Appendice B

GIUSEPPE FLAVIO SULLA CADUTA DI GERUSALEMME

….di conseguenza mi sembra che le disgrazie di tutti gli uomini dall’inizio del mondo, se paragonate a quelle dei giudei, non sono tanto considerevoli come sono state…

Così scrisse Giuseppe Flavio nella prefazione del suo classico: La guerra giudaica, il suo impressionante resoconto della Grande Tribolazione d’Israele. Ripetutamente, il suo racconto di quegli anni terribili presenta l’analogia con le profezie bibliche della distruzione di Gerusalemme. Il lettore degli estratti che seguono farebbe bene a diventare familiare con coi i testi basilari sul giudizio d’Israele, specialmente Deuteronomio 28, il discorso sul Monte degli Ulivi (Matteo 24, Marco 13, Luca 21) e l’Apocalisse.

Le opere di Giuseppe Flavio sono state tradotte in diverse lingue ed edizioni. Gli estratti che seguono provengono da un PDF disponibile in rete. Ho aggiunto i miei sottotitoli a ciascuna citazione e ho diviso alcuni dei passi più lunghi in paragrafi per una più facile lettura, ma la numerazione di ogni sezione corrisponde all’originale. Ho anche inserito alcune note esplicative. Mentre servono a collegare le citazioni quest’appendice non non vuole essere una narrazione continuativa ma semplicemente una collezione di brani che illustrano un tema importante di questo libro: che la caduta di Gerusalemme nel 70 d.C. fu il compimento della profezia pronunciata da Gesù sul monte degli Ulivi.

Questi estratti iniziano col descrivere un po’ del retroterra della rivolta giudaica e termina col suicidio di Masada nel 74 d. C.

Fazioni e falsi profeti   (ii: xiii: 2-6)

2. Della piccola Armenia fece re Aristobulo, figlio di Erode, e al regno di Agrippa aggiunse quattro città con i loro distretti: Abila e Giuliade nella Perea, Tarichee e Tiberiade nella Galilea; il resto della Giudea l’affidò a Felice come procuratore.  Questi catturò il capobrigante Eleazar, che da vent’anni taglieggiava il paese, insieme con molti della sua banda, e li mandò a Roma; furono poi un’infinità i briganti che lui stesso fece crocifiggere, o i paesani che punì come loro complici.

3. Però, mentre il paese veniva così ripulito, in Gerusalemme nacque una nuova forma di banditismo, quella dei cosiddetti sicari, che commettevano assassini in pieno giorno e nel bel mezzo della città. Era specialmente in occasione delle feste che essi si mescolavano alla folla, nascondendo sotto le vesti dei piccoli pugnali, e con questi colpivano i loro avversari; poi, quando questi cadevano, gli assassini si univano a coloro che esprimevano il loro orrore e lo facevano così bene da essere creduti e perciò non era possibile scoprirli.  Il primo ad essere assassinato da loro fu il sommo sacerdote Gionata e, dopo di lui, ogni giorno numerose furono le vittime, ma il terrore era più grande delle uccisioni perché ciascuno, come in guerra, si sentiva ogni momento in pericolo di vita. Si studiavano da lontano le mosse degli avversari e non ci si fidava nemmeno degli amici che si avvicinavano, ma pur fra tanti sospetti e cautele la gente continuava a morire, tanta era la sveltezza degli assassini e la loro abilità nel non farsi scoprire. 

4. Oltre a questi, si formò un’altra banda di delinquenti: le loro mani erano meno lorde di sangue ma le loro intenzioni non erano meno empie, sì che il danno da essi inferto al benessere della città non restò inferiore a quello arrecato dai sicari.  Individui falsi e bugiardi, fingendo di essere ispirati da Dio e macchinando disordini e rivoluzioni, spingevano il popolo al fanatismo religioso e lo conducevano nel deserto promettendo che ivi Dio avrebbe mostrato loro segni premonitori della liberazione. Contro costoro Felice, considerandoli come istigatori alla ribellione, mandò truppe a cavallo e a piedi e ne fece gran strage. 

5. Ma guai ancor maggiori attirò sui giudei il falso profeta egiziano. Arrivò infatti nel paese un ciarlatano che, guadagnatasi la fama di profeta, raccolse una turba di circa trentamila individui che s’erano lasciati abbindolare da lui, li guidò dal deserto al monte detto degli ulivi e di lì si preparava a piombare in forze su Gerusalemme, a battere la guarnigione romana e a farsi signore del popolo con l’aiuto dei suoi seguaci in armi. Felice prevenne il suo attacco affrontandolo con i soldati romani, e tutto il popolo collaborò alla difesa sì che, avvenuto lo scontro, l’egizio riuscì a scampare con alcuni pochi, la maggior parte dei suoi seguaci furono catturati o uccisi mentre tutti gli altri si dispersero rintanandosi ognuno nel suo paese. 

6. Ma dopo che anche questi furono domati, si verificò di nuovo un’infiammazione da un’altra parte, come in un corpo malato. Infatti i ciarlatani e i briganti, riunitisi insieme, istigavano molti a ribellarsi e li incitavano alla libertà, minacciando di morte chi si sottometteva al dominio dei romani e promettendo che avrebbero fatto fuori con la violenza chi volontariamente si piegava alla schiavitù.  Distribuitisi in squadre per il paese, saccheggiavano le case dei signori, che poi uccidevano, e davano alle fiamme i villaggi, sì che tutta la Giudea fu piena delle loro gesta efferate. La gravità di questa guerra andava crescendo di giorno in giorno. 

La tirannia di Gessio Floro    (ii: xiv: 2)

Così era Albino, ma il suo successore, Gessio Floro, lo fece apparire al confronto un fior di galantuomo. Albino le sue ribalderie le aveva commesse per lo più nascostamente e per vie traverse, mentre Gessio si compiaceva di ostentare il suo disprezzo per i diritti della nazione, e come un boia arrivato per giustiziare dei condannati a morte, non si astenne da alcuna forma di ruberia e di vessazione.  Nei casi pietosi era di una ferocia inaudita, nelle turpitudini il più sfrontato; nessuno più di lui gettò discredito sulla verità, né escogitò metodi più insidiosi nel commettere delitti. A lui sembrò piccolo guadagno quello che si poteva ricavare da un solo individuo, e perciò si diede a spogliare intere città e a taglieggiare popolazioni intere, e per poco non arrivò a bandire nel paese che tutti potevano fare i briganti purché a lui toccasse una parte del bottino.  La sua cupidigia gettò la desolazione nelle città e fece sì che molti, abbandonando le avite dimore, si rifugiassero in paesi stranieri. 

Massacro a Gerusalemme   (ii: xiv: 8-9)

8. Floro prese alloggio nella reggia e il giorno dopo, avendo innalzato lì davanti il suo tribunale vi prese posto, mentre affluivano dinanzi a lui i sommi sacerdoti e i notabili e la parte più eletta della cittadinanza.  A costoro Floro comandò di consegnargli chi lo aveva ingiuriato, minacciando che si sarebbe vendicato su di loro, se non avessero tradotto dinanzi a lui i colpevoli. Quelli risposero che il popolo era animato da sentimenti pacifici, e chiesero perdono per coloro che gli avevano rivolto espressioni irriguardose. In una folla tanto numerosa non era meraviglia che vi fossero alcuni elementi troppo temerari e irresponsabili per la giovane età, e così sarebbe stato impossibile individuare i colpevoli perché si erano tutti pentiti e, per la paura, negavano di aver commesso i fatti imputati.  Perciò, se egli era sollecito della pace della nazione e voleva conservare la città ai romani, conveniva che perdonasse ai pochi colpevoli per il gran numero degli innocenti, e non che facesse soffrire un buon popolo tanto numeroso per colpa di pochi malvagi. 

9. A questi discorsi Floro s’infuriò ancora di più e diede ordine ai soldati di saccheggiare la piazza detta superiore e di uccidere chiunque incontrassero. I soldati, essendosi aggiunto alla loro brama di far bottino l’ordine del comandante, non soltanto saccheggiarono il luogo contro cui erano stati mandati, ma facendo irruzione in tutte le case ne massacrarono gli abitanti. La gente cercava di fuggire attraverso i vicoli, ma chi era preso veniva ucciso, e fu commessa ogni sorta di ruberia; furono presi anche molti dei moderati e condotti dinanzi a Floro, che dopo averli fatti flagellare li mise in croce.  Il numero complessivo di coloro che in quel giorno perdettero la vita insieme con le mogli e i figli, poiché nemmeno i bambini vennero risparmiati, fu di tremilaseicento.  Il disastro fu aggravato dall’inconsueta ferocia dei romani: Floro infatti ebbe l’ardire di fare ciò che nessuno prima di lui aveva osato, ordinare che venissero fustigate dinanzi al suo tribunale e poi crocifisse persone appartenenti all’ordine equestre, che se anche erano giudei di nascita, per il loro rango sociale erano romani . 

“E passavano il giorno a scannarsi”    (ii: xviii: 1-5)

1. Nello stesso giorno e alla stessa ora, come per volere divino, i Cesareesi sterminarono i giudei residenti nella loro città: in una sola ora più di diecimila persone vennero trucidate e in tutta Cesarea non rimase un giudeo; infatti quelli che riuscirono a fuggire Floro li fece catturare e gettare in catene negli arsenali.  Alla notizia della strage di Cesarea, l’intera nazione s’inferocì, e organizzatisi in bande si diedero a devastare i villaggi dei Siri e le città vicine, Filadelfia, l’Esebonitide, Gerasa, Pella e Scitopoli.  Poi piombarono su Gadara, Ippo, la Gaulanitide, mettendole a ferro e fuoco, quindi avanzarono contro Cadasa dei Tiri, Tolemaide, Gaba e Cesarea.  Neppure Sebaste e Ascalona resistettero al loro assalto, e dopo averle date alle fiamme distrussero anche Antedone e Gaza. Vennero inoltre devastati molti villaggi nei pressi di queste città, e fu incalcolabile il numero di coloro che furono presi e uccisi. 

2. Non fu peraltro minore la strage di giudei fatta dai Siri, i quali trucidarono anch’essi il nucleo giudaico residente nelle loro città, e non solo per odio, come prima, ma per prevenire la loro minaccia. Tutta la Siria divenne teatro di orribili sconvolgimenti; ogni città si divise in due accampamenti, e la salvezza degli uni consisteva nel prevenire gli altri.  E passavano il giorno a scannarsi, mentre le notti erano ancora più terribili per l’angoscia; infatti essi, pur calcolando di essersi liberati dei giudei, stavano in sospetto per i filogiudei, ma non avevano il coraggio di eliminare senz’altro anch’essi e li temevano, essendo misti, al pari di quelli che erano senza dubbio giudei.  Anche chi era stato sempre considerato fra le persone più miti venne spinto a far strage degli avversari dalla cupidigia; infatti si appropriavano a man salva delle sostanze della gente ammazzata, e come da un campo di battaglia si portavano a casa le spoglie degli uccisi, e si copriva di gloria chi aveva fatto più bottino in quanto ne aveva spacciati di più. Si potevano vedere le città piene di cadaveri insepolti, corpi di vecchi e di bambini gettati alla rinfusa, di donne senza nemmeno il più piccolo indumento, e l’intera provincia piena di orrori indescrivibili; tuttavia il terrore per i mali che incombevano superava quello dei misfatti già compiuti. 

