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LEGGE E POLITICA NEL NUOVO TESTAMENTO
“Se non è riconosciuta alcuna legge divina al di sopra della legge dello stato, la legge dell’uomo è diventata assoluta agli occhi degli uomini — a quel punto non esiste barriera logica al totalitarismo.”
Gli anni recenti hanno portato tra gli evangelicali e i cristiani riformati un rinnovato interesse per un’attitudine e un approccio distintamente cristiani a tutti gli ambiti di vita e di comportamento, inclusa l’etica sociopolitica. Perciò ci siamo chiesti quale debba essere lo standard di quella prospettiva peculiare per un cristiano che crede la bibbia. Nel Vecchio Testamento è evidente che il popolo eletto di Dio, Israele, doveva governare la propria attività politica secondo la legge di Dio rivelata che era stata data per mezzo di Mosè e spiegata dai profeti. Dal nostro esame è risultato che anche le nazioni Gentili circostanti Israele furono tenute da Dio responsabili per l’obbedienza alla sua legge nell’epoca del Vecchio Testamento. La legge di Dio toccava tutti gli aspetti della vita, inclusa la giustizia penale, e quella legge non fu presentata dal Legislatore come uno standard razziale o tribale di giusto e sbagliato. Era lo standard universale ed eterno di giustizia nei rapporti umani, dato da Dio.
In un senso, abbiamo già dato una risposta implicita alla nostra domanda circa lo standard per una prospettiva distintamente cristiana sull’etica politica. Dio ha trattato di questioni di giustizia sociale e di politica pubblica nei confronti del crimine nella sua legge. Esiste un punto di vista divino sulla politica ed è stato espresso nella legge del Vecchio Testamento. Di quella legge si devono dire due cose. Primo, essa continua ad essere oggi il generale standard etico di condotta secondo la Scrittura — come abbiamo visto e rivisto molte volte nei capitoli precedenti. Secondo, la legge del Vecchio Testamento non aveva una validità morale ristretta alla razza ebraica. Intese essere lo standard di condotta sia al di fuori che all’interno della comunità redenta. Di conseguenza, se la legge di Dio del Vecchio Testamento esprime (tra le altre cose) come Dio intende la moralità politica, e se quella legge ha validità universale e permanente, dovremmo aspettarci che la prospettiva del Nuovo Testamento su legge e politica affermi similmente lo standard della legge di Dio per la politica pubblica. Differenze di tempo e luogo, differenze di dispensazione e razza, differenze di cultura e status redentivo non richiedono o implicano differenze di standard morale.
Ci aspetteremmo quindi che un approccio all’etica politica distintamente cristiano sia definito dall’intera parola di Dio, inclusiva della legge di Dio rivelata per mezzo di Mosè e spiegata dai profeti nel Vecchio Testamento. Quando andiamo a studiare gli stessi scritti del Nuovo Testamento su questa questione, troviamo che è precisamente così. C’è un’evidente continuità tra l’etica politica del Nuovo Testamento e l’etica politica del Vecchio Testamento. C’è totale armonia tra ciò che Paolo dice dello stato, per esempio in Romani 13, e ciò che troviamo insegnato nel Vecchio Testamento e cioè:
Proprio questi punti, fatti dal Vecchio Testamento con riferimento ad entrambi i magistrati civili Giudei e Gentili (redenti e non redenti), sono espressi ardentemente da Paolo in Romani 13:1-6. Sono i presupposti su cui può e deve essere formulata un’attitudine distintamente cristiana nei confronti della giustizia pubblica.
Romani 13
Se i tre punti tracciati sopra sono presi seriamente uno per uno, allora potremo forse evitare di cadere negli sfortunati eccessi di due approcci interpretativi conflittuali all’insegnamento di Romani 13 sullo stato. Da un lato abbiamo interpreti della bibbia che contendono che Romani 13 debba essere letto descrittivamente, ponendo quindi un rilievo quasi esclusivo sull’esortazione pratica fatta da Paolo ai cristiani. Come dire che quando Paolo dice che il magistrato civile “è un ministro di Dio, un vendicatore con ira verso colui che fa il male” (v.4), alcuni interpreti assumono che Paolo stia dando una effettiva descrizione di tutti i governanti terreni nelle loro reali carattere e funzione. A questo punto tutti gli uomini di stato sarebbero descritti come ministri di Dio che vendicano la sua ira sugli elementi malvagi della società — indipendentemente dall’effettiva qualità e condotta del particolare governante che uno abbia in mente. Perfino Hitler e Idi Amin sarebbero descritti come genuini ministri di Dio. In quel caso, il succo pratico di Paolo in Romani 13 consisterebbe semplicemente nell’istruzione ai credenti che devono sottomettersi obbedientemente a qualunque magistrato Dio abbia collocato su di loro nella società (ovviamente con la riserva che non possono obbedire gli uomini se il governante umano ordina loro di disobbedire Dio: Atti 5:29).
