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IL SIGNORE, LA SUA LEGGE

E IL SUO POPOLO

La sacra Scrittura ascrive alla Legge e al Dio uno e molteplice, il datore della Legge, attributi simili.
Il Signore è Spirito (Giovanni 4:24); anche la Legge è spirituale (Romani 7:14). Il Signore è santo – è qualitativamente distinto dalla sua creazione (Salmi 22:3; Isaia 6:3; Apocalisse 4:8); Egli è il giusto, l’equo (Salmi 7:10; Atti 3:14); Egli è buono (Salmi 145:9; Matteo 19:17). La sua Legge, come riflesso di chi Egli è, è allo stesso modo “santa, giusta e buona” (Romani 7:12; cfr. Salmi 119).
La Legge testimonia al contempo sia l’immanenza del Dio trascendente – cioè la sua intimità e il suo coinvolgimento nella vita delle sue creature – sia il suo carattere morale.
Temere il Signore è vivere di fronte a Lui con intimo e devoto rispetto; è avere quel timore che è il principio della sapienza (Giobbe 28:28; Salmi 111:10; Proverbi 1:7; 9:10). Chi ha un tale timore del Signore può solo “tremare” con adorazione per Lui davanti ai suoi comandamenti (Esdra 10:3). La conclusione dell’Ecclesiaste è: “Temi Dio e osserva i suoi comandamenti” (Ecclesiaste 12:15).

VANGELO E LEGGE PER ADAMO ED EVA

Dalla creazione di Adamo ed Eva, dall’inizio del Patto di Grazia, il Vangelo precede e sottende ogni comandamento. Tuttavia, ciò non significa che il Vangelo e la Legge siano separati; anzi, non appena leggiamo del Vangelo, la benedizione di Dio (Genesi 1:28), subito troviamo la Legge data per accompagnarlo – inseparabilmente. In nessun momento della storia, nemmeno quando furono creati i nostri progenitori, gli esseri umani hanno dovuto stabilire la loro giustizia con l’osservanza della Legge. La giustizia è sempre stata ricevuta nel Vangelo della grazia, il Vangelo dell’amore stabile, il Vangelo della benedizione. Questa giustizia fu trasmessa ad Adamo ed Eva prima che fosse emanato qualsiasi comandamento, in modo che non fosse nelle loro opere, ma in Dio, il loro Creatore, e nel Vangelo della sua benedizione gratuita, che essi dovevano porre e custodire la loro fede, e nel quale avrebbero sempre trovato la loro giustificazione.
Adamo ed Eva, dopo la caduta, poterono riacquisire la loro giustificazione nello stesso modo in cui l’avevano ricevuta originariamente – cioè solo per mezzo del Vangelo. Ma dalla caduta in poi, il Vangelo avrebbe incluso, come prima e fondamentale benedizione, il perdono – un perdono meritato in un modo ancora sconosciuto alle prime creature umane: il perdono mediante il sangue del sacrificio divino dell’ “Agnello immolato prima della fondazione del mondo” (Apocalisse 13:8). Si trattava dello stesso Vangelo che li aveva sempre chiamati alla fede, ma che dopo la caduta li chiamò anche al pentimento. I comandi di Dio (la sua Legge) sarebbero rimasti gli stessi per Adamo, Eva e i loro discendenti: il matrimonio e la procreazione (Genesi 1:28; 2:23-24); il riposo settimanale a immagine del riposo di Dio dopo sei giorni di creazione (Genesi 2:2-3); e il mandato culturale (Genesi 1:28-30; 2:15-16, 19-20). Ciò che distingueva la vita dopo la caduta dalla vita precedente era la questione del peccato originale. Con l’introduzione del peccato, gli esseri umani dovevano ora affrontare una dura e aspra lotta spirituale (Genesi 3:15) fino all’agonia di morte (Genesi 2:17; 3:19), e dovevano lottare contro varie difficoltà in ogni ambito di vita per la donna, l’uomo e i due come coppia mentre cercavano di esercitare il mandato culturale sull’ambiente circostante (animale, vegetale e minerale), un ambiente ora alterato a causa della maledizione (Genesi 3:14-19). L’uomo, immagine di Dio, era stato posto a capo delle creature subumane, su tutta la creazione (Genesi 1:26) come re, sacerdote e profeta. Perciò gli effetti della sua caduta non si limitarono alla propria corruzione: anche la creazione subumana “fu sottoposta alla futilità”, ridotta a uno stato di “schiavitù”, per il quale geme e aspetta da allora la rivelazione dei figli di Dio” (Romani 8:18-22).

NOÈ

Con il rinnovamento del Patto di Grazia con Noè e la sua famiglia dopo il Diluvio, si potrebbe dire che tutto cominciò daccapo. Consideriamo l’arca stessa – non ha forse simboleggiato la creazione in miniatura? Per esempio, i tre piani dell’arca (Genesi 6:16) corrispondono ai tre livelli della creazione come appaiono ai nostri sensi e come sono menzionati in Genesi 1: sopra, i cieli; sotto, la terra; e sotto la terra, il mare. E la colomba che si libra sul mare – non richiama forse lo Spirito Santo che si libra sulle acque all’inizio della creazione? (Genesi 1:2; 8:8-12)?
Quando Dio rinnova il patto con Noè, i suoi comandamenti riguardanti il mandato culturale sono gli stessi di quelli dati a Adamo (Genesi 9:1 e 1:28). Ci sono solo due differenze. La prima riguarda il cibo (gli animali vengono dati a Noè e ai suoi discendenti come nutrimento; Genesi 9:3; cfr. 1:29). La seconda, già menzionata, riguarda il diritto alla legittima difesa dato ai membri del Patto di Grazia, un diritto che prevede perfino la pena capitale (Genesi 9:6).

