IX

L’uomo non vive di sola esperienza 8:2–9:10

 

Quando Dio creò l’uomo, gli parlò e gli diede un principio interpretativo in base al quale l’uomo avrebbe dovuto conoscere se stesso e lo scopo della sua vita. Ciò che Dio disse avrebbe dovuto essere la base della vita e della cultura dell’uomo. L’uomo non avrebbe potuto scoprire che la sua vita aveva uno scopo se Dio non glielo avesse comunicato espressamente. Niente nell’uomo o nel suo mondo intorno a lui avrebbe potuto illuminarlo sulla ragione del suo essere o sull’obbiettivo che doveva realizzare. La parola pattizia di Dio, quindi, era il principio interpretativo originale dell’uomo, la base su cui tutta la sua vita avrebbe avuto un significato, il fondamento che da solo poteva dare direzione e ordine alle sue attività.

Nella sua ribellione contro Dio, l’uomo negò che la parola di Dio dovesse costituire il principio interpretativo di tutta la vita. Tuttavia, a causa del fatto che l’uomo è stato creato a immagine di Dio e quindi non ha potuto sfuggire alle caratteristiche imposte dalla propria natura, fu costretto ad adottare alcuni principi interpretativi che servissero come propria autorità o cessare del tutto di essere uomo. L’uomo ben comprese questa esigenza; così, su suggerimento del Tentatore, abbracciò immediatamente un principio alternativo, totalmente contrario a quello che Dio gli aveva fornito. Poiché respinse la spiegazione di Dio della sua vita e l’ordine che imponeva, tutto ciò che gli rimase veramente è stato di trovarli in se stesso. Il risultato è stato che l’uomo ha elevato la pura esperienza ad essere il più alto principio di interpretazione. Anziché sottomettere la propria esperienza ai criteri della rivelazione di Dio, l’uomo arrivò ad assumere che la propria esperienza fosse auto-interpretativa e un criterio sufficiente con cui agire e costruire la vita. Quando seguiamo il procedere di questa fondamentale supposizione nello sviluppo storico dell’uomo, specialmente dell’uomo occidentale, scopriamo presto che il suo tentativo di vivere secondo gli ambigui dettami dell’esperienza genera una dicotomia irrisolvibile. Da un lato, cerca di seguire quello che per lui è un percorso razionalista, che afferma che la logica dell’esperienza è la vera voce autorevole. Dall’altro lato, stabilisce un percorso empirico, uno che contende con compiacimento che i fatti dell’esperienza dovrebbero funzionare come unico padrone legittimo sulla vita dell’uomo. In ogni caso, è solo l’esperienza che lo guida e determina il corso del suo comportamento.

Sostituendo la parola di Dio con la propria esperienza, l’uomo ha cercato di fare affidamento sulle conseguenze della sua esperienza per provvedere gli standard morali per il suo comportamento. Pronuncia il suo giudizio moralistico, in base a ciò che risulta dalle sue azioni e da quelle degli altri uomini. Se le attività svolte sembrano apportare beneficio alla sua esperienza, tali attività sono necessariamente buone; se, tuttavia, è il contrario, se le sue azioni sembrano influenzare negativamente la sua esperienza, se soffre in qualche modo a causa delle sue azioni, allora sono senza dubbio moralmente riprovevoli. Ecco l’unico criterio per ogni valutazione del bene o del male, di giusto o sbagliato, della giustizia o dell’ingiustizia per quanto riguarda gli uomini peccatori.

L’esperienza si erge come dio supremo dell’uomo umanista e, grazie ai suoi risultati egli scopre quali azioni siano “giuste” e quali “ingiuste”. Poiché “conosce” con certezza categorica, è spinto a raddrizzare tutte le azioni che la sua esperienza dichiara sovranamente essere cattive perché contrastare l’esperienza “buona” è contrario alla volontà del suo dio. Un simile dio non imporrebbe mai volontariamente sofferenza a nessun uomo. Di conseguenza, è giusto che l’uomo abbia solo esperienze buone. Quando non arrivano qualcuno è in colpa, specificamente qualcun altro, perché nessun uomo si darebbe mai intenzionalmente delle brutte esperienze! Se subisce tali esperienze, ciò è intollerabile e deve essere immediatamente corretto. L’esperienza decide che i giusti devono essere ricompensati con il bene e i malvagi con la correzione e una qualche forma di punizione. L’esperienza divina non tollererà il contrario.