Sull’altro versante abbiamo interpreti della bibbia che argomentano che Romani 13 debba essere letto prescrittivamente, enfatizzando quindi che Paolo stava dando lo standard morale per il magistrato civile indicando con ciò a quali regole il cristiano avrebbe dovuto dare una sottomessa obbedienza. Ciò significa che quando Paolo dice che il magistrato è “un ministro di Dio, un vendicatore con ira verso colui che fa il male” (v.4) alcuni interpreti lo vedono come dettare una prescrizione morale ai governanti civili —che dice loro cosa debbano essere. I magistrati devono essere ministri di Dio che vendicano la sua ira sui malfattori. Di conseguenza, l’approccio prescrittivo di Romani 13 non mette l’accento sulla sottomissione pratica da parte del credente, è piuttosto un giudizio di valore su tutti i magistrati, che mostra al cristiano quali di essi meritino la sua sottomissione e obbedienza. Ambedue queste interpretazioni di Romani 13 hanno teso a produrre conseguenze pratiche che sono molto chiaramente inaccettabili alla luce di ciò che il resto della Scrittura dice ai cristiani riguardo a moralità e a politica. Il punto di vista descrittivo di Romani 13 ha fatto sì che molti credenti nella storia passata fossero indifferenti a concreti mali politici al punto di adeguarsi passivamente alle ingiustizie di tiranni, come fecero con Hitler. Dall’altro versante, il punto di vista prescrittivo di Romani 13 ha spesso incoraggiato uno spirito ribelle nei confronti del magistrato civile, conducendo credenti a prendere alla leggera le ingiunzioni della bibbia contro rivoluzione o disobbedienza civile.
A difesa di ciascuno di questi due approcci si può dire che quelle conseguenza pratiche sono di fatto abusi delle rispettive visioni — abusi che non prendono in considerazione altri insegnamenti biblici, qualificazioni fatte, e l’intero contesto. Può essere così, ma se si tiene a mente il retroterra veterotestamentario delle istruzioni di Paolo riguardanti il magistrato civile in Romani 13, è possibile interpretare il passo in un modo tale che fa giustizia sia alla necessità che il cristiano resista l’ingiustizia politica sia all’obbligo cristiano di essere in sottomissione alle autorità che esistono.
Quando Paolo dice che le potenze al governo sono ministri di Dio che vendicano l’ira di Dio contro i malfattori, sta spiegando ciò che i magistrati debbano essere e simultaneamente sta spiegando perché i credenti debbano mantenere un atteggiamento di sottomissione verso i loro governanti. I tre punti delineati sopra dimostrano questo duplice ruolo esplicativo dell’insegnamento di Paolo riassumendo ciò che l’apostolo dice in Romani 13. Il cristiano non deve avere un’attitudine di ribellione nei confronti del magistrato civile perché il magistrato è ordinato da Dio. Ordinato a quale scopo, però? Ordinato per vendicare l’ira divina, nel cui caso il magistrato può essere investito di titoli religiosi tipo “ministro di Dio”.
Se è così, allora i governanti devono onorare i buoni cittadini e dissuadere dal male punendo gli elementi criminali nella società usando lo standard della legge di Dio come loro guida (quanto al bene e al male). Questo spiega perché i cristiani debbano essere quasi sempre in sottomissione al governante civile: quel governante nella sua capacità pubblica è obbligato a servire il Signore cristiano e pertanto la lealtà al Signore richiede la lealtà al re. Però, quando tale servizio sia ripudiato dal re (o alle altre autorità di governo) e la legge di Dio sia violentemente e persistentemente trasgredita talché i cittadini buoni sono terrorizzati dal governante e gli uomini malvagi sono tollerati o esaltati, il cristiano non deve adeguarsi alle politiche del tiranno ma piuttosto operare per una riforma nel nome del Signore e degli standard divini per la giustizia pubblica.
Il fatto che la legge di Dio sia vincolante per i magistrati civili odierni spiega sia perché i cristiani debbano evitare un’attitudine di ribellione nei confronti dei governanti, sia perché i cristiani non possano cooperare con regimi ingiusti. La sottomissione assoluta sotto qualsiasi e ogni circostanza, o l’assoluta indipendenza del magistrato in relazione a ciascuna e a ogni decisione che prende, potrà essere una posizione semplice da comprendere o da seguire, ma l’attitudine più complessa di una generale sottomissione per amore del Signore ma una resistenza quando la legge di Dio sia oltraggiosamente violata è più fedele all’insegnamento della Scrittura e più allineata alle realtà politiche. È quest’approccio bilanciato che Paolo presenta in Romani 13 e che è riassunto nei tre punti tracciati poco fa.
Romani 13:1-7 dichiara ciò che Dio richiede dai credenti nei confronti dei loro capi civili, e dichiara ciò che Dio richiede dai governanti riguardo alle loro funzioni civili. La sottomissione ai superiori è essenziale ad entrambe le dichiarazioni di dovere. Il Signore si aspetta che il suo popolo si sottometta obbedientemente ai suoi governanti perché si aspetta che questi governanti si sottomettano obbedientemente alla sua legge. Per motivo di coscienza, dunque, i cristiani si possono sottomettere alle loro autorità civili sapendo che indirettamente si stanno sottomettendo all’ordine morale di Dio stesso.