ABRAHAMO

Quando il patto viene rinnovato con Abrahamo (mediante le tre promesse del popolo, della terra e della benedizione universale, insieme all’istituzione del sacramento della circoncisione; Genesi 12:2-3; 17:1-14), non troviamo una nuova serie di comandamenti specifici per “i discendenti di Abrahamo” (apprendiamo chi viene annoverato tra i discendenti di Abrahamo in Giovanni 8:31-40, Romani 9:7 e Galati 3:29). Tuttavia, Dio ha due cose da dire ad Abrahamo riguardo a lui e alla sua discendenza, comandi che, sebbene non nuovi, possono e devono essere ricevuti (e che abbiamo già citato):

Io sono il Dio onnipotente; cammina alla mia presenza e sii integro (Genesi 17:1);

Infatti, io l’ho prescelto [Abrahamo] perché ordini ai suoi figli, e alla sua casa dopo di lui, che seguano la via del Signore per praticare la giustizia e il diritto, affinché il Signore compia in favore di Abrahamo quello che gli ha promesso. (Genesi 18:17-19)

Inoltre, vi sono comandi impliciti che obbligano le generazioni future a seguire gli esempi di fede e di obbedienza lasciati dal padre di tutti coloro che credono (cfr. Ebrei 11:8-12; Giacomo 2:20-23).

LA TORAH

Quando l’apostolo Giovanni scriverà il suo Vangelo, dirà: “La legge è stata data per mezzo di Mosè” (Giovanni 1:17). Ma questo era già stato annunciato dalla Torah stessa: “Mosè ci ha dato una legge” (Deuteronomio 33:4).
La Legge (la Torah, il nostro Pentateuco) è il primo e fondamentale scritto di tutta la sacra Scrittura. I primi cinque libri della Bibbia, a partire dalla Genesi, trasmettono i comandamenti di Dio al suo popolo, comandamenti che riguardano non solo la morale personale, ma anche quella sociale. Tali comandi riguardano ogni aspetto dell’esistenza umana, compresa la nostra relazione con ogni elemento della creazione. Dio è uno e molteplice, e così anche la sua Legge è un tutto, una sola, pur nella sua varietà di aspetti.
Come essere vivente e moralmente perfetto, il Dio Uno ci dice nella sua Legge cosa significa essere una persona moralmente a sua immagine. Come Trinità formata da Dio Padre, dall’Angelo del Signore e dallo Spirito, una società vivente e moralmente perfetta, il Dio plurale ci dice nella sua Legge cosa significa essere una società morale a sua immagine. Sia nella creazione che nella redenzione, l’immagine di Dio si trova in ogni essere umano e si riflette in ogni società umana che si rispetti, a cominciare dalla relazione marito-moglie.
La Legge va costantemente letta, meditata, esaminata e insegnata anche nei suoi più piccoli dettagli (Gesù si riferirà alle più piccole lettere e ai più piccoli segni grafici nel suo Sermone sul Monte; Matteo 5:18). Ma questi piccoli dettagli possono essere compresi solo alla luce – una e diversa – di tutta la Torah.
Il Dio uno e molteplice, il Dio vivente, ha dato al suo popolo, per mezzo di Mosè, i suoi comandamenti per regolare ogni area immaginabile della vita terrena. Se ci fosse un solo ambito dell’esistenza che per assurdo non fosse sotto la Legge divina, dovremmo giustificare e ammettere il politeismo, poiché ci sarebbe qualche ambito della vita sotto una legge – o più leggi – diversa dall’unica Legge di Dio. Nessuno tranne Dio, il Creatore e Salvatore, ha il potere e il diritto sovrano, l’autorità, di comandare agli uomini a sua immagine come vivere nel suo universo.

UN INSIEME ORGANICO

La Legge non ci è stata data come un corpo di articoli morti e/o incomprensibili, ma come un insieme incredibilmente organico con un unico comandamento al centro, un comandamento che governa tutti gli altri e costituisce la loro ragion d’essere: “Ascolta, Israele: il Signore, il nostro Dio, è l’unico Signore. Tu amerai dunque il Signore, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutte le tue forze” (Deuteronomio 6:4-5) [1] . Essendo l’uomo stato fatto a immagine di Dio, un secondo comando segue immediatamente e inseparabilmente questo comandamento centrale, e dovrebbe essere interpretato come sua eco: “Amerai il prossimo tuo come te stesso. Io sono il Signore” (Levitico 19:18). Attorno a questo comandamento centrale si raccolgono altri comandamenti che sviluppano e chiariscono il suo significato: i dieci comandamenti (Esodo 20:2-17; Deuteronomio 5:7-21). Poi, come a formare un terzo grande cerchio attorno ai primi due, con i comandamenti del breve Libro del Patto (Esodo 21-23), ci sono i numerosi comandamenti della Torah, molti dei quali costituiscono applicazioni caso per caso (casistica, nel vero senso giuridico del termine) del comandamento centrale, dei dieci comandamenti o di altri comandamenti divini. Infatti, i numerosi comandamenti della Torah non rappresentano altro che spiegazioni-applicazioni rivelate di uno o più dei dieci comandamenti, così come i dieci comandamenti stessi rappresentano una spiegazione-applicazione del comandamento centrale della Legge.

Nell’ultima parte di quest’opera arriveremo a considerare come la Chiesa debba sforzarsi di ricevere, ascoltare e interpretare fedelmente l’insieme organico della Legge mosaica, facendolo in e mediante Gesù Cristo e per mezzo dello Spirito Santo.

LE LEGGI MORALI E CERIMONIALI DELLA TORAH

La Torah comprende due grandi famiglie di leggi: cerimoniali e morali. Alla famiglia delle leggi cerimoniali appartengono le leggi sacrificali insieme con le leggi di separazione riguardanti “il puro e l’impuro”; alla famiglia delle leggi morali appartengono leggi che si occupano di individui e società.
La famiglia delle leggi cerimoniali comprende in primo luogo le leggi sacrificali che governano tutto ciò che riguarda i sacrifici, i sacerdoti, il Tabernacolo, i sacramenti della circoncisione e della Pasqua, l’espiazione del peccato e della colpa mediante il sangue, ecc. Le leggi cerimoniali comprendono anche le leggi di separazione, che disciplinano tutto ciò che riguarda il principio di cose pure e impure con conseguenze per gli animali, gli esseri umani, i luoghi, il cibo, l’abbigliamento, i confini individuali e sociali (in particolare i confini tra Israele e le nazioni), il contatto con cose impure e purificazioni necessarie, ecc.
La famiglia delle leggi morali riguarda tutto ciò che è relativo alla vita individuale e sociale: matrimonio, famiglia, istruzione, lavoro, stato, legge, ecc.
In altre parole, la Torah ci rivela i comandamenti della teocrazia, un’espressione che non significa né clericalismo (governo da parte di una classe religiosa di persone) né ecclesiasticismo (governo da parte dell’istituzione della Chiesa), ma si riferisce all’autorità sovrana e universale di Dio come Colui verso il quale ogni individuo (inclusi i clericali) e istituzione indipendente (inclusa la Chiesa) è direttamente responsabile.
Le leggi cerimoniali (leggi sacrificali e leggi di separazione) si trovano principalmente in quelle sezioni che trattano le leggi riguardanti l’altare (Esodo 20:22-26), il Tabernacolo e il suo funzionamento (Esodo 25-31 e 35-40), e in Levitico (1-25), Numeri (1:47-6:21; 8:1-19; 15:1-31; 18 e 19; 28:1-30:17; 35:1-36:13), e Deuteronomio.
Le leggi morali (che riguardano sia le persone che le società) si trovano principalmente nel piccolo Libro del Patto (Esodo 21-23), nel Libro dei Numeri (27:1-11), e alla fine del Deuteronomio (23:15-30:20).
Queste leggi stabiliscono i confini che le persone e le società umane non hanno il diritto di oltrepassare, la cui trasgressione comporterà la distruzione, la miseria e la morte:

Guardate, io metto oggi davanti a voi la benedizione e la maledizione: la benedizione se ubbidite ai comandamenti del Signore vostro Dio … la maledizione, se non ubbidite ai comandamenti del Signore vostro Dio, e se vi allontanate dalla via che oggi vi ordino (Deuteronomio 11:26-28).

L’UNITÀ DELLE DUE FAMIGLIE DI LEGGI

Anche se le due famiglie di leggi sono distinte, tuttavia non possiamo non notare che sono collegate tra loro. Le leggi cerimoniali sono, per forza di cose, moralmente importanti, in quanto esigono l’obbedienza al Dio tre volte santo; e le leggi morali hanno a loro volta un significato imprescindibile per le leggi cerimoniali (pratiche di culto) in quanto stabiliscono il modo di vivere che dimostra il timore (rispetto di adorazione) dovuto al Signore. In effetti, tutti i comandamenti della Legge sono talmente interconnessi e interdipendenti da formare un organismo vivente che ha lo scopo di sostenere il popolo di Dio nella sua chiamata a rimanere fedele al patto. Dai comandamenti della Legge dipende la vita o la morte di Israele. Le leggi riguardanti i sacrifici e le cose “pure e impure” hanno a che fare allo stesso tempo con il peccato e il perdono – ciascuna di queste una categoria morale. Le leggi morali riguardanti le persone e le società hanno a che fare con i sacrifici e il culto divino che i membri e il popolo del patto devono al loro Signore.

UN’OBBEDIENZA RADICATA NELL’AMORE

Possiamo inoltre osservare che i partner umani del patto non devono un’obbedienza meramente esteriore alla Legge, ma un’obbedienza proveniente dal cuore, un’obbedienza radicata nell’amore, poiché le creature umane trovano la loro gioia e il loro benessere nel Signore del patto:

E ora, Israele, che cosa chiede da te il Signore, il tuo Dio, se non che tu tema il Signore, il tuo Dio, che tu cammini in tutte le sue vie, che tu lo ami e serva il Signore, il tuo Dio, con tutto il tuo cuore e con tutta l’anima tua, che tu osservi per il tuo bene i comandamenti del Signore e le sue leggi che oggi ti do? Ecco, al Signore tuo Dio appartengono i cieli, i cieli dei cieli, la terra e tutto ciò che essa contiene … Circoncidete dunque il vostro cuore e non indurite più il vostro collo; poiché il Signore, il vostro Dio, è il Dio degli dèi, il Signore dei signori, il Dio grande, forte e tremendo, che non ha riguardi personali…che fa giustizia all’orfano e alla vedova, che ama lo straniero e gli dà pane e vestito. Amate dunque lo straniero, poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto. Temi il Signore, il tuo Dio, servilo, tieniti stretto a lui … Egli è l’oggetto delle tue lodi, è il tuo Dio (Deuteronomio 10:12-21).

VANGELO E LEGGE

La Torah, il Libro del Patto, la precisa Parola di Dio, insegna che esiste una stretta relazione tra il Vangelo e la Legge, come quella tra la fede e l’obbedienza. In ogni passaggio riguardante direttamente il patto (per esempio, nei racconti dell’istituzione del patto con Adamo – prima e dopo la caduta – o in quelli che confermano e rinnovano il patto, in particolare con Noè, Abrahamo e Mosè) il Vangelo precede sempre la Legge, ma è tuttavia subito accompagnato dalla Legge, così come la fede conduce direttamente all’obbedienza. Detto altrimenti, le prescrizioni non sono esterne al Vangelo, ma ogni prescrizione è racchiusa nel Vangelo, e così la vera fede non è mai senza opere.
Naturalmente, la nozione di meriti umani è totalmente esclusa (in questo senso, non si può parlare di Patto delle Opere). Ma la Legge, essendo essa stessa per grazia (cfr. Salmi 119:29), è inclusa nel Patto di Grazia – non è possibile che il popolo di Dio, i membri del patto, abbiano fede senza opere.
Quando il Signore del patto si presenta al suo popolo, lo fa per grazia, e lo fa con promesse e comandamenti. Queste promesse (Vangelo!) e comandamenti (Legge!) del Patto di Grazia si aspettano, richiedono ed esigono che il credente risponda con un’obbedienza nata dalla fede, con la conseguenza che, a breve o lungo termine, seguiranno benedizioni o maledizioni a seconda della fedeltà o infedeltà dei membri del patto.
I sacrifici cruenti e i sacramenti del patto prescritti da Dio nella Torah trovano sia il loro significato ultimo che quello provvisorio nel loro futuro (anche se non completamente conosciuto o rivelato a quel tempo) orientamento verso l’unico e solo sacrificio dell’ “Agnello che è stato immolato fin dalla fondazione del mondo” (Apocalisse 13:8). Nel loro insieme, questi sacrifici servono a mostrare che la via del vero pentimento e del perdono rimane aperta a tutti coloro che, essendo divenuti membri del patto, se ne sono allontanati e cercano di farvi ritorno per esservi ristabiliti. Questo diritto e questa dignità spettano loro per la grazia immeritata del patto.
Consideriamo questo brano dal Levitico – la Parola di Dio:

E confesseranno la loro iniquità e l’iniquità dei loro padri, l’iniquità delle trasgressioni commesse contro di me e della resistenza oppostami … ma allora, se il cuore loro incirconciso si umilierà e se accetteranno la punizione della loro iniquità, io mi ricorderò del mio patto con Giacobbe, mi ricorderò del mio patto con Isacco e del mio patto con Abrahamo, e mi ricorderò del paese … ma per amor loro mi ricorderò del patto stretto con i loro antenati, che feci uscire dal paese d’Egitto, sotto gli occhi delle nazioni, per essere il loro Dio. Io sono il Signore (Levitico 26:40-45).