È su questo retroterra della mentalità secolare, con lo status divino che l’uomo accorda alla propria esperienza, che il Predicatore continua il suo discorso sul “peso di Dio”. Le sue parole saranno dedicate quasi esclusivamente al popolo pattizio e a come essi dovrebbero imparare a valutare la propria esperienza alla luce del patto. Devono capire che l’esperienza da sola non è in grado di fornire la guida etica e religiosa di cui hanno bisogno nella vita. L’esperienza non è sufficiente per spiegare se stessa, né può essere vista come un mezzo con cui Dio comunica loro la sua volontà affinché ordinino la loro vita. Soprattutto, non deve essere presa come base per decidere quali comportamenti siano giusti o ingiusti guardando ai loro risultati. Spesso la giustizia non riceve la sua giusta ricompensa in questa vita, né l’ingiustizia riceve la punizione che merita. Il popolo del patto non può fare affidamento sull’esperienza in sé e per sé per risolvere questo dilemma poiché l’esperienza insegna che il modo in cui gli uomini agiscono non fa alcuna differenza. Il popolo di Dio deve adottare il punto di vista pattizio e non fidarsi della propria esperienza. In particolare, essi devono guardare al Dio del patto per dare un senso alla loro esperienza. Il pensiero centrale di questa sezione (8:17) fa capire questa verità: “Allora ho visto tutta l’opera di Dio”. Conta ciò che Dio fa, non ciò che sperimentano. L’uomo deve fissare gli occhi non alla sua esperienza, buona o cattiva, ma al Dio del patto.

In 8: 2–9, il Predicatore delinea il problema dell’oppressione dei giusti dal punto di vista generale. Vale a dire, spiega al popolo pattizio perché possono e dovrebbero aspettarsi che gli uomini malvagi esercitino l’oppressione sugli altri, un’oppressione che può includerli e spesso li include, ma anche come essi, come popolo di Dio, debbano rispondere al problema. Questo è visto soprattutto al verso 9: “Ho visto tutto questo e ho posto mente a tutto ciò che si fa sotto il sole; c’è un tempo in cui un uomo domina sugli uomini per loro sventura”. L’ultima parte di questo versetto viene tradotta male quando viene fatta leggere “a proprio danno (CEI)”. Non è in sintonia con questo contesto e con il libro nel suo insieme. La lettura corretta è “a loro danno”, cioè a sofferenza degli altri, poiché dovremmo riconoscere che la preoccupazione del Predicatore è per le azioni che alcuni uomini intraprendono per opprimere altri uomini e, come intende chiarire, i giusti in particolare. Afferrarlo facilita la nostra comprensione dei versetti 2–8.

I versetti iniziali, (2–6) sono stati generalmente ritenuti dai commentatori indicare come il Predicatore avverta il popolo di non ribellarsi a qualche malvagio monarca umano, indipendentemente da quanto dispotico e arbitrario possa essere il suo comportamento. Tuttavia, non possiamo accettare questa interpretazione. Invece, crediamo che il Predicatore stia affrontando il problema dell’oppressione, in particolare quella dei giusti, all’interno della cornice pattizia della tesi centrale di tutto il suo libro, vale a dire il peso di Dio. Il suo scopo è che il popolo del patto comprenda che il problema della sua oppressione non può avere né la sua spiegazione né la sua risoluzione in termini di esperienza, ma che deve essere visto nel contesto di ciò che il loro Dio fa. Il “saggio di cuore” (v.5),

vale a dire il giusto, imparerà a fare i conti con Dio in questa materia e a non cadere nella disperazione per ciò che a volte risulta essere la sua esperienza. Di conseguenza, con un linguaggio che solo il popolo di Dio può comprendere, il Predicatore, riferendosi a ciò che li influenza in questa vita, introduce Dio e il patto fin dall’inizio. “Io ti consiglio: osserva il comando del re, a motivo del giuramento fatto a DIO. Non avere fretta ad allontanarti dalla sua presenza e non persistere in una cosa cattiva, perché egli fa tutto ciò che gli piace. Infatti la parola del re è potente; e chi gli può dire: ‘Che cosa fai?’” (vv.2–4).