1. Poiché ordinati da Dio i governanti non devono essere resistiti
Paolo comincia con la generalizzazione che il governo civile è un’istituzione divina: “Non c’è autorità se non da Dio” (Ro. 13:1). Dio ha effettivamente “ordinato” le autorità che esistono. Ovviamente, perciò, la supremazia appartiene a Dio e non allo stato. Il rispetto per i governanti dello stato non deve mai raggiungere proporzioni tali che il credente dia allo stato quell’indiscutibile obbedienza che dovrebbe essere riservata a Dio solamente. Nella mente di Paolo è fondamentale il fatto che, anche se i cristiani sono sotto gli ordini dello stato, lo stato stesso è sotto gli ordini di Dio sopra di esso. Poiché Dio ha ordinato i magistrati che governano nello stato, questi magistrati non sono solo stati messi in autorità sopra altri, ma anche sotto l’autorità di Dio. I magistrati sono sotto l’obbligo morale delle prescrizioni del Signore. John Murray osservò:
Il magistrato civile non è solo il mezzo decretato nella provvidenza di Dio per la punizione dei malfattori ma lo strumento da Dio istituito, autorizzato e prescritto per il mantenimento dell’ordine e per la punizione dei criminali che violino quell’ordine. Quando il magistrato civile, mediante i suoi agenti esegua il giusto giudizio sul crimine, sta eseguendo non semplicemente la volontà decretale di Dio ma sta anche compiendo la volontà prescrittiva di Dio, e sarebbe per lui peccaminoso rifiutarsi di farlo [1].
Poiché tutti i magistrati civili non avrebbero potere se non fosse loro stato dato da alto — come dichiarò Cristo proprio mentre stava davanti a Pilato (Gv. 19:11) — essi sono responsabili di riverire e obbedire Dio Onnipotente. Quand’essi, come Erode, accettino la lode come un dio, cadono sotto la terribile ira di Dio e possono essere deposti: “Nel giorno stabilito Erode, vestito del manto regale e seduto sul trono, teneva loro un discorso. Il popolo lo acclamava, dicendo: ‘Voce di Dio e non di uomo!’. In quell’istante un angelo del Signore lo colpí, perché non aveva dato gloria a Dio; e morí roso dai vermi” (At. 12:21-23).
Lo scopo appropriato di ogni comportamento etico è la gloria di Dio, e i magistrati civili, essendo ordinati al governo da Dio, non sono esentati dall’obbligo morale di governare alla gloria di Dio. Quelli che sono ordinati da Dio renderanno conto a Dio per il tipo di governo che hanno reso nella società. Questa non è nient’altro che la dottrina del Vecchio Testamento sia che prendiamo in considerazione i governanti d’Israele sia quelli della nazioni Gentili circostanti Israele. L’insegnamento di Paolo è fondato nel Vecchio Testamento. Ambedue i Testamenti, Vecchio e Nuovo, dunque, cominciano la loro “filosofia dello stato” con la supremazia di Dio a cui tutti i governanti devono reverenza e obbedienza.
Sottomissione e preghiera
In quel contesto Paolo procede ad insistere che i governanti civili, in quanto ordinati da Dio, non devono essere resistiti. “Perciò chi resiste all’autorità, resiste all’ordine di Dio; e quelli che vi resistono attireranno su di sé la condanna” (Ro. 13:2). Il retroterra veterotestamentario di questa dichiarazione di Paolo è il commento migliore su questo verso. Dichiarazioni parallele si trovano anche nel Nuovo Testamento a Tito 3:1 (“Ricorda loro di essere sottomessi ai magistrati e alle autorità”) e in 1° Pietro 2:13 (“sottomettetevi dunque ad ogni autorità costituita”) Attraverso tutta la Scrittura vediamo che Dio non approva uno spirito ribelle, irrispettoso o disobbediente nei confronti di quelli che sono stati ordinati da Dio come nostri capi civili. L’onore deve essere dato a chiunque sia dovuto, dice Paolo (Ro. 13:7), e poiché la legge del Vecchio Testamento aveva stipulato “ Non bestemmierai DIO e non maledirai il principe del tuo popolo” (Es. 22:28), Paolo stesso dimostrò uno spirito di pentimento quando parlò (involontariamente) male di un governante (At. 23:5).