LA TRADIZIONE ECCLESIALE E LA PAROLA DI DIO

Quando consideriamo la storia del patto, dobbiamo prestare attenzione nel distinguere tra ciò che Dio rivela e comanda (il suo Vangelo; la sua Legge) e ciò che effettivamente accade nella vita dei partner umani del patto – ciò che essi effettivamente credono, pensano, dicono e fanno. La Parola di Dio stessa ci dà un’ampia testimonianza di questa incongruenza da parte del popolo di Dio!
Dio è sempre fedele al suo patto e la sua Parola è sempre vera. Lo stesso non si può dire delle persone che fanno parte del patto, in quanto la loro fedeltà a Lui è mutevole. In certi periodi, in certe epoche (anche se troppo di rado), la loro fedeltà trionfa; fanno progressi; seguono la rotta. Ma troppo spesso accade che, in altri tempi ed epoche, la loro infedeltà prevalga, si tirino indietro, vadano fuori strada, a volte fino a rompere il patto. Da qui nasce una differenza importante tra la Parola di Dio e la tradizione ecclesiale. La Parola di Dio è certa e vera, e poiché, nel corso del tempo e sotto la guida del soffio di Dio, è stata messa per iscritto come Scrittura, essa comunica la sua ineffabile verità al popolo di Dio in un linguaggio comprensibile agli uomini. La tradizione ecclesiale [2], d’altra parte, non è mai al di sopra del bisogno di riesaminare e criticare sé stessa alla luce e al giudizio normativo della Parola di Dio, della sacra Scrittura.
Dal momento in cui sul monte Sinai il popolo del patto e il Libro del Patto hanno cominciato a coesistere secondo il piano sovrano del Signore (in modo che i due si sviluppassero insieme tappa dopo tappa), il popolo di Dio è stato chiamato, capi e membri, a crescere in modo normativo (cioè “secondo la norma/standard”). Ciò avviene rispettando il patto, ascoltando la voce di Dio (Esodo 19:5), sondando sempre più a fondo i dieci comandamenti (Esodo 20), e mettendo in pratica “tutto quello che il Signore ha detto” – in breve, obbedendo (Esodo 24:7).
Il resto della storia raccontata nella Bibbia ci mostra quanto spesso e quanto gravemente i capi e i re d’Israele, così come i sacerdoti e i membri del popolo chiamato “di Dio”, si siano tirati indietro; in quali apostasie siano talvolta caduti; e come si siano allontanati dal Vangelo-Legge.
Questa storia rivela però anche l’eccezione costante: il residuo che rimane fedele al patto, a volte in numero considerevole, altre volte meno, e questo sempre per grazia.
La vita morale generale del popolo e dei membri del patto (il loro comportamento effettivo, in pensiero, parola e azione) si confrontava costantemente con le aspettative dichiarate da Dio e raramente era conforme ad esse. Allo stesso modo, la tradizione ecclesiale, individuale e sociale, ha seguito un percorso nel disprezzo della Torah, dei comandamenti di Dio, ponendosi così sotto i giudizi storici che sono contenuti negli avvertimenti annunciati dalla Parola di Dio.

IL RESIDUO

I profeti Isaia, Geremia, Ezechiele, Gioele, Michea e Sofonia parlano del residuo fedele (o fedeli sopravvissuti). A causa della grazia misericordiosa di Dio (Esdra 9:8; Geremia 23:3; 50:20), del suo zelo ardente (2 Re 19:31; Isaia 37:32), del suo desiderio di proteggere (Isaia 1:9; Ezechiele 14:22; Michea 2:12), della sua redenzione (Isaia 11:11; Geremia 31:7), della sua gloria regale (Isaia 28:5; 66:19 e seg.), e del suo piano di evangelizzazione mondiale (Isaia 66:19 e seg.), c’è sempre stato un residuo fedele: coloro che non si sono allontanati dal patto e mediante i quali il popolo del suo patto sulla terra è stato preservato (senza lacune o interruzioni). Nella storia, essi sono sempre stati “come una rugiada che viene dal Signore” (Michea 5:6).

IL MINISTERO DEI PROFETI

Nel dialogo costante tra Dio e i partner umani del patto, nel quale Dio parla e loro rispondono, positivamente o negativamente, fedelmente o infedelmente, i profeti biblici svolgono un ruolo importante ed esercitano un ministero decisivo.
La loro missione è triplice. Tanto per cominciare, devono porre il popolo del patto – i suoi capi, i sacerdoti e i membri – faccia a faccia con la Torah di Dio, la legge evangelica, in modo che non la dimentichino né manchino di applicarla alla loro vita. Inoltre, e allo stesso tempo, devono confermare la fedeltà del popolo o condannare la sua infedeltà. Infine, devono annunciare le benedizioni o le maledizioni che verranno su di loro.
Anche se l’origine e l’etimologia della parola ebraica per profeta (navi, singolare, nevi’im, plurale) è sconosciuta, o almeno incerta, la parola greca usata per tradurla (prophétes, il prefisso pro aggiunto al verbo phémi, che significa “parlare”) è esplicita e indica un significato unico e triplice.

Il pro-feta è uno che parla:

  1. 1. per Dio;
  2. 2. al popolo o a un determinato membro del popolo, come il re;
  3. 3. prima che una cosa avvenga per annunciarla.

La sacra Scrittura, spesso il miglior dizionario di sé stessa, definisce il vero profeta, colui che non si fa profeta da sé, ma che diventa profeta per chiamata di Dio, nel modo seguente:

  1. 1. È il portatore della Parola di Dio (in Esodo 4:15, Dio dice a Mosè: “Io sarò con la tua bocca”; in Esodo 7:1-2, gli dice: “Tu dirai tutto quello che ti ordinerò”; cfr. Geremia 1:6-7).
  2. 2. Si rivolge a colui e/o coloro ai quali, o contro i quali, Dio lo manda, indipendentemente dallo status e, se gli viene richiesto, a costo dei propri interessi, della propria reputazione, o persino della propria vita (per esempio: Elia che profetizza contro il re Acab (1 Re 18); o Geremia che profetizza contro gli abitanti di Gerusalemme; Geremia 5 e seg.).
  3. 3. Proclama in anticipo la benedizione o il giudizio che verrà (per esempio: Ezechiele 34; Daniele 2).