3. Fino a quel momento i giudei si erano scontrati con gli stranieri, ma quando assaltarono Scitopoli s’imbatterono nell’ostilità dei giudei ivi residenti. Questi si erano infatti schierati con gli Scitopolitani e, posponendo la parentela alla propria sicurezza, scesero in campo contro i connazionali.  Ma anche questo eccesso di zelo destò sospetti; infatti gli Scitopolitani ebbero timore che essi di notte s’impadronissero della città e, facendo gran strage di loro, si giustificassero in tal modo con i connazionali per averli traditi. Allora gli Scitopolitani imposero ad essi, se volevano confermare la loro lealtà e comprovare la loro fedeltà verso i non giudei, di trasferirsi insieme con le loro famiglie nel bosco sacro.  Quelli eseguirono l’ordine senza sospetto, e per due giorni gli Scitopolitani se ne stettero quieti per alimentare la loro fiducia; ma nella terza notte, approfittando del momento in cui alcuni avevano allentato la guardia e altri stavano dormendo, li sterminarono in massa, che erano più di tredicimila, e saccheggiarono i beni di tutti. 

4. Merita di esser ricordato il tragico caso di Simone, figlio di una persona di un certo rango di nome Saul, che eccelleva per la forza e il coraggio di cui si era servito a danno dei connazionali. Ogni giorno andando all’assalto aveva ucciso molti dei giudei che stavano attaccando Scitopoli, e spesso, mettendoli tutti quanti in fuga da solo, aveva deciso le sorti del combattimento. Ma lo colse un giusto castigo per la strage dei connazionali; infatti, quando gli Scitopolitani li circondarono nel bosco sacro e presero a colpirli, egli, sguainata la spada, non si scagliò contro nessuno dei nemici, che erano un’immensa moltitudine, ma uscì invece in questi accenti drammatici: “Ricevo da voi il dovuto castigo per ciò che ho fatto, Scitopolitani, io e quelli che hanno ucciso tanti connazionali per confermarvi la nostra lealtà. Perciò è giusto che moriamo di nostra mano come sacrileghi noi, che ben a ragione abbiamo sperimentato la perfidia dello straniero e abbiamo toccato il culmine dell’empietà verso i consanguinei; infatti noi non siamo degni di cadere per mano dei nemici. Lo stesso atto mi sia insieme di meritato castigo per gli empi misfatti e di lode per il coraggio, affinché nessuno dei nemici abbia a gloriarsi di avermi ucciso e a menar vanto sul mio cadavere”. Ciò detto, gettò sulla famiglia uno sguardo pieno di commiserazione e insieme di furore: aveva moglie, figli e i vecchi genitori.  Afferrò prima il padre per i suoi bianchi capelli e lo trafisse con la spada, dopo di lui la madre, che non oppose resistenza, e poi la moglie e i figli: per poco ognuno di questi non si fece incontro alla spada nel desiderio di prevenire i nemici.  Dopo aver ucciso tutta la famiglia, salì ben in vista sul mucchio dei cadaveri e con la destra protesa, sì che tutti potessero scorgerlo, s’immerse tutt’intera la spada nella gola; tale fu la fine di un giovane degno di commiserazione per il vigore del corpo e la fermezza dell’animo, ma a cui toccò il destino di chi si fida degli stranieri. 

5. Dopo l’eccidio di Scitopoli, anche nelle altre città si verificarono violenze e uccisioni a danno dei giudei residenti in ciascuna di esse; gli Ascaloniti ne uccisero duemila e cinquecento, quelli di Tolemaide duemila, e non pochi ne gettarono in catene. Anche i Tiri ne uccisero un gran numero e più ancora ne rinchiusero in prigione; così pure quelli di Ippo e di Gadara ammazzarono i più facinorosi e misero in carcere i meno pericolosi, e lo stesso fecero tutte le altre città della Siria a seconda dell’avversione o della paura che provavano per i giudei….

50.000 giudei assassinati ad Alessandria (66 d. C.)   (ii: xviii: 8)

8. Questi, visto che  senza una grossa batosta i rivoluzionari non avrebbero smesso, inviò contro di loro le due legioni romane accasermate in città e, insieme, duemila soldati che per combinazione erano allora arrivati dall’Africa per completare la rovina dei giudei; concesse loro non soltanto di uccidere, ma anche di saccheggiare i beni dei giudei e di bruciarne le case.  Le truppe mossero all’attacco del quartiere chiamato Delta, dove abitavano i giudei, ed eseguirono gli ordini, ma non senza subire perdite; infatti i giudei essendosi radunati, e collocati in prima fila quelli dei loro che erano meglio armati, resistettero assai a lungo, poi, una volta piegati, subirono un’immensa strage.  Ne morirono in tutte le maniere, alcuni catturati in campo aperto, ed altri stipati dentro le case. I romani, dopo aver saccheggiato quanto contenevano, vi appiccarono il fuoco e non ebbero pietà dei bambini, né vergogna per i vecchi, ma uccisero tutti senza distinzione d’età, sì che tutto il quartiere fu inondato di sangue e si ammonticchiarono cinquantamila cadaveri; anche i superstiti sarebbero stati trucidati, se non avessero implorato pietà. Alessandro ne ebbe compassione e comandò ai romani di ritirarsi. Questi, che erano avvezzi all’obbedienza, appena udito il segnale abbandonarono la mischia, ma il popolino di Alessandria, per il grande odio che aveva contro i giudei, non fu facile richiamarlo e a fatica si poté staccarlo dai cadaveri. 

Giovanni di Giscala    (ii: xxi: 1)

1. Mentre Giuseppe così organizzava la difesa in Galilea, gli si levò contro un intrigante di Giscala di nome Giovanni, figlio di Levi, il più farabutto e il più astuto fra tutti quelli famosi per simili pessime qualità. Povero dapprincipio, e per lungo tempo impedito dal mal fare proprio dalla sua povertà, pronto a mentire, abile nel far credere alle sue menzogne, egli considerava l’inganno una virtù e se ne serviva anche contro le persone più care, e mentre fingeva mitezza era prontissimo a uccidere anche solo per la speranza di un guadagno. Sempre bramoso di grandezza, ma capace di realizzare i suoi progetti soltanto con piccoli colpi perché era un bandito solitario, più tardi trovò anche compagnia per il suo vivere criminoso, piccola dapprima, poi sempre più numerosa. Aveva cura di non accogliere nessuno che potesse facilmente esser preso, ma sceglieva gli individui che si distinguevano per prestanza, coraggio ed esperienza di guerre, finché radunò una banda di quattrocento uomini, che per lo più si erano dati alla macchia provenendo dalla regione di Tiro e dai villaggi vicini.  Alla loro testa saccheggiò tutta la Galilea e vessò le masse che erano già preoccupate per la guerra imminente. 

La Galilea “ripiena di fuoco e sangue”    (iii: iv: 1)

1. … Causò invece un inasprimento della guerra nella regione perché i romani, inferociti per la sua incursione, non cessavano né di notte né di giorno di devastare le loro pianure e di saccheggiare i beni del paese, uccidendo tutti gli uomini validi alle armi e trascinando in schiavitù i più deboli.  Tutta la Galilea fu un mare di fuoco e di sangue e subì ogni sorta di sofferenza e di rovina…

La distruzione di Iotapa    (iii: vii: 36)

36. Quel giorno i romani massacrarono tutti coloro che si fecero vedere; nei successivi esplorarono i nascondigli e uccisero chiunque si celava nei sotterranei e nelle caverne senza alcun riguardo all’età, tranne le donne e i bambini.  Di prigionieri se ne raccolsero milleduecento; i morti fra quelli dell’attacco finale e quelli degli scontri precedenti assommarono a quarantamila.  Vespasiano  ordinò che la città fosse distrutta e appiccò il fuoco a tutti i suoi fortini. Così fu presa Iotapata nel tredicesimo anno del regno di Nerone, al novilunio del mese di Panemo. [Tamuz]

Il mare diventa sangue   (iii: ix: 2-4)

2. Intanto i giudei che in occasione dei disordini erano stati esiliati dalle loro città e, insieme, quelli scampati dalle città distrutte, una non piccola moltitudine, si raccolsero e ricostruirono come loro centro Ioppe, che era stata in precedenza devastata da Cestio; poi, trovandosi esclusi dall’entroterra, che era controllato dai nemici, decisero di rivolgersi al mare. Si costruirono un gran numero di vascelli adatti a esercitare la pirateria e si diedero a infestare le rotte lungo la Siria e la Fenicia e verso l’Egitto, rendendo quelle acque impraticabili per chiunque. Vespasiano, quando apprese ciò che avevano organizzato, inviò contro Ioppe fanti e cavalieri, che una notte piombarono nella città trovandola incustodita. I suoi abitanti erano stati informati per tempo dell’attacco e, presi dalla paura, avevano rinunziato a resistere ai romani e si erano rifugiati sulle loro navi, dove pernottarono standosene al largo fuori tiro. 

3. Ioppe è per sua natura sprovvista di un porto; infatti si affaccia su un litorale pietroso e tutto diritto salvo che s’incurva leggermente alle due estremità, ove s’innalzano grosse moli dirupate e scogli che si protendono verso il mare: vi si mostrano ancora le tracce delle catene di Andromeda a testimonianza dell’antica storia. Il vento del nord batte direttamente sulla costa e, sollevando enormi ondate che s’infrangono sugli scogli contrapposti, rende l’approdo più pericoloso di una landa inospitale.  In questo specchio d’acqua bordeggiavano quelli di Ioppe quando verso l’alba furono investiti da un vento furioso, che dai naviganti di quella zona viene chiamato “borea nero”.  Alcune navi le distrusse sul posto facendole cozzare l’una contro l’altra, altre le infranse contro gli scogli, e molte gli enormi flutti ne sommersero al largo, dove erano state spinte contro corrente per evitare la costa irta di scogli e i nemici che l’occupavano. Non v’era né luogo dove rifugiarsi né possibilità di salvarsi rimanendo sul posto, perché la violenza del vento li respingeva dal mare e i romani dalla città. Era un susseguirsi di tonfi sinistri per le navi che venivano a collisione fra loro e di cupi fragori quando si sfasciavano. Della moltitudine che s’era imbarcata alcuni perirono travolti dalle onde, molti impigliati fra i rottami; altri, considerando la spada meno orribile del mare, anticiparono la morte col suicidio. Ma il più gran numero di essi, strappati dai flutti, vennero sbattuti sulla scogliera e per larghissimo tratto il mare si arrossò di sangue mentre il litorale si riempiva di cadaveri; infatti i romani aggredivano e massacravano tutti quelli che erano spinti a riva. Il numero dei corpi rigettati dal mare fu di quattromila e duecento. Così i romani presero senza combattere la città e la distrussero. 

4. In poco tempo, dunque, Ioppe fu per la seconda volta presa dai romani. Vespasiano, per impedire che i pirati vi si annidassero di nuovo, costruì un accampamento sull’acropoli sistemandovi la cavalleria con pochi fanti,  e affidò a questi il compito di restare sul posto a guardia del campo mentre i cavalieri dovevano devastare il territorio circostante e distruggere i villaggi e le cittadine attorno a Ioppe. Secondo gli ordini costoro fecero ogni giorno delle scorrerie mettendo a ferro e fuoco tutto il paese. 