Ai credenti del Vecchio Testamento fu detto di pregare per i loro governanti gentili non credenti (Gr. 29:7; Ed. 6:10). Quando furono in cattività a Babilonia avrebbero dovuto ricercare la pace di Babilonia. Ciò sarebbe chiaramente stato in contrasto con un’attitudine di resistenza. Similmente, nel Nuovo Testamento, il popolo di Dio è esortato a pregare per i re e per tutti quelli che sono in autorità (1° Ti. 2:2), e Pietro scrive ai cristiani della “Dispersione” (1° Pi. 1:1) che stavano per affrontare l’imminente persecuzione da parte dell’alto comando Romano (1:6; 4:12; 5:13) che avrebbero dovuto imitare la pia forma di ricerca della pace che si trova nel Salmo 34:14 (1° Pi. 3:10-14). Continuamente troviamo una ben delineata continuità tra il Vecchio e il Nuovo Testamento riguardo all’etica politica. Qui quella continuità è evidente perché i santi sia sotto il Vecchio che sotto il Nuovo Patto dovevano rispettare i governanti civili in quanto ordinati da Dio, pregare per loro, e ricercare la pace all’interno delle loro società. Il popolo di Dio ha sempre avuto l’obbligo di sottomettersi ai propri magistrati sapendo che proprio quei governanti erano stati ordinati come parte del governo morale di Dio sulla creazione. Proprio perché il governante è collocato sotto l’autorità di Dio, quelli che professano fedeltà a Dio devono rispettare il governante. Non è semplicemente per opportunismo pragmatico che il cristiano obbedisce le autorità civili — “non solo per timore dell’ira” che possono esprimere contro i dissenzienti (Ro. 13:5a). Deve obbedire anche “per ragione di coscienza” (Ro. 13:5b). Vale a dire che il cristiano deve sottomettersi al governante per rispetto verso il Signore stesso che sta sopra al magistrato civile, suo rappresentante e nel farlo si sottomette al Governante supremo.
Coscienza
Dovrebbe essere ovvio, malgrado la miopia di alcuni commentatori, che la sottomissione data al magistrato civile deve essere nel contesto del ministrare a Dio del magistrato, poiché questa sottomissione è prescritta esplicitamente da Paolo per ragione di coscienza. Paolo usa frequentemente la parola ‘coscienza’ intendendo coscienza verso Dio (per esempio, At, 23:1; 2à Co. 4:2; 2° Ti. 1:3). “Dio solo è Signore della coscienza e perciò fare qualche cosa in coscienza, o per ragione di coscienza è farlo da un senso di obbligo nei confronti di Dio” (John Murray: Epistle to the Romans, vol 2, p. 154). Inoltre, Paolo qualifica sempre l’obbedienza che deve essere resa a uomini come obbedienza data per scopi pii — obbedienza resa nel contesto di sottomettersi prima e soprattutto alle richieste orali di Dio stesso.
Charles Hodge espresse questa comprensione:
In modo simile, Paolo impone tutti i doveri attinenti e sociali su basi religiose. I figli devono obbedire i loro genitori perché ciò è giusto agli occhi di Dio ; e i servi devono essere obbedienti ai loro padroni, come a Cristo, facendo la volontà di Dio dal cuore, Efesini 6.1, 5, 6 [2]
Questo è reso piuttosto chiaro in 1° Pietro 2:13, dove leggiamo “sottomettetevi dunque ad ogni autorità umana per amore del Signore”. Pertanto i credenti si sottomettono al magistrato civile per ragione di coscienza — che equivale a dire per amore del Signore — proprio perché il magistrato deve essere sottomesso al Signore, cercare la sua gloria e obbedire i suoi comandi.
La coscienza non può permettere uno spirito ribelle contro il governante ordinato dal Signore proprio come non può permettere l’adeguamento a dettami del governante che contrastino la legge del Signore. L’insegnamento di Paolo colloca sempre Cristo come Signore su tutto, proprio come nel primo comandamento del Decalogo.
La supremazia di Dio
Pertanto, la supremazia di Dio è la chiave per comprendere correttamente la visione dello stato avanzata da Paolo in Romani 13:1-7. Proprio come insegnato nel Vecchio Testamento, anche Paolo insegna che i credenti sono sotto l’obbligo categorico d’obbedire il magistrato civile perché l’Iddio Altissimo, che è supremo su tutti, ha ordinato il governo del magistrato. Proprio perché il governante è concepito essere sotto gli ordini di Dio che lo ha ordinato, il cristiano deve rispettare il governante come modo di esibire sottomissione sostanzialmente a Dio stesso. Poiché Dio è supremo su tutti e ha dato autorità a quelli che esercitano il governo nella società, tali magistrati civili non sono agenti autonomi, liberi di fare come vogliono e senza rendere conto a nessuno. Come rappresentanti di Dio devono servire i suoi propositi. Quando e se contrastano la volontà di Dio, agendo in modo peccaminoso e satanico con la loro forza bruta, la “coscienza del cristiano davanti al Signore” non li può assecondare.
Poiché il Signore è il Giudice supremo, il cristiano non deve resistere quelli che sono ordinati da Dio e ministrano per Lui. Per la stessa ragione, la sottomissione data dal cristiano ai governanti è qualificata dalla sua antecedente lealtà al Signore e dalla comprensione che la sottomissione allo stato è per amore del Signore, la cui volontà il magistrato deve perseguire.