La presenza della parola “re” confonde infelicemente molti commentatori, che pensano debba fare riferimento a un sovrano umano sotto il cui potere e autorità gli ascoltatori del Predicatore devono attualmente stare. Tuttavia, perché dovremmo supporre che il Predicatore abbia in mente qualche immediato sovrano terreno? Il pensiero non lo richiede. Inoltre, il Predicatore sapeva certamente che altrove nelle Scritture Dio viene spesso chiamato re. Salmo 10: 16— “L’Eterno è re per sempre; le nazioni sono scomparse dalla sua terra”. E il Salmo 24 si chiude con ripetuti riferimenti al “Re di gloria” (vv. 7-10). Nessuno può dubitare di chi s’intenda. Il Salmo 93 usa immagini associate allo splendore regale e al potere. Lì Dio è “rivestito di maestà” e il suo “trono” è stabilito. Questi e altri riferimenti supportano l’idea di Dio come re. Non possiamo allora pensare che il re in 8: 2 sia Dio stesso? E se fosse richiesto un monarca “terreno”, potrebbe facilmente essere lo stesso Salomone, il re del patto, in cui la sapienza e la regalità di Dio si manifestarono sulla terra. È certamente nell’ambito della sapienza e dell’autorità salomonica che il predicatore ha parlato in Ecclesiaste, il contesto totale in cui cerca di impartire sapienza ai suoi ascoltatori. Inoltre, in che senso si penserebbe che il popolo di Dio, in questo momento della sua storia, possa entrare nella “presenza” di qualche sovrano terreno? (v.3). Cosa potrebbe voler dire il Predicatore quando dice che non dovrebbero lasciare la presenza del re? Le sue parole hanno poco senso se si pensa a un potentato umano, ma il loro re “pattizio” è una questione diversa.

Le parole del Predicatore insegnano che, nonostante il tempo in cui vivono, un tempo in cui uomini e civiltà malvagi erano in ascesa e il popolo del patto ridotto a un’esistenza meschina e oppressa, pur tuttavia il popolo di Dio non deve abbandonare il patto. Li ammonisce di “osservare il comando del re” e di ricordare il loro giuramento davanti a Dio. Allontanarsi dalla presenza del re è apostasia [1], e persistere in “una cosa cattiva” (v.3), significa adottare il metodo dell’uomo umanista per risolvere l’oppressione. È fare affidamento sulla saggezza e sulla potenza umana. Ma non devono cercare di prendere il posto di Dio, poiché Dio non si farà chiamare in giudizio a rendere conto all’uomo: “fa tutto ciò che gli piace” (v.3). Né si sottopone all’interrogatorio giudiziario dell’uomo. Nessuno può dirgli: “Che cosa fai?” (V.4). Chiaramente, ciò che traspare nella vita del popolo di Dio è in larga misura nascosto nella sua determinazione sovrana. Il fatto che non sveli sempre le sue ragioni non è motivo per prendere in mano la situazione, né per deviare dal cammino della fedeltà al patto. Col tempo Dio risolverà il problema dell’oppressione dei suoi giusti. Il “cuore dell’uomo saggio”, invece di ribellione o infedeltà, considererà che Dio è sovrano nel tempo e nella storia, quindi su ciò che sperimentano. “Sapranno” che Dio ha il suo adeguato “tempo e giudizio per ogni cosa” (vv.4, 5). Il Predicatore ci ricorda ciò che aveva detto in 3: 1–15. Il popolo pattizio non deve permettere alle attuali circostanze della “miseria dell’uomo”, cioè della sofferenza causata dall’uomo, di scoraggiarli. Anche se “pesa faticosamente”, Dio è in grado di agire per loro conto. È Signore del loro tempo.

I malvagi, come ormai ci aspettiamo, rifiutano di fare i conti con la sovranità di Dio sul tempo dell’uomo (vv. 7 e 8). Credono fermamente di essere al comando delle loro anime, padroni del loro destino. Ma il Predicatore, al fine di rafforzare la fiducia nel patto, ricorda loro che l’uomo non ha alcun potere di decidere il futuro e di controllare gli eventi così da trionfare in modo eterno nella sua malvagità. Dio può fare e farà in modo che il loro male si ritorca su di loro (v.8).