“Caduti da ogni parte”   (iii: x: 3)

… Vespasiano aveva anche inviato Antonio Silone con duemila arcieri a occupare le alture sovrastanti la città  e battere di là i nemici che si affacciassero dalle mura. Gli arcieri, secondo gli ordini ricevuti, tennero in rispetto costoro impedendo che potessero collaborare alla difesa mentre Tito spronava per primo il suo cavallo contro i nemici: lo seguirono con grida bellicose tutti gli altri dispiegandosi nella pianura lungo tutta la fronte degli avversari sì da apparire anche molto più numerosi. I giudei, sebbene stupiti dal loro impeto e dalla perfezione della – manovra, resistettero per un poco all’attacco, ma poi, colpiti dalle lance e sbaragliati dalla carica dei cavalieri, vennero travolti e calpestati. Dopo che molti erano caduti da ogni parte, gli altri si dispersero cercando ognuno di ripararsi in città quanto più presto poteva. Tito alcuni ne uccise raggiungendoli e colpendoli alle spalle, altri ne abbatté attraversando impetuosamente le loro schiere, altri superandoli in velocità e voltandosi poi a caricarli, molti infine ne sterminò piombando sui gruppi di quanti erano caduti ostacolandosi l’un l’altro.  A tutti cercava d’impedire che potessero arrivare alle mura e li rigettava verso la pianura finché quelli, grazie al loro numero preponderante, riuscirono ad aprirsi a forza un passaggio e a rifugiarsi entro la città. 

Il Mar di Galilea “pieno di cadaveri”    (iii: x: 9)

9. Quando le zattere furono pronte, Vespasiano vi fece montare il numero di soldati che stimò sufficiente per avere ragione degli uomini che stavano sul lago e le inviò all’attacco. Così incalzati, quelli non potevano né trovare scampo sulla terraferma, che era tutta in mano dei nemici, né affrontare una battaglia navale in condizioni di parità; infatti i loro legni, di piccole dimensioni e adatti alla pirateria, erano troppo deboli per affrontare le zattere, e inoltre i pochi uomini imbarcati su ciascuno di essi avevano paura di accostarsi alle nutrite schiere degli attaccanti romani. Ad ogni modo, girando attorno alle zattere e talora anche facendosi sotto, da lontano colpivano i romani col lancio di pietre, e rasentandoli li assalivano con le armi. Ma in entrambi i casi erano loro ad aver la peggio; infatti con le loro pietre non producevano altro che un continuo crepitio, dato che tiravano su uomini rivestiti di corazze, mentre al tempo stesso diventavano facile bersaglio per i dardi dei romani; quando poi osavano di avvicinarsi, prima ancora di aver potuto causare qualche perdita venivano sopraffatti e colavano a picco insieme con i barconi. Di quelli che cercavano di attraversare il loro schieramento, i romani alcuni li colpirono trafiggendoli coi loro giavellotti, altri con le spade saltando nei barconi, altri accerchiandoli con le zattere e prendendoli in mezzo insieme coi barconi. Quanti tornavano a galla, dopo esser caduti in acqua, o erano trafitti da una freccia o catturati da una zattera, e a chi, preso dalla disperazione, cercava di abbordare le zattere i romani tagliavano la testa o le mani. Se ne fece una gran strage in vari modi e da ogni parte finché furono sbaragliati e i superstiti, circondati i loro barconi, furono sospinti verso terra. Mentre balzavano giù, molti vennero colpiti quando si trovavano ancora nel lago e molti i romani li uccisero assalendoli quando mettevano piede a terra. Si poteva vedere tutto il lago arrossato dal sangue e pieno di cadaveri, perché nessuno scampò. Nei giorni seguenti, la contrada fu in preda a un orribile fetore e offrì uno spettacolo tremendo; infatti sulle rive assieme ai rottami si ammucchiavano cadaveri rigonfi, e i corpi riarsi dal calore andando in putrefazione appestavano l’aria, sì che la catastrofe non soltanto suscitò lo strazio nei giudei, ma divenne anche insopportabile a chi l’aveva causata. Tale fu l’esito di quella battaglia navale, e computando anche quanti erano caduti precedentemente nella città i morti assommarono a seimila e settecento. 

Gli Edomiti rendono desolato il tempio    (iv: v. 1-4)

1. Gli Idumei furono d’accordo e attraversando la città salirono al tempio. Gli Zeloti aspettavano ansiosamente il loro arrivo e, quando essi entrarono nel recinto, si fecero loro incontro baldanzosamente dall’interno del tempio. Unitisi agli Idumei si scagliarono sugli assedianti e ne uccisero alcuni dei più vicini immersi nel sonno; alle gridi di chi si svegliava balzarono tutti in piedi atterriti e, afferrate le armi, s’avanzarono a battaglia. Fino a che credettero che ad assalirli fossero i soli Zeloti, si batterono coraggiosamente confidando di aver la meglio per il loro gran numero, ma quando videro che altri irrompevano dal di fuori capirono che gli Idumei erano penetrati nella città. Allora i più furono presi dallo sconforto e, gettate le armi, scoppiarono in lamenti; soltanto pochi fra i giovani, strettisi insieme, opposero un’animosa resistenza agli Idumei e per parecchio tempo protessero la moltitudine inerte.  Questa con le sue grida rivelò ai cittadini la tragica situazione che s’era creata, ma nessuno di quelli ebbe l’ardire di venire al soccorso quando seppero che gli Idumei erano entrati in città, e si limitarono a rispondere con inutili grida e lamenti, mentre si levava un coro di gemiti da tutte le donne in ansia per qualcuno degli uomini di guardia. Dall’altra parte gli Zeloti facevano eco al grido di guerra degli Idumei, e i loro clamori riuniti erano resi ancora più terrificanti dal frastuono della tempesta. Gli Idumei non risparmiarono nessuno, sia perché erano per natura feroci e sanguinari, sia perché, ridotti a mal partito dal temporale, si sfogarono contro chi li aveva tenuti fuori delle mura; trattarono con uguale spietatezza tanto chi li implorava quanto chi opponeva resistenza, e passarono a fil di spada anche molti che si appellavano ai legami di parentela o li supplicavano di aver rispetto per il loro santuario comune . Non v’era alcuna via di scampo né speranza di salvezza, ma risospinti l’uno sull’altro venivano trucidati, e i più, incalzati dove non c’era più spazio per indietreggiare mentre i loro carnefici avanzavano, presi dalla disperazione si precipitavano a capo fitto sulla città, affrontando volontariamente una morte a mio parere più dolorosa di quella cui si sottraevano. Il piazzale antistante al tempio fu tutto un lago di sangue, e il giorno spuntò su ottomila e cinquecento cadaveri. 

2. Costoro non bastarono però ad appagare il furore degli Idumei, che, rovesciatisi sulla città, depredavano ogni casa e uccidevano chiunque capitava. Ma a sfogarsi sulla gente comune sembrava loro di perdere il tempo, e diedero la caccia ai sommi sacerdoti sguinzagliandosi per la maggior parte contro di loro. In breve li presero e li uccisero; poi, accalcandosi presso i loro cadaveri, beffeggiavano Anano per il suo amor di patria e Gesù per il suo discorso dalle mura. Giunsero a tal punto di empietà, da gettarli via insepolti, mentre i giudei si danno tanta cura di seppellire i morti, che finanche i condannati alla crocifissione vengono deposti e sepolti prima del calar del sole. Non credo di sbagliare dicendo che la morte di Anano segnò l’inizio della distruzione della città, e che le sue mura caddero e lo stato dei giudei andò in rovina a cominciare dal giorno in cui essi videro scannato in mezzo alla città il loro sommo sacerdote e il capo della loro salvezza. 

Era stato un uomo venerando sotto ogni rispetto e di assoluta integrità, che pur dall’alto della sua nobiltà, del suo rango e della sua onorifica posizione si era sempre compiaciuto di trattare alla pari anche le persone più umili, un uomo straordinariamente attaccato alla libertà e alla democrazia, che all’interesse privato aveva sempre anteposto il bene comune. Quello di salvare la pace fu il primo dei suoi pensieri, perché sapeva che non sarebbe stato possibile battere i romani, ma, costretto dalla necessità, si preparò anche alla guerra in modo che, se i giudei non fossero riusciti a raggiungere un accordo, potessero almeno scendere in campo in condizioni favorevoli. Insomma, se Anano fosse sopravvissuto, certamente i giudei sarebbero venuti a un’intesa, perché egli era un abile parlatore, capace di convincere il popolo, e già aveva preso il sopravvento sugli avversari; altrimenti, in caso di guerra, avrebbero dato molto filo da torcere ai romani sotto un simile comandante. A lui si affiancava degnamente Gesù, inferiore rispetto ad Anano, ma superiore agli altri. Debbo ritenere che Dio, avendo condannato alla distruzione la città contaminata e volendo purificare col fuoco i luoghi santi, eliminò coloro che vi erano attaccati con tanto amore.  E quelli che poco prima, avvolti nei sacri paramenti, avevano presieduto a cerimonie di culto di portata universale ed erano stati oggetto di venerazione da gente venuta nella città da ogni paese, era dato ora di vederli gettati ignudi in pasto ai cani e alle fiere.  Su uomini siffatti io credo che la stessa virtù abbia lacrimato, lamentando di esser stata così calpestata dalla malvagità: tale fu la fine di Anano e di Gesù. 

3. Dopo la loro uccisione gli Zeloti e la massa degli Idumei si avventarono sul popolo facendone macello come di un branco di bestie immonde. La gente comune veniva massacrata sul posto appena era presa, mentre i giovani della nobiltà dopo la cattura li incatenarono e li gettarono in prigione, rinviandone l’uccisione nella speranza che qualcuno passasse dalla loro parte. Ma nessuno si lasciò persuadere, perché tutti preferirono morire anziché schierarsi insieme con quei criminali contro la patria. Terribili furono i supplizi cui vennero sottoposti dopo il rifiuto; furono flagellati e torturati, e solo quando il corpo non era più in grado di resistere ai tormenti, a stento concedevano loro il colpo di grazia. Quelli presi di giorno venivano massacrati di notte, e i loro cadaveri erano trasportati fuori e buttati via per far posto ad altri prigionieri. Tale fu il terrore del popolo, che nessuno osava né lacrimare apertamente un congiunto ucciso né dargli sepoltura, ma piangevano nascostamente dopo essersi rinchiusi in casa, e gemevano badando a non farsi sentire dai nemici, altrimenti chi piangeva avrebbe immediatamente subito la stessa sorte del compianto. Sui cadaveri, durante la notte, raccoglievano e gettavano un pugno di terra, e non mancò qualche coraggioso che osò farlo anche in pieno giorno. Dodicimila furono i giovani della nobiltà che perirono in questo modo. 