2. Comportando titoli religiosi, i governanti erano vendicatori dell’ira divina.
La supremazia di Dio quale precondizionante assunto di Romani 13:1-7 diventa evidente nei titoli che Paolo dà ai governanti civili. Nell’Israele del Vecchio Testamento gli uomini dello stato furono a volte designati “sacerdoti” e perfino nelle nazioni Gentili attorno ad Israele i capi civili furono occasionalmente chiamati il “mio servo”, il “mio pastore”, e il “mio unto (Cristo)”. Questa tendenza a vedere i funzionari dello stato categorizzati come funzionari religiosi — qualcuno che deve rendere conto a Dio onnipotente — continua nel Nuovo Testamento , dimostrando ancora una volta la continuità che esiste tra il Vecchio e il Nuovo Testamento riguardo alle autorità che esistono.
L’idea di uno stato laico, uno che divorzi la propria autorità e il proprio standard da considerazioni religiose su Dio e sulla sua volontà, è completamente alieno alla rivelazione biblica. Di fatto, era alieno a molto del mondo antico in generale. Qualsiasi politica è l’espressione di un punto di vista morale, che a sua volta è l’elaborazione di un concetto teologico dell’uomo, del mondo e di Dio. Il mondo moderno non è diverso; le sue filosofie politiche sono simultaneamente teologie politiche, e i suoi governanti civili sono spesso visti in una luce religiosa (anche se il vocabolario religioso viene evitato).
Magistrati come ministri
Paolo, seguendo il Vecchio Testamento, aveva un concetto o comprensione religiosa del magistrato civile. In Romani 13 categorizza due volte il magistrato nella società come “ministro di Dio” (vv. 4, 6). Se chiedete oggi ad un cristiano qualunque dove si possa trovare un “ministro” di Dio vi indirizzerà al pastore della chiesa locale. Non penserà proprio di mandarvi dal magistrato perché si è arreso alla mentalità del laicismo umanista. Paolo non l’aveva fatto, malgrado gli imperatori romani del suo tempo fossero lungi dall’essere “religiosi” nel senso encomiabile del termine. Qualsiasi cosa i Cesari abbiano pensato di se stessi, Paolo pensava di loro come ministri di Dio. Erano gli strumenti prescritti da Dio per mantenere l’ordine e punire i malfattori secondo la volontà di Dio.
In Romani 13:6 Paolo usò il termine leiturgos per descrivere il magistrato civile come “ministro” di Dio. Nel mondo antico questo termine era usato per lavoro svolto per promuovere l’ordine sociale, lavoro svolto al servizio del divino-stato. Così Paolo usò il termine con una forzatura teologica. Il magistrato non è un ministro del divino-stato, ma anzi lo stato è il ministro di Dio stesso. Nella traduzione in greco del Vecchio Testamento (la Septuaginta) questo termine è usato per descrivere il ministero di angeli, sacerdoti e profeti — eppure è comunque usato similmente per la leadership civile.
In Romani 13:4 il termine che Paolo usa è diakonos, o diacono. Al di fuori del Nuovo Testamento il termine è usato nel titolo “diacono della città”, una funzione che puntava all’istruzione nel far diventare buoni cittadini. Dentro al Nuovo Testamento il termine è chiaramente caricato di connotazioni religiose, ed è applicato al “ministero” di Cristo (Mt. 20:28), di Paolo (1° Ti. 1:12) e di una funzione dentro la chiesa (At. 6:1-6). Proprio come ci sono diaconi all’interno della chiesa, Paolo dichiarò che ci sono diaconi nello stato: cioè, uomini che sono ordinati da Dio per amministrare la giustizia nel suo nome.
Con l’utilizzo di questi due termini per “ministro”, e acclarando che il governante è un ministro di Dio, Paolo insegna inequivocabilmente il carattere religioso della funzione del capo civile. Nella prospettiva del Nuovo Testamento, i magistrati devono essere considerati servi di Dio. Il suo governo è supremo e il loro governo è subordinato. I magistrati civili devono essere intesi come rappresentati di Dio stesso, non despoti liberi e indipendenti che possono fare semplicemente come loro aggrada.
Il ministero della spada
Cos’è che Dio richiede dai suoi “ministri” ordinati nello stato? Come devono rendergli servizio? Il potere del magistrato civile, in distinzione da tutte le altre autorità (la famiglia, la chiesa, la scuola, ecc.), è il potere della coercizione; il magistrato civile ha il diritto di punire quelli che non si conformano alle sue leggi, e punirli con afflizioni esterne: sanzioni pecuniarie, pene corporee (lavoro o frustate), e perfino la morte.
Altri settori della società possono imporre in varie maniere pene sui trasgressori, ma mai la pena capitale. I Genitori non possono giustiziare, i pastori non possono giustiziare, i datori di lavoro non possono giustiziare — ma l’autorità del magistrato civile spicca come l’autorità di giustiziare i criminali. Il potere del magistrato è pertanto appropriatamente simboleggiato nel potere della spada. La pena più estrema, la pena di morte, è stata messa a disposizione del magistrato civile. In Romani 13:4a Paolo parla del magistrato come di uno che “porta la spada”. (Per il significato di questo simbolo si possono consultare Mt. 26:52; At. 12:2; Eb. 11:37; Ap. 13:10).