Una cosa è quando l’oppressione è vissuta sotto coloro che sono fuori dal patto, un’altra è quando sembra risiedere nel cuore del patto stesso. A volte i giusti sono oppressi anche all’interno della “chiesa”. In 8:10–13 il Predicatore osserva che ciò che costituisce l’eredità dei giusti è usurpato dai malvagi. Gli empi prendono il controllo delle istituzioni del patto e ricevono gli onori dovuti ai giusti. “Allora, ho visto degli empi venire sepolti … entrare nel loro riposo” (v.10). Allo stesso tempo, “quelli che si erano comportati con rettitudine (cioè i giusti) andarsene lontano dal luogo santo ed essere dimenticati….”. Il “luogo santo” si riferisce al tempio e la “città” è la città di Dio dove si trova la sua presenza. Simboleggiano ambedue il Regno di Dio. Queste sono l’eredità dei pii; ma uomini malvagi hanno preso il potere ed esercitano il controllo. La chiesa nella storia è diventata più volte apostata. Il Predicatore può almeno indicare perché questo accade: ha a che fare con una mancanza di disciplina nella dottrina e nella pratica. “Poiché la sentenza contro una cattiva azione non è prontamente eseguita, il cuore dei figli degli uomini è pieno di voglia di fare il male” (v.11). Tuttavia, i giusti possono consolarsi che Dio non consentirà che tale empietà trionfi a lungo nel suo Regno. In effetti, il Predicatore può dire che: “Ma non c’è bene per l’empio, e non prolungherà i suoi giorni come l’ombra perché non prova timore davanti a DIO. C’è una vanità che avviene sulla terra: ci sono dei giusti che sono trattati come spetterebbe all’opera degli empi, e ci sono degli empi che sono trattati come spetterebbe all’opera dei giusti. Ho detto che anche questo è vanità” (vv. 12, 13).

Il pensiero generale in questo gruppo di versetti è che, basandosi solo sull’esperienza, le persone che appartengono al popolo pattizio non possono scoprire quali saranno i frutti delle loro fatiche. Anzi, dal punto di vista dell’esperienza, ci si può aspettare abbastanza spesso che “ci sono dei giusti che sono trattati come spetterebbe all’opera degli empi, e ci sono degli empi che sono trattati come spetterebbe all’opera dei giusti” (v.14). Ciò ch’è essenziale che le persone del patto sappiano, e che la loro esperienza non farà loro conoscere, è che questa contraddizione ha la sua spiegazione in “tutta l’opera di Dio” (v.17). Più di questo è impossibile scoprire. “L’uomo non può arrivare a scoprire tutto ciò che si fa sotto il sole perché, anche se l’uomo si affatica a cercare, non riesce a scoprirlo…” (v.17). Perché Dio permetta alle fatiche dei giusti e degli ingiusti di raccogliere ricompense inappropriate non viene dato loro a sapere. Ma la loro principale preoccupazione “sotto il sole” non dovrebbe essere la loro esperienza. Una fedele adesione a Dio e alla sua parola dovrebbe dominare la loro attenzione. Tuttavia, il Predicatore non intende che dovrebbero dedicarsi al dovere per amore del dovere, come se non dovessero aspettarsi alcuna ricompensa per il loro giusto comportamento. Afferma il contrario: “Così ho lodato l’allegria, perché non c’è nulla di meglio per l’uomo sotto il sole che mangiare, bere e stare allegro, perché questo rimane con lui nella sua fatica durante i giorni di vita che DIO gli dà sotto il sole” (v.15). Il Predicatore intende che Dio può far prosperare i giusti contrariamente a ciò che sembra dalla loro esperienza. Tuttavia, la pazienza e la speranza devono avere la precedenza sull’esperienza, buona o cattiva. Vengono in mente le parole di Paolo in Romani 8:24-25 “Perché noi siamo stati salvati in speranza; or la speranza che si vede non è speranza, poiché ciò che uno vede come può sperarlo ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, l’aspettiamo con pazienza”.