Il significato biblico della parola profeta è ancora più ampio dato che il profeta di Dio è un “veggente” (2 Samuele 24:11; Isaia 30:10), un “uomo di Dio” (Deuteronomio 33:1; 1 Samuele 2:27; 9:6; 1 Re 13:1; 2 Re 4:9; ecc.), una “sentinella” (Geremia 1:11-12; Ezechiele 3:17), o un “messaggero” (Naum 2:13; 2 Cronache 36:16).
Era per il potere dello Spirito sovrano del Signore che cadeva su di loro che i profeti, i nevi’im, parlavano e/o scrivevano (Ezechiele 11:5; Michea 3:8; Zaccaria 4:6; Esodo 17:14; Giosuè 24:26; Esodo 24:4; Geremia 30:1; Abacuc 2:2).
Ma dobbiamo andare più a fondo, oltre le definizioni generalmente accettate …

IL CONSIGLIO DI DIO

Il profeta è un membro del Consiglio di Dio.
Dobbiamo prima di tutto comprendere il Consiglio di Dio come ciò che risiede in Dio stesso – l’unico Dio nelle tre persone del Padre, l’Angelo del Signore e lo Spirito di Dio (Genesi 1:26; 3:22; 6:3; 11:7). Dio può poi aggiungere a questo Consiglio gli angeli, l’esercito celeste (Giobbe 1:6-12, 2:1-6), ma il più ampio Consiglio di Dio include anche i profeti.
In contrasto con i profeti che fanno parte del Consiglio di Dio, i falsi profeti “espongono le visioni del proprio cuore” e non hanno “assistito al consiglio del Signore, (…) visto, (…) udito la sua parola” (Geremia 23:16-18).
“In verità, il Signore non fa cosa alcuna”, dichiara il profeta Amos, “senza aver rivelato il suo consiglio (sôd) ai suoi servitori, i profeti” (Amos 3:7). La parola ebraica sôd è meglio tradotta come “riunione, deliberazione, consiglio”, piuttosto che “segreto”.
Abrahamo è il primo uomo ad essere chiamato profeta nella Bibbia (Genesi 20:7). Viene così chiamato solo dopo il suo incontro presso le querce di Mamre con le tre persone che in realtà erano una sola, venute da lui per annunciargli la futura nascita del suo unico figlio (Genesi 18:1-16). Così come il Signore non aveva “nascosto” ad Abramo questa nascita straordinaria, così, in Genesi 19, decide di non nascondere più ad Abramo il suo piano di compiere un terribile giudizio su Sodoma e Gomorra (Genesi 18:17 e 19:1-19). 
Mosè, il grande profeta dell’Antico Testamento (Deuteronomio 34:10), il più grande prima di Giovanni il Battista (Matteo 11:9-14), salì sul monte Sinai in diverse occasioni per prendere parte al Consiglio di Dio. Partecipò al Consiglio di Dio anche quando andò al Tabernacolo, la tenda di convegno (Esodo 33:3-11). Dio gli dice “Egli è l’uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca a bocca parlo con lui (ovvero egli ripete fedelmente le mie parole; ciò che la mia bocca dice, la sua bocca anche lo dice), in visione e non con enigmi ed egli guarda l’immagine del Signore” (Numeri 12:7-8). Forte della sua posizione di membro del Consiglio di Dio, accade talvolta che Mosè riesca a far cambiare idea al Signore (Esodo 32:7-14, 30-35; Numeri 14:13-20).
Micaia riferisce di essere stato nel Consiglio del Signore con gli angeli (1 Re 22:19-23), come fa anche Isaia (Isaia 6:1-7). Amos, nel Consiglio, spinge Dio a desistere da ciò che aveva precedentemente deciso di fare (Amos 7:1-3).
Quando lo Spirito di Dio porta un uomo del patto nel suo Consiglio, lo fa prendendo possesso di lui in un determinato momento storico e comunicando a lui per mezzo di visioni, pensieri, parole, a volte in risposta a una riflessione, una preghiera o un’esperienza che Egli stesso gli ha fatto fare (cfr. Daniele 9). In questo determinato periodo di tempo e attraverso questi vari mezzi, lo Spirito di Dio comunica all’uomo i discorsi, le frasi e perfino le stesse parole che vorrebbe che portasse al popolo (il profeta comunica poi il suo messaggio o oralmente, o con segni, o per iscritto, o con una qualsiasi combinazione delle tre cose). Per un tempo più o meno lungo, il profeta è impegnato anima e corpo in questa comunicazione, dapprima in una comunicazione interiore tra Dio e lui, e poi attraverso di lui a coloro a cui Dio lo manda, una comunicazione che viene dal soffio di Dio stesso. Per mezzo dello Spirito del Signore, i suoi sensi, la sua mente, il suo cuore e la sua fede sono in grado di cogliere esattamente ciò che il Signore vuole che si dica al suo popolo. Stupefacente, ad esempio, ciò che la semplice vista di un ramo di mandorlo o di una pentola che bolle può poi rivelare (Geremia 1:11-14)!
Ezechiele ci mostra sia letteralmente sia simbolicamente il significato di questa comunicazione profetica:

       Io guardai, ed ecco una mano stava stesa verso di me, la quale teneva il rotolo di un libro; lo srotolò davanti a me; era scritto di dentro e di fuori e conteneva lamentazioni, gemiti e guai.
   Egli mi disse: «Figlio d’uomo, mangia ciò che trovi; mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele». Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo. Mi disse: «Figlio d’uomo, nùtriti il ventre e riempiti le viscere di questo rotolo che ti do». Io lo mangiai, e in bocca mi fu dolce come del miele (Ezechiele 2:9-3:3).