Il magistrato civile, secondo l’insegnamento di Paolo, deve essere visto come un ministro di Dio, uno le cui attività includono l’uso della spada nel punire i criminali. I governanti civili hanno un ministero della spada dato loro da Dio. Questo significa forse dire che Dio getta la coperta della sua approvazione sopra a qualsiasi e tutti gli usi della spada da parte di qualsiasi e tutti i magistrati lungo tutta la storia? Difficile! Ci sono sicuramente stati uomini che furono tiranni sanguinari, uomini che abusarono il potere posto nelle loro mani, uomini che hanno fatto eseguire la pena capitale in casi in cui era immorale farlo. potere, arroganza, mazzette, gelosia, lussuria e pregiudizio hanno corrotto il ministero della spada come si è manifestato nel regno di molti magistrati nel corso della storia.
È qui che dobbiamo porre attenzione al linguaggio di Paolo in Romani 13:4. Egli non descrive qualsiasi e tutti gli utilizzi della spada civile come il ministero di Dio in una società. Paolo anzi distingue (implicitamente) tra un uso proprio e uno improprio della spada, parlando di “portare la spada invano”. Come ci direbbero il buon senso e l’esperienza storica, alcuni magistrati hanno usato la spada in un modo che è svuotato di valore per quanto concerne un ministero a favore di Dio. Alcuni hanno fatto della spada un uso futile, un uso che Dio non aveva mai inteso. Alcuni hanno portato la spada invano. Contrapposto a questi usi vani della spada, Paolo in Romani 13 descrive il magistrato che realmente ministra per Dio. Paolo ci presenta in Romani 13:4 il modello di ministro civile di Dio, di uno che non “porta la spada invano”.
L’ira di Dio
Secondo Paolo, cosa deve fare il “ministro di Dio” che “non porta la spada invano” nel servizio a Dio nella società? Paolo dice che deve essere un “ministro di Dio, un vendicatore con ira contro colui che fa il male” (Ro. 13:4). L’ira di chi deve vendicare il magistrato? Di sicuro non la propria, poiché è proprio in questa esibizione d’ira messa al servizio del proprio io che la spada è stata usata invano lungo tutta la storia. Invece, Paolo indica che il magistrato deve vendicare l’ira di Dio. Nel paragrafo immediatamente precedente quello ora in discussione, Paolo aveva esortato i credenti ad essere in pace con gli uomini e a non vendicarsi dei torti subiti. Romani 12:19 disse: “ Non fate le vostre vendette, cari miei, ma lasciate posto all’ira di Dio, perché sta scritto: ‘A me la vendetta, io renderò la retribuzione, dice il Signore’.” Due parole risaltano qui, vendetta e ira. Dio vendicherà l’ira sui criminali, perciò i credenti non hanno bisogno di prendere in mano la cosa. Ma Dio come vendicherà la sua ira sui malfattori? Romani 13:1-7 risponde a questa domanda che nasce spontanea. Dio ha ordinato nella società un ministro della spada. Quelli che ha posto in autorità devono essere “vendicatori dell’ira” (o per l’ira) — vale a dire vendicatori dell’ira divina in vece di Colui che dichiara che ogni vendetta gli appartiene. Il ministro di Dio nello stato, colui che non parta la spada invano, opererà per vendicare l’ira di Dio contro i malfattori — “contro colui che fa il male” (Ro. 13:4). Questa è una parte importante della descrizione del magistrato civile. Egli deve fare in modo che i buoni cittadini non abbiano nulla da temete dalle sue decisioni e che gli elementi criminali nella società abbiano molto da temere. Come Paolo dice: “I magistrati infatti non sono da temere per le opere buone, ma per le malvagie … perché il magistrato è ministro di Dio per te nel bene; ma se tu fai il male, temi, perché egli non porta la spada invano; poiché egli è ministro di Dio, un vendicatore con ira contro colui che fa il male” (Ro. 13:3-4). Il magistrato ha l’obbligo di distinguere correttamente le attività virtuose da quelle viziose nella società. Deve premiare le une e punire le altre.
Quelli che devono essere sottoposti alla sua ira giudiziale mentre porta la spada per Dio sono descritti come “malfattori” in Romani 13:4. Se scaliamo giù di sei versetti a Romani 13:10, leggiamo che l’amore non fa alcun male al prossimo. Sono esattamente quei cittadini che, senza amore, trasgrediscono quei comandamenti di Dio che sono intesi a proteggere la vita, la libertà e la proprietà del prossimo ad essere quei “malfattori” che Paolo farebbe punire dal magistrato, finanche con la morte (dove appropriata). Nella prospettiva paolina, il magistrato civile oggi porta titoli religiosi perché è chiamato ad essere un vendicatore dell’ira di Dio contro i trasgressori della legge.