In 9:1–10, il Predicatore riassume il suo pensiero sul problema di ciò che l’uomo sperimenta nel mondo, perché l’esperienza dei giusti non

concordi con la loro giustizia e perché l’esperienza degli ingiusti non corrisponda alla loro ingiustizia. Esorta il popolo del patto a non valutare né la validità né l’utilità del patto unicamente dalla loro esperienza. Dovrebbero focalizzare la loro attenzione su Dio, non su se stessi; poi concluderanno come fa il Predicatore, che: “i giusti e i saggi e le loro opere sono nelle mani di Dio…” (v.1). Se si affidano interamente all’interpretazione della loro esperienza, perdono l’unica base valida per distinguersi dagli empi. Per confermare questo pensiero, il Predicatore osserva che “tutti condividono un destino comune” (v. 2). Nessun uomo, giusto o ingiusto, sfugge alla morte. È la “sorte” che “prende tutti” (v.3). Se la morte è il compimento dell’esperienza dell’uomo, allora quale valore può essere attribuito a ciò che gli uomini sperimentano? Il criterio secondo il quale le persone che appartengono al patto devono vivere la loro vita deve essere qualcosa di diverso dalla loro esperienza. Per gli uomini al di fuori del patto l’esperienza è la legge della loro esistenza. Per loro tutto dipende dall’esperienza. Ma per il popolo del patto qualsiasi tentativo di vivere per esperienza si tradurrà in un’amara delusione e farà sì che, tra tutti gli uomini, essi siano i più miserabili.

Ma avendo avvertito il popolo di Dio di non fidarsi della propria esperienza, il Predicatore pone davanti ai suoi ascoltatori un messaggio positivo. Li incoraggia a rimanere saldi nel patto, poiché quella è la loro unica grande speranza. “Finché uno è unito a tutti gli altri viventi c’è speranza, perché un cane vivo val meglio di un leone morto!” (v.4). Con le parole “unito agli altri viventi”, il Predicatore ha in mente molto di più della semplice esistenza fisica. Perché essere “tra i vivi” significa essere “nel patto”. Sono loro che sono veramente vivi! Non importa quale sia la loro esperienza fintanto che rimangono nel patto. Quando afferma che un “cane vivo val meglio di un leone morto”, il Predicatore intende che la peggiore esperienza dei giusti è migliore della vita dei malvagi, anche se trionfano come i leoni. “Infatti”, continua, “i viventi (cioè quelli del patto) sanno che moriranno, ma i morti non sanno nulla …” (v.5). Questo fa riferimento non solo alla morte in quanto tale, ma al giudizio che la morte porta con sé. È il giudizio di Dio che metterà le cose a posto per i giusti e porterà punizione ai malvagi. Questo è ciò che i giusti “sanno”. Questo è ciò che i “morti” (cioè quelli che trasgrediscono il patto) non considerano. Per gli empi, non c’è “più alcuna ricompensa”. Tutto ciò che possono aspettarsi di ricevere è solo in questa vita. Per loro tutto svanirà con la morte e non avranno mai più “una parte in tutto ciò che si fa sotto il sole” (v.6). L’implicazione è che per i giusti non è così! Hanno un “ulteriore ricompensa”. La loro esperienza in questa vita non è tutto ciò che conta. Ciò che amano (la giustizia) e ciò che odiano (l’ingiustizia) sarà ricordato. La promessa per loro è che, nonostante la morte, avranno di nuovo una parte in tutto ciò che si fa sotto il sole.

Come dovrebbe dunque vivere il giusto? Il predicatore risponde nei versi 7-10. Deve fare le sua cose con gioia e “un cuore lieto” (v.7). Dovrebbe essere consapevole che Dio lo ha in mente: “Dio ha già gradito le tue opere” (v.7). Deve vivere la sua vita sotto Dio e nella consapevolezza che ciò che fa non è vano. La vita ora dovrebbe essere presa sul serio perché è il contesto in cui conservare il tesoro per la ricompensa che alla fine sarà loro. Di conseguenza, il Predicatore comanda: “Tutto ciò che la tua mano trova da fare, fallo con tutta la tua forza …” (v.10). Il popolo di Dio dovrebbe servire lui e il suo regno sforzandosi con tutto il cuore. È nella vita che dovrebbero lavorare per il frutto eterno. Nella morte, tutte le opportunità in questo senso svaniscono, “Perché nello Sceol dove vai, non c’è più né lavoro, né pensiero, né conoscenza, né sapienza” (v.10). Cioè, lì non c’è realizzazione di queste cose. Per le persone che appartengono al patto la morte è la fine delle opportunità di lavorare per ogni ulteriore ricompensa. Non si permetta che l’esperienza sia la guida, ma che la fede in Dio e nella sua ricompensa siano la base della vita pattizia.

Note:
1 Cfr. Leupold, p. 185.


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