4. Nauseati ormai dai massacri indiscriminati, quelli organizzarono la farsa di un regolare processo. Si erano prefissi di eliminare uno dei personaggi più in vista, Zaccaria  figlio di Baris, contro il quale li avevano inveleniti la sua grande avversione al male e l’amore per la libertà; inoltre era anche ricco, sì che non solo speravano di appropriarsi dei suoi beni, ma anche di liberarsi di un avversario potente e temibile. Pertanto intimarono a settanta dei cittadini più ragguardevoli di radunarsi nel tempio, assegnarono a questi come in una rappresentazione teatrale la funzione di giudici senza alcun effettivo potere, e dinanzi a loro accusarono Zaccaria di voler consegnare la patria ai romani e di aver organizzato il tradimento mettendosi in relazione con Vespasiano. Le accuse non si fondavano né su una prova né su un indizio, ma essi dichiararono di esserne fermamente convinti e pretendevano che ciò bastasse a ritenerle vere. Zaccaria, visto che non gli restava alcuna speranza di salvezza, giacché era stato convocato non in un tribunale ma in una prigione, non si lasciò chiudere la bocca dalla disperazione, ma si levò a sottolineare la balordaggine delle accuse e in breve demolì gli argomenti addotti contro di lui. Poi, ritorcendo il discorso contro gli accusatori, enumerò tutti i loro misfatti e si soffermò a deplorare la catastrofica situazione che n’era derivata. Gli Zeloti andarono sulle furie e a stento si trattennero dallo sguainare le spade perché volevano spingere fin in fondo la celebrazione del processo per gioco e, per di più, mettere alla prova i giudici, per vedere se avrebbero rispettato la giustizia anche con pericolo della loro vita.I settanta all’unanimità votarono per l’assoluzione dell’imputato, preferendo affrontare la morte insieme con lui anziché accollarsi la responsabilità della sua condanna. Di fronte alla sentenza di assoluzione gli Zeloti scoppiarono in schiamazzi, e mentre tutti inveivano contro i giudici per non aver capito che si era trattato solo di una burla, due dei più facinorosi si avventarono su Zaccaria, lo uccisero in mezzo al tempio e ne schernirono il cadavere dicendo: “Eccoti anche il nostro voto per essere più sicuro di andartene”; poi dall’alto del tempio lo gettarono nel sottostante burrone. I giudici li percossero ignominiosamente col rovescio delle spade scacciandoli dal tempio, e li risparmiarono soltanto perché, ritornandosene alle loro case, facessero sapere a tutti chi erano i padroni. 

Come gli Zeloti compirono le profezie    (iv: vi: 3)

3. I generali riconobbero la validità di queste considerazioni di Vespasiano, e in breve l’acutezza del suo disegno strategico fu resa manifesta dal gran numero di disertori che cominciarono ad arrivare ogni giorno eludendo la vigilanza degli Zeloti. E non era facile la fuga, perché tutti i passaggi obbligati erano stati messi sotto controllo e chiunque veniva sorpreso era passato per le armi con l’imputazione di voler raggiungere i romani. Però chi pagava veniva lasciato andare, sicché traditori erano solo quelli che non potevano pagare, con la conseguenza che ad essere uccisi erano solo i poveri mentre i ricchi si compravano il lasciapassare. Lungo tutte le strade si accumulavano grossi mucchi di cadaveri, e molti che si apprestavano a fuggire cambiavano idea preferendo morire entro la città: la speranza di ricevere sepoltura rendeva ai loro occhi meno amara la morte in patria. Gli Zeloti, comunque, arrivarono a tanta ferocia, da non seppellire né gli uccisi in città né quelli uccisi sulle strade, e come se si fossero espressamente impegnati a calpestare le leggi della patria in una con le leggi della natura, e a contaminare la divinità in aggiunta alle offese contro gli uomini, lasciavano che i cadaveri andassero in putrefazione sotto i raggi del sole. Per chiunque seppelliva un parente, come per i disertori, era la pena di morte, e chi si preoccupava di dare sepoltura ad un altro si trovava poco dopo a doverla implorare per sé. In breve, fra tutte quelle miserie nessun nobile sentimento andò così completamente perduto come la pietà. Infatti ciò che avrebbe dovuto ispirare compassione aveva invece l’effetto di eccitare quegli scellerati, che dai vivi passavano a sfogare la loro furia bestiale sui morti, e dai morti sui vivi. 

Era tanto il terrore, che chi non aveva ancora avuto a che fare con gli Zeloti invidiava chi già era caduto nelle loro mani, come se si fosse liberato da un incubo, e a quelli che venivano torturati nelle prigioni parevano fortunati, al loro confronto, anche gli uccisi lasciati insepolti. Ogni legge umana fu da loro violata, furono messe in burla le cose divine e derise le predizioni dei profeti come chiacchiere di ciarlatani. E invece in quelle predizioni si toccavano i fondamenti del bene e del male, che gli Zeloti offesero provocando l’avverarsi della profezia contro la patria.  Esisteva infatti un antico detto d’ispirazione divina secondo cui, quando la città fosse caduta in preda alla guerra civile e il tempio del Dio profanato per colpa dei cittadini, allora essa sarebbe stata espugnata e il santuario distrutto col fuoco dai nemici. Pur non negando fede a questa profezia, gli Zeloti si fecero strumento del suo avverarsi. 

Le “continue stragi” di Simone    (iv: ix: 7-8)

7. Simone, essendo inaspettatamente penetrato nell’Idumea senza colpo ferire, con un attacco di sorpresa s’impadronì per prima della cittadina di Hebron, dove fece molto bottino e asportò grandi quantità di viveri. Come affermano i suoi abitanti, Hebron è più antica non solo delle altre città della regione, ma anche di Menfi d’Egitto; infatti le si attribuiscono duemilatrecento anni. Raccontano, anzi, che ivi abitò Abramo, il progenitore dei giudei, dopo il suo ritorno dalla Mesopotamia, e di lì dicono che i suoi discendenti scesero in Egitto. In questa città si additano ancora le loro tombe, di marmo prezioso e finemente lavorate. A sei stadi dalla città si mostra un immenso terebinto, e dicono che l’albero sia lì sin dal giorno della creazione. Da Hebron Simone prese a fare le sue incursioni in tutta l’Idumea, non soltanto saccheggiando villaggi e città, ma divorando anche la campagna perché i viveri non bastavano a una sì grande moltitudine: oltre gli armati lo seguiva una turba di quarantamila persone. A tali bisogni si aggiungeva la sua ferocia e l’odio per quella popolazione, onde ancor più gravi risultarono i guasti inflitti all’Idumea. Come si può vedere un bosco completamente spogliato dopo che son passate le cavallette, così alle spalle dell’esercito di Simone restava il deserto; qui incendiavano, lì demolivano, e poi distruggevano tutta la vegetazione del paese o calpestandola o tagliandola, e la terra lavorata diventava sotto i loro piedi più dura di quella non lavorata. Insomma, di quello che essi distruggevano non restava nemmeno un segno che fosse mai esistito. 

8. Tutto ciò ebbe l’effetto di rinfocolare le apprensioni degli Zeloti; questi non osarono affrontarlo in campo aperto, ma gli tesero degli agguati e catturarono sua moglie e parecchie persone del suo servizio. Poi, tutti trionfanti come se avessero preso Simone in persona, fecero ritorno in città aspettandosi che fra breve quello, deposte le armi, sarebbe venuto a supplicarli di restituirgli la moglie. E invece non da pietà, ma da furore egli fu preso per il rapimento e, avvicinatosi alle mura di Gerusalemme, sembrava una belva ferita che, non potendo sfogarsi sui feritori, si sfogava su chi capitava. Chiunque usciva dalle porte per raccoglier erbe o legna, anche se disarmato o vecchio, egli lo faceva catturare e uccidere fra i tormenti, inferocito al punto che per poco non divorava le carni dei morti. Molti anche ne rimandò indietro con le mani mozzate, col proposito di atterrire i nemici e, insieme, di istigare il popolo contro i colpevoli. Per mezzo di essi mandò a dire che Simone aveva giurato sul Dio cui nulla sfugge che, se non si fossero affrettati a restituirgli la moglie, avrebbe sfondato le mura e inflitto il medesimo castigo a tutti gli abitanti della città, senza nessun riguardo per l’età e senza distinzione fra innocenti e colpevoli. Tali minacce atterrirono non soltanto il popolo, ma anche glgli Zeloti, che gli rimandarono la moglie, ed egli per il momento si acquietò sospendendo per un poco le continue stragi. 

“Ma il Dio sconvolse le loro menti ed essi pensarono di ricorrere a un rimedio peggiore del male”    (iv: ix: 10-11)

10. Simone, dopo aver strappato la moglie dalle mani degli Zeloti, si rivolse di nuovo contro ciò che restava dell’Idumea, e assaltando da ogni parte la popolazione costrinse i più a fuggire a Gerusalemme. Egli li inseguì fino alla città e, circondate di nuovo le mura, metteva a morte tutti quelli che uscivano per lavorare in campagna e cadevano nelle sue mani.  Così per il popolo Simone era, fuori le mura, un nemico più terribile dei romani, mentre all’interno più feroci degli altri due erano gli Zeloti, fra i quali si distingueva per i disegni delittuosi e per la temerità il gruppo dei Galilei; erano stati infatti costoro a portare al potere Giovanni, ed egli li ricompensava del predominio che gli avevano procurato concedendo a ciascuno di fare ciò che voleva. Con un insaziabile desiderio di preda frugavano le case dei ricchi, uccidevano gli uomini e stupravano le donne come fosse un gioco; poi col bottino lordo di sangue gozzovigliavano e infine, sazi, si abbandonavano senza ritegno all’effeminatezza acconciandosi i capelli, indossando abiti da donna, cospargendosi di profumi e dandosi il bistro agli occhi per farsi più belli. E le donne non le imitavano soltanto nel modo di agghindarsi, ma anche nelle pratiche amorose, ideando con frenetica dissolutezza infami amplessi, rotolandosi nella città come in un bordello, dopo averla tutta insozzata con le loro nefandezze. Ma se avevano visi di donna, le loro erano mani d’assassini: mentre procedevano con molle andatura all’improvviso si trasformavano in audaci uomini d’arme, ed estraendo le spade da sotto alle vesti dai colori sgargianti trafiggevano chiunque capitava. Chi fuggiva da Giovanni riceveva da Simone un’accoglienza ancora più funesta, e se uno si salvava dal tiranno di dentro periva ad opera di quello di fuori. Per chi voleva passare ai romani ogni via di scampo era sbarrata. 