Concetti veterotestamentari
L’attitudine del Nuovo Testamento verso legge e politica che si trova in Romani 13:1-7 è risultata corrispondere con quella del Vecchio Testamento su punti cruciali, sia per quanto concerne magistrati giudaici che gentili. L’assunto basilare di Paolo era la supremazia di Dio su tutti. Dando questo per scontato, Paolo poteva configurare i governanti come ordinati da Dio e pertanto da non resistere. Infatti, Paolo potè procedere e ripudiare qualsiasi nozione laicizzata di governante civile chiamando quelli che governano nello stato “ministri di Dio” ordinati da Dio per vendicare la sua ira contro i malfattori che violano la sua legge. Come abbiamo visto in precedenza, questa era esattamente la dottrina del Vecchio Testamento. In accordo con essa si può formulare una visione distintamente cristiana di giustizia pubblica. Pietro riassume molto dell’insegnamento del Vecchio e del Nuovo Testamento riguardo al magistrato quando descrive i governanti come “mandati da lui (Dio) per la punizione dei malfattori”(1° Pi. 2:14) Tale descrizione può portare ad una conclusione sola:
3. I magistrati devono dissuadere dal male governando secondo la legge di Dio.
Questa conclusione è stata vista essere la conseguenza dell’insegnamento del Vecchio Testamento sul magistrato civile in Israele, quanto la conseguenza della prospettiva del Vecchio Testamento sui governanti civili al di fuori d’Israele. Siccome i governanti civili sono ordinati da Dio, siccome portano titoli religiosi, siccome sono mandati per essere vendicatori dell’ira di Dio, siccome devono punire quelli che sono genuini malfattori, il solo standard appropriato per il loro governo nella società — il solo criterio appropriato di giustizia pubblica — avrebbe dovuto essere la legge di Dio. Quelli che sono ordinati da Dio devono obbedire i suoi dettami, non i propri. Quelli che sono chiamati “ministri di Dio” devono vivere all’altezza di un tale titolo servendo la volontà di Dio. Quelli che devono vendicare l’ira di Dio devono essere diretti da Dio Stesso per quanto legittimi tale ira e come debba prendere espressione. Quelli che devono punire i malfattori devono possedere uno standard affidabile per mezzo del quale giudicare chi sia e chi non sia un malfattore agli occhi di Dio.
Così, tutto addita all’ovvia conclusione che il magistrato civile, secondo Romani 13:1-7 (proprio come nel Vecchio Testamento), è vincolato all’obbligo di obbedire le stipulazioni della legge di Dio nella loro portata sulla leadership civile e la giustizia pubblica. All’interno del proprio contesto letterario (in particolare 12:19 e 13:10), Romani 13:4 insegna specificamente che la legge di Dio deve essere la guida del magistrato che abbia da non portare la spada invano. La legge di Dio definisce chi siano realmente malfattori ed indica quelli sui quali deve venire l’ira di Dio.
Quale standard migliore?
Quelli che non sono a favore di assumere la legge di Dio come standard ultimo per la moralità civile e la giustizia pubblica saranno costretti a sostituirlo con qualche altro criterio di bene e di male. Il magistrato civile non può funzionare senza qualche indirizzo etico, senza qualche standard di bene e di male. Se quello standard non deve essere la legge di Dio rivelata (che, bisogna notare, faceva riferimento specificamente a problemi perenni in moralità politica), allora quale dovrà essere lo standard? In qualche forma o espressione dovrà essere la legge dell’uomo (o degli uomini) — lo standard di legge-fai-da-te o autonomia. E quando leggi autonome pervengono al governo di una comunità, la spada è certamente usata invano perché rappresenta solamente la forza bruta della volontà di alcuni uomini contro la volontà di altri. A quel punto “giustizia” diventa una copertura semantica per qualsiasi cosa serva gl’interessi degli uomini forti nella società (sia che la loro forza consista in potere fisico o in manipolazione mediatica).
Gli uomini sceglieranno di essere governati o da Dio o da tiranni. A causa dell’opera misericordiosa di contenimento da parte dello Spirito Santo nelle società, non vediamo ad ogni stadio della storia queste polarità prendere corpo in modo netto; la maggior parte delle società s’impegneranno in qualche misura a conformarsi alla legge di Dio anche quando questa sia ufficialmente disprezzata. Ad ogni modo, in principio la scelta è chiaramente tra legge di Dio e legge dell’uomo, tra vita e morte per una società. Se non è riconosciuta alcuna legge divina al di sopra della legge dello stato, la legge dell’uomo è diventata assoluta agli occhi degli uomini — a quel punto non esiste barriera logica al totalitarismo.
Quando la legge di Dio è accantonata, e la legge del politico giunga a regnare al suo posto, abbiamo “le bestia” descritta per noi dall’apostolo Giovanni in Apocalisse 13. Indipendentemente dalla scuola di pensiero escatologica che si possa avere, e indipendentemente dalla complessiva struttura interpretativa che si possa avere per il libro di Apocalisse, tutti i lettori della bibbia dovranno concordare che “la bestia” è il magistrato civile malvagio, per antonomasia. È l’esatto opposto di ciò che Paolo descrive in Romani 13 e pertanto non ci giunge come sorpresa che il libro di Apocalisse complimenti i cristiani per la loro resistenza ai dettami della bestia — malgrado Romani 13 condanni la resistenza in situazioni ordinarie.