*

Abramo, Mosè e tutti i profeti dopo di lui, da Samuele a Giovanni il Battista, poterono descrivere, con sempre maggiore chiarezza, l’immagine del Signore Dio che avevano conosciuto, visto e sentito nel suo Consiglio – una tale maestà! Una tale santità! Una tale gloria! (cfr. Esodo 3, Isaia 6, ed Ezechiele 1). La loro stessa descrizione serviva sia a rafforzare il carattere morale del Dio uno e molteplice, trascendente e immanente, fedele al suo patto nella sua grazia quanto nei suoi giudizi, sia a ricordare la legge del patto, riflettendo il carattere del suo Autore. Gli occhi della fede devono essere aperti (Isaia 35:5, 42:7) affinché i membri del patto ricevano questa immagine di Dio delineata dai profeti, ma la loro ricezione di questa immagine non deve in alcun modo indurli a tentare di farne una qualche rappresentazione materiale, né, tanto meno, a farsi una qualsiasi immagine di Dio secondo le proprie immaginazioni, desideri o pensieri. Qui vale la seconda legge del decalogo.
Il fondamento della predicazione profetica e la sua arma principale era la Torah. Era la Torah quella a cui si riferivano ed era la Torah quella che citavano – non limitandosi a ripetere meccanicamente le sue parole a pappagallo, come nenie incantatorie, ma sforzandosi di trasmetterla in modo vivo e pertinente, rigorosamente fedele al suo significato.
La Torah era a tal punto presente nei loro cuori, nei loro ricordi e sulle loro labbra, che era intessuta in tutto il loro messaggio e nei loro scritti.
Da Samuele a Malachia, i profeti, con la Torah, erano sempre accanto al popolo del patto – ai suoi capi, sacerdoti e membri – consigliandoli e rafforzandoli con una parola da parte di Dio nei tempi della loro fedeltà, in obbedienza alla Torah, condannandoli e chiamandoli al pentimento quando erano infedeli e disubbidienti.

GIUDIZI

Già ai tempi di Mosè, il popolo del patto di Dio era stato definito “un popolo dal collo duro” (Esodo 32:9; Deuteronomio 9:6, 13). Essi avrebbero cominciato a fare esperienza dei grandi giudizi di Dio dopo la morte di Salomone, il costruttore del Tempio, quando uno scisma lacerò Israele in due regni: il regno di Israele al nord e il regno di Giuda al sud.
La predicazione dei profeti dell’ottavo secolo (a.C.) come Amos, Osea e, soprattutto, Isaia, non riuscì a prevenire quell’imminente giudizio che venne con la presa di Samaria e la distruzione finale del regno del nord, il regno di Israele.
A sud, il regno di Giuda, con il suo centro spirituale nel Tempio di Gerusalemme, avrebbe resistito per un altro secolo e mezzo.
Ci saranno alcuni re fedeli della dinastia davidica che regneranno con le Scritture alla mano, come Ezechia e soprattutto Giosia, il riformatore. Ma i sermoni infervorati di Geremia, come quelli di Abacuc, Naum e Sofonia, con i loro avvertimenti di un terribile giudizio, rimasero inascoltati, e così questi giudizi vennero su Giuda. Nebukadnetsar si avventò su di loro, catturando Gerusalemme e distruggendo il Tempio, portando poi in esilio un gran numero di abitanti della città (compresi Daniele ed Ezechiele). Con questo giudizio arrivò la fine del regno di Giuda. Da quel momento in poi, né Giuda né il più grande regno di Israele avrebbero avuto un membro della famiglia messianica di Davide a sedere sul suo trono.  Inoltre, con la perdita del Tempio, tutta una parte della Torah non poteva più essere messa in pratica! Era come se la presenza di Dio avesse lasciato il popolo di Dio.

I SAGGI

Lo sviluppo della predicazione profetica fu accompagnato dallo sviluppo di un corpo crescente di insegnamenti sapienziali. Sebbene questa tradizione sapienziale, come la predicazione profetica, risalga al tempo di Mosè, sarà solo con Davide, e più in particolare con Salomone, che verrà stabilito in Israele un corpo di letteratura sapienziale guidato dallo Spirito di Dio. La letteratura sapienziale comprende il Libro di Giobbe, un certo numero di Salmi (37; 49; 112; 122, tra gli altri), il Libro dei Proverbi e l’Ecclesiaste.
I saggi scrivevano in modo diverso dai profeti. Essi componevano opere letterarie che riprendevano e sviluppavano i simboli ispirati della Torah con l’obiettivo di applicare i suoi comandamenti alle loro nuove situazioni pattizie (lo stesso re Salomone, quando agì per mezzo dello Spirito di Dio, fu uno di questi saggi). Questo non significa che essi accantonarono o alterarono radicalmente alcune parti della Torah. Piuttosto, come i profeti, essi rimasero tanto più rigorosamente fedeli al significato del contenuto della Torah, che non può cambiare e non deve essere cambiato, quanto più furono portati a rinnovarne la forma in circostanze mutevoli. Per esempio, impariamo dal Libro di Giobbe che l’ “uomo giusto” deve spesso soffrire anche se non ha fatto nulla per procurarsi tale sofferenza. Impariamo anche, sia in Giobbe sia nell’Ecclesiaste, che non possiamo determinare la posizione di una persona o di un gruppo davanti a Dio semplicemente guardando alle benedizioni o alle maledizioni visibili che stanno vivendo.
Con questi sviluppi da una fase all’altra della rivelazione del patto, la sacra Scrittura, man mano che si espande, si stringe sempre di più sul “significato” della Torah, chiarendola ed elucidandola ulteriormente.

IL CANTICO DEI CANTICI

La Bibbia ebraica è organizzata secondo tre grandi sezioni: la Legge (la Torah), i Profeti (i Nevi’im) e gli Scritti (i Ketuvim) [3]. All’interno di quest’ultima sezione sono inclusi cinque libri più brevi conosciuti come Hamesh Megillot, o “i cinque rotoli”: il Cantico dei Cantici, Rut, Lamentazioni, Ecclesiaste ed Ester [4]. Il più bello di questi cinque – il Cantico dei Cantici, che significa “il Cantico (o poesia) per eccellenza” – merita particolare attenzione per la sua profonda riflessione sulla natura del patto. In effetti, il Cantico dei Cantici potrebbe essere definito “il cuore della Bibbia”.
Questo piccolo libro presenta due livelli di significato. Celebra non solo l’amore fedele goduto all’interno del patto matrimoniale, ma anche l’amore, nel Patto di Grazia, tra il Signore e la sua Chiesa, tra il Signore e il suo popolo.
Queste poche pagine (solo 117 versetti) sono state lette, rilette, ripetute e studiate nel corso dei secoli. All’inizio del secondo secolo, Rabbi Aqiba disse: “Il mondo non aveva né valore né significato prima che il Cantico dei Cantici fosse dato a Israele”. I Dottori medievali come San Bernardo nel XII secolo, i grandi puritani come John Owen e John Gill del XVII e XVIII secolo, hanno meditato e commentato questo libro, celebrando la mistica unione d’amore che pulsa al centro del Patto di Grazia.