11. Ma tra le forze di Giovanni scoppiò la rivolta, e tutti gli Idumei che ne facevano parte si staccarono e insorsero contro il despota, invidiosi della sua potenza e stanchi della sua crudeltà. Passati all’attacco, uccisero un gran numero di Zeloti e i rimanenti li costrinsero a rifugiarsi nel palazzo reale costruito da Grapte, una parente di Iza, re degli Adiabeni; Ma assieme agli Zeloti vi fecero irruzione anche gli Idumei, che di là li ricacciarono fin nel tempio; poi si diedero al saccheggio dei tesori di Giovanni, che abitava nel palazzo suddetto e vi aveva riposto il frutto della sua prepotenza.  Nel frattempo la massa degli Zeloti che era dispersa nella città si raccolse nel tempio unendosi a quelli che erano stati messi in fuga, e Giovanni si preparò a guidarli giù contro il popolo e gli Idumei. Questi ebbero paura non tanto del loro attacco, essendo più forti in combattimento, quanto della loro follia, pensando che quelli di nottetempo potevano fare una sortita dal tempio, ucciderli e dar fuoco alla città. Si radunarono allora a consiglio con i sommi sacerdoti per deliberare come difendersi dal loro assalto. Ma il Dio sconvolse le loro menti ed essi pensarono di ricorrere a un rimedio peggiore del male; infatti per liberarsi di Giovanni decisero di far entrare Simone, cioè di attirarsi un secondo padrone, e per di più sollecitandolo con le preghiere.  La decisione venne eseguita e il sommo sacerdote Mattia fu inviato a pregare quel Simone, che tanto avevano temuto, di voler entrare in città. Unirono le loro insistenze anche tutti quelli che erano stati costretti a fuggire da Gerusalemme per gli Zeloti e che desideravano di recuperare case e averi. Simone acconsentì con grande degnazione di far loro da padrone e fece il suo ingresso come per liberare la città dagli Zeloti, acclamato dal popolo quale salvatore e protettore; ma quando fu dentro col suo esercito non pensò che al suo potere, considerando quelli che l’avevano invocato non meno nemici di coloro contro cui era stato invocato. 

Laghi di sangue nel tempio   (v: i: 3-5)

3. Simone figlio di Ghiora, che il popolo vinto dalla disperazione aveva scelto come tiranno e fatto entrare nella città sperandone aiuto, e che controllava la città alta e una parte della città bassa, prese ora ad investire con maggior violenza gli uomini di Giovanni, i quali erano contemporaneamente sottoposti agli attacchi dall’alto. Egli li incalzava dal basso, così come alla lor volta gli uomini di Giovanni incalzavano dal basso i nemici sovrastanti. In tal modo Giovanni combatteva su due fronti infliggendo e subendo perdite, e lo svantaggio in cui si trovava rispetto agli uomini di Eleazar per la posizione inferiore era compensato dal vantaggio della posizione dominante rispetto a Simone. Infatti gli attacchi dal basso li respingeva validamente usando solo proiettili lanciati a mano, mentre si serviva delle macchine per controbattere i tiri provenienti dalla parte alta del santuario; disponeva infatti di una gran quantità di mangani, catapulte e baliste, con cui non soltanto colpiva gli avversari, ma uccideva anche molti partecipanti alle cerimonie sacre. Sebbene infatti la loro folle empietà fosse esplosa in tutte le forme, avevano nondimeno concesso di entrare a chi voleva celebrare un sacrificio, pur tenendolo sotto stretta sorveglianza se era un paesano, e sottoponendolo a perquisizione se era un forestiero. Ma costoro, sebbene riuscissero ad entrare facendoli vergognare della loro crudeltà, restavano poi vittime dei combattimenti. Infatti i proiettili scagliati dalle macchine raggiungevano con la loro violenza l’altare e il santuario piombando sui sacerdoti e sui partecipanti,  sicché molti che erano venuti dai confini della terra in quel santuario famoso e venerato da tutta l’umanità , cadevano esanimi essi stessi dinanzi alle vittime da loro offerte, aspergendo col proprio sangue quell’altare adorato da tutti i greci e i barbari.  

Con i cadaveri dei paesani si mescolavano quelli degli stranieri, con i cadaveri dei sacerdoti quelli dei laici, e il sangue di ogni genere di vittime formava un lago nei luoghi santi .  Città sventuratissima, quale rovina paragonabile a questa ti causarono i romani, che entrarono per purificare col fuoco le nefandezze del tuo popolo. Tu non eri più né potevi rimanere la sede di Dio, una volta che eri diventata la tomba dei cittadini massacrati, e il tempio era stato trasformato in una fossa comune per le vittime della guerra civile! Eppure, potresti tornare ad avere una sorte migliore se mai riuscissi a placare il Dio che ti ha distrutta! Ma lo storico deve, fra l’altro, raffrenare i propri sentimenti, poiché non è questo il momento di compiangere la patria, ma di esporre i fatti. Narrerò quindi i successivi sviluppi della guerra civile. 

4. Quelli che stavano portando alla rovina la città si dividevano in tre schiere : gli uomini di Eleazar, che avevano nelle loro mani le sacre primizie depositate nel tempio e che sfogavano il loro furore contro Giovanni, i partigiani di Giovanni, che spogliavano il popolo e lottavano contro Simone, e quest’ultimo, che succhiava anch’egli dalla città i mezzi per la lotta contro gli avversari. Giovanni, quando era attaccato da entrambe le parti, divideva i suoi uomini in due schieramenti opposti, bersagliando dall’alto dei portici gli assalitori che salivano dalla città e controbattendo con le macchine i tiri effettuati dalla parte superiore del tempio; quando poi capitava di non aver pensieri dagli attaccanti dall’alto, che spesso si fermavano per l’ubriachezza e la fatica, allora con più coraggio e con più uomini usciva a scontrarsi con gli uomini di Simone. In qualsiasi punto della città arrivava, appiccava sempre il fuoco ai depositi di grano e di ogni altro genere di provviste; la medesima cosa faceva poi Simone incalzandolo mentre quello si ritirava, e sembrava che volessero fare un favore ai romani distruggendo i viveri che la città aveva messo da parte in vista di un assedio, e recidendo i nervi della propria forza.  Tutti i dintorni del tempio andarono distrutti dal fuoco e la città si trasformò in un desolato campo di battaglia per la guerra civile, mentre le fiamme divoravano quasi tutto il grano che, in caso di assedio, poteva bastar loro per non pochi anni. E fu per fame che alla fine essi furono presi, ciò che non sarebbe stato affatto possibile, se non ne avessero gettato da sé le premesse. 

5. Mentre la città era sottoposta da ogni parte ai colpi dei suoi carnefici e delle loro marmaglie, il popolo era come un gran corpo che stava in mezzo e ne rimaneva dilaniato. I vecchi e le donne, giunti alla disperazione per le loro sofferenze pregavano perché venissero i romani e aspettavano ansiosamente la guerra esterna per liberarsi dai mali interni. Le persone per bene erano in preda a un grande smarrimento e al terrore, perché non v’era né possibilità di provocare un mutamento della situazione, né speranza di un accordo, o di una fuga per chi volesse; tutti i luoghi erano sottoposti a sorveglianza, e i capibanda – che per il resto erano in contrasto – ammazzavano come nemici comuni chi propugnava la pace con i romani o chi era sospettato di voler disertare, e si trovavano d’accordo soltanto nel far strage di quelli che invece meritavano di vivere.  Incessanti erano di giorno e di notte i clamori dei combattenti, ma ancor più raccapriccianti erano i lamenti di quelli che gemevano per lo spavento.  Le stragi moltiplicavano i motivi di lutto, il terrore strozzava il loro pianto ed essi, soffocando i loro affanni per la paura, erano tormentati dai gemiti repressi. Non v’era più rispetto per i parenti quand’erano vivi né cura di seppellirli dopo morti, e di entrambe queste cose era causa il fatto che ormai ognuno disperava di salvarsi; in realtà, chi non partecipava alla lotta delle fazioni aveva perduto qualsiasi interesse aspettandosi di morire da un momento all’altro. Intanto i rivoluzionari si affrontavano calpestando i cadaveri ammonticchiati, e la frenesia che saliva da tutto quel sangue ai loro piedi li rendeva più bestiali. Escogitando sempre qualche cosa di nuovo per distruggersi vicendevolmente ed attuando ogni piano fino in fondo senza pietà, non tralasciavano alcuna forma di violenza o di efferatezza. …

“ Arriva Il FIGLIO!”    (v: vi: 3)

3. … Tutte le legioni disponevano di magnifici ordigni, ma specialmente la legione decima, che aveva catapulte più potenti e baliste più grosse con le quali non solo respingevano le sortite, ma battevano anche i difensori sulle mura. Scagliavano pietre del peso di un talento  e avevano una gittata di due stadi  e più; i loro colpi abbattevano non soltanto i primi ad essere raggiunti, ma anche quelli che stavano dietro per largo tratto. I giudei dapprincipio schivarono i proiettili perché erano di pietra bianca, e perciò non soltanto erano preannunciati dal sibilo, ma si scorgevano da lontano per la loro lucentezza. Le loro sentinelle collocate sulle torri, quando l’ordigno veniva scaricato e partiva il proiettile, davano l’allarme gridando nella loro lingua: “Arriva il figlio!” . Subito quelli su cui stava per piombare si sparpagliavano e si gettavano a terra, sì che il proiettile li sorvolava senza causar danni e cadeva alle loro spalle. Allora i romani ricorsero all’espediente di colorare il proiettile di nero, e poiché così non era più tanto facile scorgerlo da lontano, essi piazzarono molti colpi e facevano molte vittime insieme con un sol colpo…. 

Giuseppe Flavio rimprovera i Giudei    (v: ix: 4)

4. Mentre Giuseppe andava rivolgendo queste esortazioni, molti dall’alto del muro lo beffeggiavano, molti imprecavano contro di lui e alcuni cercavano di colpirlo. Quando egli vide che non riusciva a persuaderli coi propri argomenti, passò ad altri ricavati dalla loro storia nazionale gridando: “Poveri disgraziati, dimentichi dei vostri veri alleati, con la forza delle armi vi misurerete con i romani? Quale altro nemico abbiamo sconfitto in questo modo? E invece, quando il Dio nostro creatore non ha aiutato i giudei ad ottener giustizia allorché subivano qualche torto? Non vi volterete a guardare qual è il luogo da cui muovete a battaglia e quale potente alleato avete ampiamente offeso? Non ricorderete le imprese sovrumane dei padri e da quali ardue guerre questo santo luogo ci liberò? In verità io provo orrore a parlare delle opere del Dio ad orecchie indegne; tuttavia voglio che mi ascoltiate, perché sappiate che ora voi combattete non solo contro i romani, ma anche contro il Dio. L’allora re degli egizi Nechao, che si chiamava anche Faraone, arrivò alla testa di un esercito sterminato e rapì la regina Sara, madre della nostra stirpe. Che fece allora suo marito Abramo, il nostro progenitore? Si vendicò egli forse dell’offesa con le armi, pur avendo trecentodiciotto capitani, ciascuno con un grandissimo numero di soldati? Oppure stimò che costoro non erano niente senza l’aiuto di Dio e, protendendo le mani monde da impurità verso il luogo che ora voi avete profanato, si assicurò il sostegno dell’invincibile?  Non avvenne allora che, dopo appena una notte, la regina fu rinviata intatta al suo sposo, mentre l’egizio preso da riverente timore per il luogo che voi avete lordato del sangue dei vostri connazionali, e ancora tremante per le visioni avute nella notte, si ritirava in fuga dopo aver lasciato doni di oro e di argento ai pii ebrei? 

