli ricordava la propria transitorietà. L’uomo ha sempre voluto fermare la storia per poter introdurre uno stato finale delle cose. Il reale problema è che non vuole fare i conti col Dio della storia.

In questi versetti d’apertura che abbiamo definito il Prologo, il Predicatore detta il tono per tutto ciò che intende dire di qui in poi. L’umore è cupo ma non è di disperazione. Se i suoi pensieri sembrano negativi è solo perché desidera attirare l’attenzione anche al messaggio positivo che esprimerà. Nella natura e nel mondo umano l’uomo non può trovare nulla che salvi lui e i suoi sforzi dal peso sotto cui il suo peccato lo ha collocato. Deve essere confrontato con la totale futilità dei suoi ideali di sapienza se vuole scoprire qualche “parola” di sapienza che lo conduca alla vita eterna. Nel Dio del patto può essere trovata la liberazione da “Tutto è vanità!”

Note:

1 R.N. Whybray: Ecclasiastes: The New Century Bible Commentary; Grand Rapids: Wm.B. Eerdman’s Publ. Co., 1989, p. 26.
2 H.C. Leupold, Exposition of Ecclesiastes, (Grand Rapids: Baker Book House, 1952), pp. 19f.
3 H.C. Leupold, Exposition of Ecclesiastes, p. 18.
4 J. A. Loader: Ecclesiastes, trad. di John Vriend; Grand Rapids: William B. Eerdmans Publishing Company, 1986, p. 14.
5 “Predicatore” traduce la parola Qoheleth. Una lettura alternativa accettabile sarebbe “Insegnante” poiché lo scrittore non è un predicatore nel nostro senso del termine.
6 L’autore del libro non è Salomone, né il libro fu scritto al tempo di Salomone: è post-esilico. Per una discussione di autore e datazione del libro si vedano i comment introduttori di Whybray e Loader. Comunque, mentre Salomone non scrisse il libro, esso nondimeno è “salomonico” nel contenuto. Ciò implica ulteriormente che nel senso ultimo è Cristo a parlare nel libro.
7 Loader, Ecclesiates, p. 21, 22.


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