Ascolta, Israele: il Signore, il nostro Dio, è l’unico Signore. Tu amerai dunque il Signore, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutte le tue forze (Deuteronomio 6:4-5).

Il mistero del patto è un mistero d’amore. La storia del patto è una storia d’amore.

DANIELE

Alcune osservazioni devono essere qui fatte riguardo al Libro di Daniele, che attinge sia ai libri profetici che a quelli sapienziali, e che è annoverato nella Bibbia ebraica non tra i Nevi’im, i Profeti, bensì tra i Ketuvim, gli Scritti.
Nel Libro X delle sue Antichità giudaiche, Flavio Giuseppe afferma espressamente che Daniele è stato un “profeta di cose buone” e che “ha anche scritto e lasciato dietro di sé ciò che ha reso manifesta l’accuratezza e la veridicità innegabile delle sue predizioni”[5] .
Dopo essere stato deportato a Babilonia, Daniele divenne un coraggioso testimone di Dio al cospetto di Nebukadnetsar, il grande re babilonese che, dopo aver perseguitato Daniele e i suoi compagni (Daniele 1-3), arrivò infine ad affermare “Ora io, Nebukadnetsar, lodo, esalto e glorifico il Re del cielo, perché tutte le sue opere sono vere e le sue vie giuste, ed egli ha il potere di umiliare quelli che procedono con superbia” (Daniele 4:34-37). Il profeta, un ebreo, divenne in seguito un importante uomo di stato, servendo inizialmente i vari sovrani babilonesi, poi quelli medo-persiani e persino Ciro (Daniele 6:1-2, 28; 10:1).
Inoltre, Daniele ricevette uno straordinario dono di previsione storica. Questa visione (data direttamente o tramite l’angelo Gabriele) della storia a lungo termine gli permise di:

  • prevedere e annunciare la successione di quattro grandi imperi (Babilonese, Medo-Persiano, Greco e Romano) che sarebbero crollati alla venuta del Regno di Dio in Cristo (Daniele 2:31-45);
  • prevedere e annunciare l’Ascensione del Figlio dell’uomo che sarebbe salito a Dio sulle nuvole del cielo per essere incoronato come Re eterno su tutte le nazioni (Daniele 7:13-14);
  • prevedere e annunciare, in un passaggio breve e sorprendentemente denso (Daniele 9:24-27), le settanta settimane di anni decretate dal Signore che dureranno quasi cinque secoli, “dal momento in cui è uscito l’ordine di restaurare e ricostruire Gerusalemme” fino alla venuta del Messia, il Principe che sarà “soppresso”. (Notiamo, per inciso, che la Bibbia ebraica presenta due brani in cui i “giorni” vanno intesi come “anni”: Numeri 14:34 ed Ezechiele 4:6).

Esaminiamo la questione più da vicino. Daniele dichiara che le settanta settimane saranno composte da tre fasi consecutive:

  1. Sette settimane (7 x 7 = 49 anni), dall’editto di Ciro fino al completamento della ricostruzione del Tempio.
  2. Sessantadue settimane (62 x 7 = 434 anni), dalla ricostruzione del Tempio fino alla venuta del Principe Messia.
  3. Una settimana (7 anni), nel mezzo della quale il Cristo sarà “tagliato” (stroncato) e il Patto di Grazia sarà confermato per molti (ricordiamo che in ebraico si “taglia un patto”; cfr. Genesi 15:10 e seg.).

Questa cronologia è più che una semplice linea temporale (49 + 434 + 7 = 490 anni); è anche una cronologia simbolica, carica di implicazioni sabbatiche e messianiche. Fondamentalmente, le sette settimane di anni (7 x 7 = 49) sono l’arco di tempo che porta al cinquantesimo anno, l’anno del Giubileo. Le settanta settimane (7 x 7 x 10 = 490), che coprono dieci Giubilei, costituiscono un’indicazione crono-simbolica della venuta di Cristo per la salvezza del mondo, poiché Cristo porterà, con Lui e in Lui, il Giubileo ultimo e tanto atteso: “per recare una buona notizia agli umili; (…) per fasciare quelli che hanno il cuore spezzato, per proclamare la libertà a quelli che sono schiavi, l’apertura del carcere ai prigionieri, per proclamare l’anno di grazia del Signore”, come era stato annunciato dal profeta Isaia (Isaia 61:1-3) e come Gesù avrebbe compiuto secondo la sua parola (Luca 4:16-21). Quasi un millennio e mezzo prima di Gesù Cristo, Dio aveva detto a Mosè: “Conterai pure sette settimane di anni: sette volte sette anni; e queste sette settimane di anni faranno un periodo di quarantanove anni. Poi, il decimo giorno del settimo mese farai squillare la tromba; il giorno dell’espiazione farete squillare la tromba per tutto il paese. Santificherete il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo” (Levitico 25:8-10) [6].
Secondo la grande profezia (Daniele 9:24-27) e il decreto sovrano del Signore, sei cose si compiranno (in tre coppie) durante il tempo di Cristo:

Coppia I:      1. La fine, il compimento dell’ultima
                           trasgressione contro il Santo dei Santi,

                       2. il suggellamento di questo peccato.

Coppia II:     1. L’espiazione della trasgressione e del
                           peccato,

                       2. l’opera di Colui che attua la giustizia
                           eterna.

Coppia III:    1. Il suggellamento della visione e della
                             profezia,
                        2. l’unzione del Santo dei Santi.

Tutto questo è racchiuso nel solo versetto 24.
Durante l’ultima settimana di sette anni (che viene dopo le prime sessantanove settimane [7 + 62]), nel mezzo di questa settimana, il Cristo verrà “tagliato” e il Patto di Grazia sarà pienamente confermato per molti. La seconda metà di questa settimana (tre anni e mezzo dopo la crocifissione del nostro Signore) inizierà con l’avvicendamento del patto da Israele alle altre nazioni mediante la chiamata dell’apostolo delle nazioni, san Paolo (Atti 7:55-8:1; 9:15). 
Concludiamo queste osservazioni sul Libro di Daniele notando delle aggiunte alla fine del versetto 26 e nel versetto 27, che parlano della distruzione della città, della fine dei sacrifici e delle offerte, ecc. Questi versetti dichiarano i tragici eventi dell’anno 70 d.C. (la distruzione di Gerusalemme e del Tempio) che verranno di lì a poco in seguito alla conferma del patto rinnovato.