Debbo parlare della migrazione in Egitto dei nostri padri? Oppressi e assoggettati a re stranieri per quattrocento anni, pur potendo insorgere con le armi in pugno, non si affidarono invece al Dio? E chi non sa che l’Egitto si riempì di ogni specie di bestie, che fu flagellato da ogni sorta di malattie, che la terra divenne sterile, che il Nilo si prosciugò, tutte le dieci piaghe che si susseguirono, che dopo ciò i nostri padri furono rinviati in patria con l’accompagnamento di una scorta senza aver versato sangue e senza pericoli, guidati dal Dio che proteggeva i futuri custodi del suo tempio?  E per la nostra santa arca rapita dai Siri non dovettero gemere la Palestina e l’idolo di Dagon, non dovette gemere l’intero popolo dei rapitori che, con le parti ascose del corpo putrefatte donde fuoriuscivano gli intestini insieme col cibo, restituirono l’arca con le stesse mani che l’avevano trafugata, fra suoni di cembali e di timpani e propiziandosi il luogo santo con ogni sorta di espiazioni? In queste imprese fu Dio il comandante dei nostri padri, che misero da parte le armi e si affidarono nelle sue mani. 

Quando il re degli assiri Sennacherib, portandosi dietro tutta l’Asia, si accampò attorno a questa città, fu per mano di uomini che egli cadde?  Non erano invece prive di armi e protese nella preghiera le mani, mentre in una sola notte l’angelo di Dio sterminò quell’immenso esercito, e il giorno dopo l’assiro, alzandosi, trovò centottantacinquemila morti, e assieme ai superstiti si diede alla fuga dinanzi agli ebrei che erano inermi e non lo inseguivano?  Voi sapete anche la storia della schiavitù in Babilonia, ove il popolo stette in esilio per settant’anni senza sollevare il capo verso la libertà prima che Ciro gliela concedesse in segno di gratitudine al Dio; fu da lui che essi furono rimandati liberi e tornarono a custodire il tempio del loro alleato. In breve, non vi fu impresa in cui i nostri padri trionfarono con le armi, né vi fu impresa in cui, pur disarmati, essi fallirono dopo essersi affidati al Dio; senza muoversi dal loro posto essi vinsero secondo il volere del giudice supremo, mentre quando scesero in campo furono sempre sconfitti. 

Così fu quando il re dei babilonesi assediò questa città e il nostro re Sedecia, venuto a battaglia con lui contrariamente ai profetici ammonimenti di Geremia, fu fatto prigioniero e vide la distruzione della città insieme col santuario. Eppure, quanto più moderato fu quel re al confronto dei vostri capi, e il suo popolo rispetto al vostro! Infatti, sebbene Geremia andasse conclamando che essi erano invisi al Dio per le offese arrecategli, e che sarebbero caduti in prigionia se non consegnavano la città, tuttavia né il re né il popolo lo condannarono a morte. Voi invece – e tralascio ciò che succede entro la città perché non sarei capace di dare un quadro preciso dei vostri misfatti – lanciate improperi e proiettili contro di me che vi esorto a salvarvi, infuriandovi a sentir ricordare le vostre colpe e intolleranti di sentir solo parlare di quelle azioni che pur commettete quotidiana- mente. Così fu ancora una volta quando Antioco soprannominato Epifane, che molte offese aveva arrecate al Dio, assediò la città, e i vostri antenati che l’avevano affrontato in battaglia furono sterminati mentre la città veniva saccheggiata dai nemici, e per tre anni e sei mesi  il tempio rimase deserto. 

C’è bisogno di continuare? Chi spinse i romani contro il nostro paese? Non fu l’empietà degli abitanti? Donde ebbe inizio la nostra soggezione a loro? Non fu dalla contesa scoppiata tra i nostri antenati, quando la follia di Aristobulo e di Ircano e la loro mutua contesa attirò contro la città Pompeo, e il Dio sottomise al dominio dei romani chi non era più degno della libertà? Quelli tuttavia si arresero dopo un assedio di tre mesi, sebbene non si fossero macchiati delle vostre colpe verso il tempio e verso le leggi e disponessero di mezzi assai più larghi per la guerra. Non conosciamo noi la fine di Antigono, il figlio di Aristobulo, sotto il cui regno ancora una volta il Dio punì le colpe del popolo con la presa della città, ed Erode figlio di Antipatro attirò Sosio, e Sosio l’esercito romano, e il popolo per sei mesi fu stretto d’assedio fino a che, pagando il fio delle sue colpe, fu vinto e la città fu saccheggiata dai nemici? Così alla nostra nazione non è mai stato concesso di trarre profitto dalle armi, e alle guerre si accompagna senza fallo la sconfitta. Ciò perché, io credo, gli abitanti del sacro suolo debbono rimettere ogni questione al giudizio di Dio e non preoccuparsi dell’aiuto che possono dare gli uomini quando abbiano propizio il giudice supremo. Ma voi quali azioni benedette dal legislatore avete compiute? Da quali azioni da lui maledette vi siete astenuti? Quanto non siete più empi degli antenati che furono sconfitti in passato? Voi non trascuraste le colpe occulte, intendo dire furti, agguati, adulteri, e inoltre fate a gara nelle rapine e negli assassini, e aprite nuove strade al delitto; il tempio è diventato il ricettacolo di tutti i delinquenti e il luogo santo è profanato da mani di connazionali mentre anche i romani lo rispettarono tenendosene lontani, e trascurando molti dei loro usi in ossequio alla vostra legge . E dopo tutto questo voi vi aspettate il soccorso di chi avete ampiamente offeso? Siete proprio dei supplici a posto con la giustizia, voi, e con mani veramente pure invocate il vostro protettore! Così erano le mani del vostro re quando egli lo supplicò contro l’assiro, e in una sola notte il Dio sterminò quell’immenso esercito! E i romani si comportano come l’assiro, sì che voi possiate sperare di trame uguale vendetta? O non è vero invece che quello, dopo essersi fatta consegnare dal nostro re una grossa somma per non distruggere la città, violò i patti giurati e venne a incendiare il tempio, mentre i romani non chiedono che il consueto tributo, che i nostri padri pagarono ai loro? Dopo averlo riscosso essi né saccheggiano la città, né toccano le cose sacre, ma vi lasciano godere tutto il resto, la libertà per le vostre famiglie, a ognuno il possesso dei suoi beni, e tutelano le leggi sacre. 

E’ una pazzia aspettarsi che il Dio tratti i giusti come gli ingiusti. Quando è necessario, egli sa colpire rapidamente, come fece con gli assiri, che distrusse la prima notte che s’erano accampati presso la città; sì che se egli avesse giudicato il nostro popolo meritevole della libertà, o i romani meritevoli di castigo, egli si sarebbe subito mosso, come contro gli assiri, sia quando Pompeo s’intromise negli affari della nazione, sia quando Sosio arrivò dopo di lui, sia quando Vespasiano devastava la Galilea e da ultimo ora, quando Tito si stava appressando alla città. Eppure Pompeo Magno e Sosio non solo non ebbero a soffrir niente, ma conquistarono d’assalto la città; Vespasiano dalla guerra contro di noi ha preso l’avvio per diventare imperatore, e per Tito anche le fonti zampillano più abbondanti mentre prima per noi si andavano essiccando; voi sapete infatti che prima del suo arrivo la Siloa e tutte le fonti fuori della città avevano diminuito il loro flusso, sì che l’acqua si vendeva ad anfore. Ora invece sono così copiose per i vostri nemici, da bastare non solo ad essi e alle loro bestie, ma anche a irrigare i giardini. Un portento simile si vide prima d’ora alla caduta della città, quando il babilonese sopra ricordato arrivò col suo esercito, la prese e incendiò il tempio, senza che i giudei di allora avessero commesso empietà paragonabili alle vostre; perciò io credo che il Dio abbia abbandonato i luoghi sacri e sia passato dalla parte di quelli che ora voi combattete. Se un galantuomo si allontanerà da una casa poco onorata e proverà fastidio per i suoi abitanti, credete voi che il Dio continui a rimanere fra le brutture che lo circondano, egli che vede tutto ciò che è nascosto e sente tutto ciò che è taciuto? Ma che cosa presso di voi è nascosto o taciuto? Che cosa non è stato reso manifesto anche ai nemici? Infatti voi portate in piazza i vostri misfatti e ogni giorno gareggiate a chi ne farà di peggiori mettendo in bella mostra l’iniquità come si trattasse di virtù. 

Tuttavia rimane ancora una via di scampo, se vorrete, e il Dio è ben disposto a riconciliarsi con chi confessa le sue colpe e se ne pente. Oh! uomini dal cuore di ferro, gettate via le armi, abbiate una buona volta rispetto per la patria, voltatevi a contemplare la bellezza di ciò che tradite: che città, che tempio, quali doni di quante nazioni!  Su tutto questo qualcuno porterà le fiamme? Qualcuno vorrà che tutto questo cessi di esistere? E che cosa invece più di tutto questo merita di essere preservato, o uomini implacabili e più insensibili delle pietre? E se queste cose voi non le contemplate con occhio amorevole, ognuno si ponga almeno dinanzi la vista dei figli, della moglie, dei genitori, che fra breve saranno vittime della fame o della guerra. Io so di avere esposti a tali pericoli mia madre, mia moglie, una famiglia non ignobile e una casa da gran tempo illustre, e forse vi darò l’impressione che da questo sono suggeriti i miei consigli. Uccideteli, prendete il mio sangue come prezzo della vostra salvezza; anch’io sono pronto a morire se dopo vi deciderete a rinsavire!” 

Gli orrori della carestia   (v: x: 3)

3. Miserabile era il pasto e lacrimevole lo spettacolo, perché i più forti facevano i prepotenti e i deboli gemevano. Certo che la fame è la più grande di tutte le sofferenze, e nulla essa distrugge più che il rispetto: ciò che in altre condizioni è oggetto di considerazione viene invece trattato con disprezzo quando c’è fame. Così le mogli strappavano il cibo dalle bocche dei loro mariti, i figli dalle bocche dei padri e, cosa fra tutte più dolorosa, le madri dalle bocche dei loro bambini, e mentre i loro cari si struggevano fra le loro braccia essi non si facevano scrupolo di privarli delle gocce donatrici di vita. Pur cibandosi in questo modo non restavano celati ai banditi, che dappertutto piombavano anche sui loro miseri bottini. Infatti quando essi vedevano una casa chiusa, capivano che questo era segno che gli abitanti stavano mangiando e immediatamente, sfondata la porta, vi penetravano e strappavano loro i bocconi quasi spremendoli alla gola. Venivano percossi vecchi che si tenevano stretta qualcosa da mangiare e venivano trascinate per i capelli donne che nascondevano ciò che avevano in mano. Non v’era pietà per la canizie o per l’infanzia, ma i bambini venivano sollevati con i bocconi cui restavano appesi e scrollati verso terra.  Chi preveniva le loro incursioni e faceva a tempo a inghiottire ciò che essi gli avrebbero strappato, essi lo trattavano con ancor maggior crudeltà come se ne avessero subita un’ingiustizia.  