Dimostrerà sagacia notare come Giovanni descriva il magistrato civile malvagio conosciuto come “la bestia”. In Apocalisse 13:16-17 leggiamo del “marchio della bestia” che dev’essere posto sulla fronte e sulla mano di chiunque voglia commerciare nella pubblica piazza, il marchio identifica il nome o il carattere della bestia stessa. Per poter avere un posto vitale nella società, la bestia richiede che il proprio nome e la propria autorità — la propria legge— diriga il pensare e l’agire (fronte e mano) di tutti i suoi cittadini. Chi è familiare col Vecchio Testamento coglierà prontamente l’allusione di Giovanni a Deuteronomio 6:8, dove Dio disse che la sua legge doveva essere legata tra gli occhi e sulla mano del suo popolo. La bestia è raffigurata togliere via la legge di Dio e rimpiazzarla con la propria legge umana. Rimanendo in armonia con questa raffigurazione, Paolo stesso descrive la bestia in 2° Tessalonicesi 2 come “l’uomo dell’iniquità” [3].
Come abbiamo visto, nella bibbia, il paradigma di capo politico malvagio è uno che rigetta la legge di Dio quale standard di giustizia pubblica e si volge invece ad uno standard autonomo. Giovanni rende assai chiaro chi siano quelli su cui si possa fare affidamento che resisteranno la bestia, l’uomo dell’iniquità. Quelli che li resistono sono descritti in Apocalisse 12:17 come chi “custodisce i comandamenti di Dio e hanno la testimonianza di Gesù”, e in 14:12 come “coloro che osservano i comandamenti di Dio e la fede di Gesù”. Pertanto, l’opposizione tra i santi e la bestia gira intorno alla legge di Dio.
La moralità politica di Paolo
Il magistrato che ottiene l’approvazione di Paolo in Romani 13 è quello che è un ministro di Dio “per il bene” ma un “terrore” per quelli che “fanno il male”. Nel dire questa cosa Paolo chiaramente non si scostava dal suo modo di definire il bene e il male in accordo con la legge di Dio. Infatti, quando stette davanti al Sinedrio dei Giudei per protestare la propria innocenza, dichiarò di non aver fatto nulla di male (At. 23:9 e 25:11) — nulla di contrario alla legge di Dio — altrimenti sarebbe stato disposto ad accettare la giustizia della propria esecuzione. Per Paolo, la moralità politica doveva essere valutata mediante le norme della legge di Dio rivelata. Paolo non assunse un’atteggiamento dispensazionalista nei confronti della giustizia sociale ipotizzando la messa da parte degli standard del Vecchio Testamento riguardo la politica pubblica, i delitti e le pene nell’era del Nuovo Testamento. Dio ha uno standard immutabile di bene e di male anche quando si viene all’etica politica.
Nei termini dell’unico standard di Dio per la moralità politica, non sorprende scoprire che la predicazione orale e scritta del Nuovo Testamento erano tutt’altro che apolitiche. Giovanni Battista predicò contro l’illegalità del matrimonio di Erode (Mc. 6:18), e Gesù chiamò Erode “quella volpe” (Lu. 13:32), una denuncia tagliente. Giovanni disse ai soldati dei loro obblighi verso la legge di Dio (Lu. 3:14), e Gesù richiese che Zaccheo facesse restituzione dell’eccesso di tasse che aveva raccolto (Lu. 19:1-10). Paolo predicava “contro gli statuti di Cesare dicendo che c’è un altro re, cioè Gesù” (At. 17:7), per il cui motivo fu bandito da Tessalonica. Nello scrivere indietro alla chiesa lì, egli alluse all’antagonismo del Consiglio della città nei suoi confronti come l’impedimento di Satana (1° Te. 2:18). In tutti questi incidenti vediamo che il Nuovo Testamento non sta zitto sulle ingiustizie politiche e che pesa queste ingiustizie sulla bilancia della legge di Dio rivelata. Al livello più pratico e più applicato, lo standard peculiare per la moralità politica cristiana si trovava nei ben conosciuti comandamenti di Dio.
Conclusione
Gli anni recenti hanno visto un revival dell’interesse politico cristiano. Tuttavia, quel revival non è stato frequentemente associato con una chiara concezione della moralità sociopolitica. Lo standard peculiare della politica cristiana è stato trascurato. Studiando il Vecchio Testamento riguardo ai magistrati giudei e gentili e studiando la rivelazione del Nuovo Testamento riguardo a legge e politica, abbiamo scoperto una completa armonia su questi tre punti essenziali:
Questo ci provvede un fondamento per il coinvolgimento cristiano in filosofia e prassi politica. Da questa piattaforma si può dare un contributo peculiare.
Note:
1 John Murray: The Epistle to the Romans, 2 Vol; Grand rapids. MI: Eerdmans, 1965, II, p. 149.
2 Charles Hodge: A Commentary on Romans; London: Banner of Truth Trust; [1835], 1972, p. 408.
3 Lawlessness nell’originale. La maggior parte delle traduzioni inglesi su 2° Te. 2:3 danno” lawlessness”, una parola non traducibile in italiano se non con anomia, il volontario rifiuto e avversione per la legge di Dio. N.d.T.