IL RITORNO DEGLI EBREI E
LA RINASCITA DI ISRAELE

Quando l’editto di Ciro pose fine ai settant’anni di esilio (2 Cronache 36:22 e seg.; Esdra 1:1-4), gli Ebrei (il nuovo nome con cui sono ora conosciuti gli Israeliti e gli abitanti di Giuda; cfr. Geremia 34:9; Esdra 4:12) che tornarono da Babilonia, insieme a quelli che erano rimasti in patria, si impegnarono a ricostruire la città santa e il Tempio, che simboleggiava pure la restaurazione di Israele.
I profeti avevano preannunciato questo ritorno e questa restaurazione. Isaia aveva dichiarato molto tempo prima che Ciro avrebbe compiuto la volontà di Dio, il Redentore del suo popolo, e che Gerusalemme e il santuario sarebbero stati ricostruiti (Isaia 44:24-28). Geremia aveva predetto che l’esilio sarebbe durato settant’anni (Geremia 25:11-12). E in questi eventi si realizzò, almeno in parte, ciò che Ezechiele aveva affermato:

Perciò, così parla il Signore, Dio: “Ora io farò tornare Giacobbe dalla deportazione e avrò pietà di tutta la casa d’Israele, e sarò geloso del mio santo nome … quando li ricondurrò dai popoli e li raccoglierò dai paesi dei loro nemici, e mi santificherò in loro davanti a molte nazioni. Essi conosceranno che io sono il Signore, il loro Dio, quando, dopo averli fatti deportare fra le nazioni, li avrò raccolti nel loro paese … e non nasconderò più loro la mia faccia, perché avrò sparso il mio Spirito sulla casa d’Israele”, dice il Signore, Dio (Ezechiele 39:25-29).

Anche se l’esilio fu davvero un terribile giudizio del Signore sul suo popolo, per grazia del Signore non fu privo di frutti.
In primo luogo, la grande dispersione del regno del nord, la grande diaspora di Israele, portò alla creazione di una forte colonia ebraica lungo l’Eufrate dove molti scelsero di stabilirsi. Inoltre, spinse un gran numero di Ebrei ad emigrare, per terra e per mare, verso le nazioni (goyîm) dove, con la loro testimonianza, avrebbero fatto molti proseliti.
In secondo luogo, la scomparsa del Tempio portò alla moltiplicazione delle sinagoghe non solo in Babilonia e in altre terre straniere, ma anche in Giuda. Gli Ebrei si riunivano nelle sinagoghe, a volte quotidianamente, per la preghiera e lo studio delle Scritture. Anche se i sacerdoti e la maggior parte dei Leviti rimasero legati al Tempio e al suo culto dopo la sua ricostruzione, alcuni Leviti e un numero crescente di laici guidarono queste sinagoghe e divennero scribi eruditi, mantenendo il testo e i suoi insegnamenti. Questi scribi, talvolta chiamati “dottori della legge”, avrebbero preso il posto dei profeti e dei saggi. Ci è detto che Esdra, il sacerdote e scriba (Neemia 8:9), “si era dedicato con tutto il cuore allo studio e alla pratica della legge del Signore, e a insegnare in Israele le leggi e le prescrizioni divine” (Esdra 7:6,10).
Infine, il periodo d’esilio (senza il Tempio!) e il periodo di attesa (senza perdere la speranza!) durante l’esilio portarono una sorta di maturazione spirituale in molti Ebrei. Non solo tutto ciò stimolò il loro desiderio di essere più fedeli, ma li rese anche più aperti a testimoniare alle nazioni del Signore e della sua Parola.

 

Note:

Nota del traduttore: John Murray richiama l’attenzione sulla “stretta unità organica di tutta la Scrittura”, sostenendo che “dobbiamo comprendere che tutta la Bibbia si regge insieme e che le fibre della connessione organica corrono attraverso tutta la Bibbia collegando una parte con ogni altra parte e ciascuna verità con ogni altra verità” (“The Study of the Bible”, Collected Writings of John Murray, vol. 1 [Banner of Truth Trust, 1976], 5). Allo stesso modo, nei suoi commenti sul “giusto requisito della legge ” in Romani 8:4, C. E. B. Cranfield fa la seguente osservazione riguardo all’unità della Legge: “L’uso del singolare è significativo. Mette in evidenza il fatto che i requisiti della legge costituiscono sostanzialmente un’unità, la pluralità dei comandamenti non è una congerie confusa e confusionaria ma un insieme riconoscibile e intelligibile, la volontà paterna di Dio per i suoi figli” (A Critical and Exegetical Commentary on the Epistle to the Romans, vol. 1 [T&T Clark, ed. 2004], 384).

2 Cioè, la tradizione del popolo di Dio – in ebraico, qahal, tradotto più tardi nella Bibbia greca con ekklesia.

3 La Legge (la Torah) va dalla Genesi al Deuteronomio, i Profeti (i Nevi’im) vanno da Giosuè a Malachia, e gli Scritti (i Ketuvim) comprendono i Salmi fino a 2 Cronache. Pertanto, la Bibbia ebraica, secondo il canone tradizionale ebraico, è conosciuta come TaNaKh (Torah + Nevi’im + Ketuvim), per abbreviazione. Per una discussione più esaustiva dei meriti del canone ebraico per la comprensione cristiana dell’Antico Testamento, si veda Pierre Courthial, De bible en bible (2003).

4 Nota del traduttore: L’Ecclesiaste è l’unico libro tra “i cinque rotoli” ad essere considerato anche un pezzo di letteratura sapienziale. Come genere, appartiene alla classe della “letteratura sapienziale”, mentre come libro nel canone della Bibbia ebraica, appartiene ai “cinque rotoli”.

5 The Works of Josephus, trad. William Whitson (Hendrickson Publishers, 2006), 285.

6 La parola giubileo deriva dalla parola ebraica yôbél che significa sia “giubileo” che “ariete”, perché la tromba usata per annunciare il giubileo era un corno d’ariete.


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