Ed escogitarono terribili forme di supplizio per farsi dire dov’era nascosto il cibo, ad alcuni di quei miseri occludendo con dei ceci il meato delle urine e trapassandone il sedere con aguzzi bastoncini, e c’è da inorridire al solo sentire quali tormenti infliggevano a qualcuno per farsi dire che aveva anche un solo pezzo di pane o dove nascondeva una manciata di farina. E i carnefici non erano affamati, giacché la necessità li avrebbe fatti apparire meno crudeli; essi invece esercitavano solo il loro furore e si preoccupavano di procurarsi i viveri per i giorni futuri.  A chi di notte strisciava verso gli avamposti romani per raccogliere cicorie selvatiche ed erbe, essi andavano incontro, e quando quelli credevano di essere sfuggiti ai nemici essi li spogliavano di ciò che portavano, e sebbene quelli più e più volte li supplicassero, invocando anche il tremendo nome di Dio, di lasciar loro almeno una parte di quanto avevano raccolto con sì grave pericolo, non gliene lasciavano nemmeno un poco; e dovevano ringraziare se, dopo essere stati spogliati, non venivano anche uccisi. 

La generazione peggiore   (v: xi: 1-2)

1. Mentre progrediva il lavoro ai terrapieni, nonostante i soldati subissero gravi colpi da parte dei difensori del muro, Tito mandò uno squadrone di cavalieri con l’ordine d’intercettare quelli che uscivano dalla città calandosi per i dirupi in cerca di cibo.  Fra questi vi erano anche alcuni armati, cui non bastava più il frutto delle loro rapine, ma i più erano poveri popolani, che non si decidevano a disertare per paura dei familiari; infatti né speravano di poterla far franca se avessero cercato di fuggire con mogli e figli, né avevano l’animo di lasciarli in mano ai banditi, che li avrebbero ammazzati in loro vece. La fame li rendeva arditi a sortire, ma se riuscivano a svignarsela finivano con l’essere catturati dai nemici. Al momento della cattura essi di necessità cercavano di difendersi, e dopo essersi battuti sembrava troppo tardi per chiedere pietà. Così venivano flagellati e, dopo aver subito ogni sorta di supplizi prima di morire, erano crocifissi di fronte alle mura. Tito provava compassione per la loro sorte, poiché ogni giorno erano cinquecento, e talvolta anche di più, quelli che venivano catturati, ma d’altro canto capiva che era un pericolo lasciar liberi i nemici caduti prigionieri, e che sorvegliare tanti prigionieri significava immobilizzare altrettanti custodi; comunque la ragione principale per cui non faceva cessare le crocifissioni era la speranza che a quello spettacolo i giudei si decidessero ad arrendersi, temendo di subire la stessa sorte se non si fossero sottomessi. Spinti dall’odio e dal furore, i soldati si divertivano a crocifiggere i prigionieri in varie posizioni, e tale era il loro numero che mancavano lo spazio per le croci e le croci per le vittime. 

2. I ribelli dinanzi a questo tremendo spettacolo non solo non cambiarono i loro propositi, ma ne trassero argomento per convincere in senso contrario il resto del popolo.  Infatti, trascinando sulle mura i parenti dei disertori e i cittadini che desideravano trattative di resa, mostravano loro quale fine faceva chi passava dalla parte dei romani affermando che le vittime catturate erano dei supplici, e non dei prigionieri di guerra. Ciò, fino a che non si seppe la verità, tenne a freno molti di quelli che volevano disertare; ma vi fu anche chi senza indugio tentò la fuga, considerando la morte per mano dei nemici come un sollievo al paragone della morte per fame. …

“Gli occhi fissi verso il tempio”

(v: xii: 3-4)

3. Ai giudei insieme con le vie d’uscita dalla città fu preclusa ogni speranza di salvezza, e la fame, fattasi più micidiale, sterminava il popolo a intere casate e famiglie. Le case erano pieni di donne e di bambini consunti, i vicoli di vecchi stecchiti, mentre i ragazzi e i giovani col corpo tumefatto si aggiravano come fantasmi nelle piazze e stramazzavano dovunque il male li finiva. Erano tanto deboli da non aver la forza di seppellire i loro parenti, e chi stava un po’ meglio esitava a farlo sia per il gran numero dei cadaveri, sia per l’incertezza della propria sorte; infatti parecchi cadevano morti sopra a quelli che stavano seppellendo, e molti arrivarono alla loro tomba prima di essere raggiunti dal fato di morte. 

Fra tanti lutti non si levava un lamento o un gemito: la fame cancellava i sentimenti, e quelli che stentavano a morire guardavano con gli occhi asciutti e le bocche contorte chi li aveva preceduti nell’ultimo riposo. La città era in preda a un profondo silenzio e a una notte piena di morte, ma anche a qualche cosa di peggio, i banditi. Scassinando le case, diventate ora dei sepolcri, essi spogliavano i morti e, strappate le vesti dai corpi, se ne uscivano sghignazzando; provavano la punta delle spade sui cadaveri, e talvolta trafissero anche dei disgraziati che erano caduti stremati ma non erano ancora morti; non si curavano invece di quelli che li supplicavano di dar loro il colpo di grazia, e li lasciavano morire di fame. Chiunque spirava teneva gli occhi fissi verso il tempio distogliendoli dai banditi che si lasciava dietro di sé. Costoro dapprima disposero che i cadaveri venissero sepolti a spese pubbliche, non sopportandone il fetore; poi, quando quelli diventarono troppo numerosi, li fecero scaraventare dall’alto delle mura nei burroni. 

4. Quando nei suoi giri d’ispezione Tito vide i burroni ricolmi di cadaveri, e un denso liquame fluire sotto i corpi putrefatti, ebbe parole di commiserazione, e levando le mani al cielo chiamò Dio a testimone che tutto quello non era opera sua. Tale era la situazione della città. I romani invece, poiché nessuno dei ribelli faceva più sortite, essendo ormai anch’essi in preda allo scoramento e alla fame, avevano il morale altissimo, riforniti abbondantemente di grano e di tutto ciò di cui abbisognavano dalla Siria e dalle province vicine. Molti si appressavano alle mura e, mettendo in mostra una gran quantità di viveri, stimolavano la fame dei nemici con lo spettacolo della loro sazietà. Ma poiché i ribelli non cedevano dinanzi a tante sofferenze, Tito, preso da compassione per quanti restavano del popolo e volendo strappare a quella sorte almeno i superstiti, cominciò di nuovo a innalzare i terrapieni anche se procurarsi il legname era diventato ora più difficoltoso. Tutti gli alberi intorno alla città erano stati abbattuti per i lavori precedenti, e i soldati dovettero trasportare il nuovo materiale da novanta stadi di distanza. Ed essi innalzarono i terrapieni soltanto di fronte all’Antonia…

L’assassinio del Sommo Sacerdote   (v: xiii: 1)

1. Simone non lasciò morire senza supplizi nemmeno Mattia, che aveva consegnato nelle sue mani la città. Costui era figlio di Boeto, discendente di sommi sacerdoti, uno degli uomini più stimati e onorati dal popolo. Quando la città era angariata daglgli Zeloti, cui s’era unito anche Giovanni, egli aveva persuaso il popolo a far entrare in loro aiuto Simone, senza stringere in precedenza alcun accordo con lui e senza sospettare alcun tiro da parte sua. Ma quando Simone mise piede in città e se ne fece padrone, considerò Mattia nemico al pari degli altri, anche se aveva perorato la sua causa, giudicando che lo aveva fatto per stolta ingenuità.  Così allora se lo fece trascinare al suo cospetto e con l’accusa di parteggiare per i romani lo condannò a morte, senza permettergli di difendersi, insieme con tre figli, perché il quarto aveva fatto in tempo a rifugiarsi presso Tito. E quando Mattia lo supplicò di ucciderlo prima dei figli, chiedendogli questa grazia in ricompensa di avergli fatto aprire le porte della città, Simone lo fece uccidere per ultimo. Così egli fu ammazzato sopra ai suoi figli, che già erano stati trucidati sotto i suoi occhi, e dopo essere stato condotto in un luogo dove i romani potevano vederlo; tale fu infatti l’ordine che Simone diede ad Anano figlio di Bagadate, il più spietato dei suoi scherani, aggiungendo ironicamente che così si sarebbe visto se gli avrebbero dato qualche aiuto coloro dalla cui parte voleva passare; e alla fine vietò di dar sepoltura ai cadaveri.  Dopo di essi furono passati per le armi un sacerdote di nome Ananias, figlio di Masbalo, che era uno dei personaggi di rilievo, e il segretario del sinedrio Aristeo, nativo di Emmaus, e assieme a loro quindici degli uomini più eminenti del popolo. Misero in prigione il padre di Giuseppe e, per paura di tradimento, ordinarono che nella città nessuno si fermasse a parlare con altri né che si tenessero adunanze; quelli che si riunivano per dar sfogo alle loro pene venivano mandati a morte senza processo. 

“Era Dio che aveva condannato tutto il popolo”   (v: xiii: 4-6)

4. Alcuni dei disertori, non sapendo più che fare, si buttavano all’improvviso giù dalle mura, altri facendo finta di andare all’assalto con pietre in mano, cercavano poi scampo presso i romani. Ma li attendeva una sorte ancora più dolorosa di quella riservata a chi restava in città, e trovavano che la sazietà nel campo romano li faceva morire ancor prima della fame di casa loro. Essi infatti arrivavano tutti gonfi per il digiuno come se fossero malati d’idropisia, e rimpinzavano il loro stomaco vuoto sovraccaricandolo al punto da scoppiare, salvo quei pochi che s’accorsero che bisognava frenare l’appetito e seppero dosare il nutrimento per il corpo non più avvezzo al cibo. Ma anche quelli che in tal modo s’erano salvati caddero poi vittime di un’altra sciagura. Un disertore che era stato alloggiato fra i Siri fu scoperto nell’atto di raccogliere monete d’oro fra i suoi escrementi: abbiamo già detto che essi le inghiottivano prima di tentare la fuga, perché i ribelli rovistavano dappertutto e d’altra parte in città v’era tanta abbondanza d’oro, che per dodici dramme attiche si potevano avere monete che prima ne valevano venticinque. Scoperto l’espediente da quel caso isolato, si diffuse negli accampamenti la voce che i disertori erano arrivati pieni d’oro, e allora gli arabi e i siri si diedero a sventrarli per vedere cosa avevano negli intestini.  Non credo che sui giudei si abbatté un flagello peggiore di questo; in una sola notte ne furono sventrati circa duemila. 

5. Quando fu informato di tale bestiale ferocia, Tito per poco non diede ordine alla cavalleria di circondare i colpevoli e di massacrarli; lo trattenne il gran numero di costoro, visto che la massa dei colpevoli da punire superava più volte quella delle vittime. Ad ogni modo convocò i comandanti dei corpi ausiliari e quelli delle legioni – giacché venivano coinvolti nell’accusa anche alcuni legionari – e rivolgendosi agli uni e agli altri manifestò il suo sdegno per il fatto che soldati del suo esercito compissero simili azioni spinti da un’incerta speranza di lucro e senza provare il dovuto rispetto per le loro armi che erano fatte di argento e d’oro. Agli arabi e ai siri, poi, espresse la sua collera anzitutto perché in una guerra che non li interessava direttamente avevano dato libero sfogo ai loro sentimenti, e poi perché avevano coinvolto il nome dei romani nella loro ferocia sanguinaria e nell’odio contro i giudei; infatti alcuni dei suoi legionari condividevano ora la loro ignobile reputazione. In conclusione, a costoro minacciò la pena di morte per chiunque fosse stato scoperto a commettere ancora una volta la stessa infamia mentre ai legionari ingiunse di ricercare i sospetti e di portarli al suo cospetto. 

Ma la cupidigia, a quel che sembra, non teme alcun castigo; nell’uomo è insito un naturale desiderio di guadagno, e nessuna passione è così pronta ad affrontare qualsiasi rischio come l’avidità. In altre circostanze, certamente, queste brame hanno un limite e sono tenute a freno dalla paura, ma questa volta era Dio che aveva condannato tutto il popolo e indirizzava alla rovina ogni loro via di scampo.  Così ciò che Cesare aveva vietato sotto pena di morte si continuò nascostamente a perpetrare a danno dei disertori, e quei barbari, andando incontro ai fuggiaschi prima di tutti gli altri, li trucidavano e, dopo essersi assicurati che nessun romano li vedesse, li sventravano e traevano dalle budella la turpe mercede. Pochi furono quelli in cui si trovò l’oro; i più caddero vittime di una vana speranza. Tale eccidio fece sì che molti disertori cambiassero idea.  

6. Giovanni, quando non ci fu più nulla da strappare al popolo, si diede a spogliare il tempio, e fece fondere molti doni votivi e molti oggetti necessari alle cerimonie sacre, coppe, vassoi e tavole, e non rispettò nemmeno i vasi per contenere il vino puro offerti a suo tempo da Augusto e da sua moglie. Gli imperatori romani avevano sempre onorato e adornato il tempio, mentre allora questo giudeo lo spogliava anche dei doni offerti dagli stranieri. Ai suoi uomini diceva che non dovevano farsi scrupolo di usare le cose sacre a sostegno della santa causa, e che chi combatteva per il tempio doveva essere mantenuto dal tempio stesso. Pertanto egli attinse il vino e l’olio santo, che i sacerdoti conservavano nel tempio interno per versarlo sugli olocausti, e lo distribuì alla sua banda, e quelli senza inorridire se ne unsero e ne bevvero. Non posso trattenermi dal dire ciò che l’animo sconvolto mi detta: se i romani avessero tardato a punire i colpevoli, la terra si sarebbe spalancata per inghiottire la città, o questa sarebbe stata spazzata via dal diluvio o sarebbe stata incenerita dai fulmini come la terra di Sodoma; essa infatti aveva allevato una stirpe assai più empia di quelle che subirono tali flagelli, e per la sua follia il popolo intero fu votato allo sterminio. 

Gerusalemme diventa un deserto   (vi: i: 1)

1. La drammatica situazione di Gerusalemme peggiorava ogni giorno di più, perché la ferocia dei ribelli s’acuiva fra tanti disastri mentre la fame, dopo aver sterminato il popolo, mieteva le sue vittime anche fra loro. La moltitudine dei cadaveri ammonticchiati per la città non solo offriva uno spettacolo raccapricciante ed emanava un tanfo pestifero, ma ostacolava le sortite dei combattenti, costretti ad avanzare calpestando i caduti come soldati adusi alle grandi stragi dei campi di battaglia. Ed essi li calpestavano senza provarne orrore o pietà, e senza un presentimento di malaugurio per l’offesa arrecata ai morti, ma con le destre imbrattate del sangue dei concittadini uscivano ad affrontare gli stranieri rimproverando al Dio – io credo – la lentezza nel punirli: infatti ciò che li spronava a combattere non era più ormai la speranza di vittoria, ma il non aver speranza di salvezza.  Frattanto i romani, pur avendo molto penato nel procurarsi il legname necessario, in ventun giorni avevano costruito i terrapieni dopo aver tagliato tutti gli alberi intorno alla città, come ho detto, entro un raggio di novanta stadi. Così era diventato penoso anche lo spettacolo offerto dalla campagna; infatti quelle contrade, un tempo rese amene da alberi e giardini, erano allora ridotte a una landa deserta e senza verde, e nessuno straniero che avesse visto la Giudea di una volta e gli incantevoli dintorni della città allo spettacolo di quella desolazione avrebbe potuto fare a meno di rattristarsi e di gemere di fronte a un tale cambiamento. La guerra aveva infatti cancellato ogni traccia dell’antico splendore, e chi per caso fosse all’improvviso ritornato in quei luoghi non li avrebbe riconosciuti, ma si sarebbe messo in cerca della città pur trovandosi nei suoi paraggi. 

“È certamente il Dio in persona che … vi porta
il fuoco purificatore e distrugge la città”    (vi: ii: 1)

1. Tito ordinò ai suoi soldati di abbattere dalle fondamenta l’Antonia e di spianare una via per farvi salire facilmente tutto l’esercito; quindi affidò un incarico a Giuseppe.  Aveva saputo che da quel giorno, era il diciassette di Panemo [Tamuz], il cosiddetto sacrificio perenne in onore del Dio era stato interrotto per mancanza di uomini, e che di ciò il popolo era rimasto profondamente turbato; allora fece ripetere a Giovanni il precedente ammonimento, che se cioè egli era in preda a una criminosa smania di combattere poteva farsi avanti con chi volesse e ingaggiare la lotta senza coinvolgere nella sua rovina la città e il tempio. Perciò la smettesse di profanare il santuario e di offendere il Dio, anzi avrebbe potuto far celebrare i sacrifici interrotti per mezzo di quei giudei che egli stesso avrebbe designati. 

 Giuseppe, collocatosi in modo da essere udito non soltanto da Giovanni, ma anche dalla massa, trasmise in ebraico il messaggio di Cesare e concluse con un lungo appello perché volessero risparmiare la patria, disperdere le fiamme che già lambivano il santuario e rendere al Dio i sacrifici espiatori. Le sue parole furono accolte dal popolo con sgomento e silenzio mentre il tiranno, dopo aver scagliato un’infinità d’ingiurie e di maledizioni contro Giuseppe, terminò dicendo che non temeva la conquista della città perché questa apparteneva al Dio. Allora Giuseppe esplose: “Veramente pura hai conservato la città per il Dio, e intatto rimane il tempio, e nessuna offesa hai arrecato a colui che speri di aver alleato, ed egli riceve le consuete offerte! Se a te, maledetto empio, qualcuno togliesse il tuo cibo quotidiano, tu lo giudicheresti un nemico: come puoi illuderti di avere dalla tua parte nella guerra colui che hai privato del culto che durava da sempre? E attribuirai le tue colpe ai romani, che finora si son dati cura delle nostre leggi e cercano di restaurare per il Dio i riti sacrificali interrotti per causa tua? Chi non compiangerebbe amaramente la città per lo strano capovolgimento subito, dato che degli stranieri, e per di più nemici, si preoccupano di mettere riparo alla tua empietà, mentre tu, che sei un giudeo e sei stato educato all’osservanza delle nostre leggi, le offendi assai più gravemente di loro? Eppure, Giovanni, non soltanto è bello pentirsi delle proprie colpe, sia pure all’ultimo momento, ma se tu volessi risparmiare alla patria la rovina avresti un magnifico esempio da seguire, quello di Ieconia re dei giudei. Quando per causa sua l’esercito babilonese gli mosse guerra, egli, prima che la città fosse espugnata, ne venne fuori senza che alcuno lo costringesse e preferì affrontare volontariamente la schiavitù insieme con la sua famiglia piuttosto che consegnare ai nemici questi luoghi santi e vedere la casa del Dio in preda alle fiamme. Per questo tutti i giudei lo esaltano nella loro storia sacra e il ricordo sempre fresco presso i posteri attraverso i secoli lo rende immortale. Un magnifico esempio, Giovanni, anche se per seguirlo dovessi affrontare qualche pericolo; io, comunque, ti assicuro anche il perdono dei romani, e poiché si deve badare chi è a dare un consiglio e da dove viene, ricordati che è un connazionale ad esortarti, che sono un giudeo io che ti do questa assicurazione. Preferirei morire anziché trasformarmi in uno di quegli schiavi abbietti che rinnegano la loro stirpe e si dimenticano della patria. Ma tu di nuovo vai sulle furie e mi gridi le tue ingiurie, che del resto ben mi merito perché con i miei consigli voglio contrastare il destino e mi sforzo di salvare quelli che il Dio ha condannato. 

Chi ignora ciò che fu scritto dagli antichi profeti, e l’oracolo che incombe su questa misera città e che sta ormai per avverarsi? Predissero che essa sarebbe stata espugnata quando qualcuno avesse cominciato a far strage dei suoi connazionali. La città e il tempio intero non sono ora ricolmi dei cadaveri delle vostre vittime? E’ il Dio, è certamente il Dio in persona che insieme coi romani? vi porta il fuoco purificatore e distrugge la città con il suo enorme carico di nefandezze”. 

Una madre diventa cannibale    (vi: iii: 3-4)

3. Frattanto nella città la fame mieteva un numero sterminato di vittime e indicibili erano le sofferenze. In ogni casa all’apparire anche di un’ombra di cibo si scatenava la zuffa, e i parenti più intimi venivano alle mani per strapparsi quei miserabili sostentamenti della vita. Nemmeno se uno stava spirando si credeva che non avesse cibo, e i ribelli perquisivano anche i moribondi nel dubbio che qualcuno, per nascondere del cibo, facesse finta di essere agonizzante. Sbadigliando per la fame, essi si aggiravano barcollando come cani rabbiosi e si avventavano contro le porte scuotendole a mo’ di ubriachi e irrompendo due o tre volte in un’ora nelle medesime case, tanta era la loro disperazione. La necessità spingeva a mettere sotto i denti qualunque cosa e dava loro il coraggio di raccogliere e mangiare roba che perfino i più immondi fra gli animali irragionevoli avrebbero rifiutato. Alla fine si attaccarono anche alle cinghie e ai calzari e strapparono il cuoio dagli scudi cercando di masticarlo. Alcuni si cibarono anche di ciuffi di vecchio fieno e taluni, raccogliendo erba secca, ne vendettero una manciata per quattro dramme attiche. 

Ma a che parlare della mancanza di ritegno della fame nell’appetire qualsiasi cosa inanimata quando sto per raccontare un episodio che non trova riscontro nelle storie né dei greci né dei barbari, orribile a narrarsi e incredibile a udirsi? Per non dare ai posteri l’impressione di aver inventato favole mostruose, avrei volentieri passato l’episodio sotto silenzio se non potessi addurre la testimonianza di un’infinità di miei contemporanei. E poi, dimostrerei scarso amore per la patria se omettessi di raccontare le sofferenze che essa ebbe realmente a patire. 

4. Fra gli abitanti della regione al di là del Giordano vi era una donna di nome Maria, figlia di Eleazar, del villaggio di Bethezuba, un nome che significa “casa dell’issopo”, ragguardevole per nascita e ricchezza, che col resto della popolazione si era rifugiata in Gerusalemme rimanendovi assediata. La massima parte delle sostanze che aveva portato seco trasferendosi dalla Perea nella città le erano state depredate dai capi, mentre gli scherani con le loro quotidiane incursioni le avevano sottratto quanto restava dei suoi valori e il poco cibo raggranellato. La donna era in preda a un tremendo furore e con gli insulti e le maledizioni che continuamente scagliava contro i saccheggiatori cercava di aizzarli contro di sé. Nessuno però si decideva ad ucciderla, né per odio né per pietà, e lei era stanca di procurare ad altri il cibo che da nessuna parte era ormai possibile trovare mentre la fame le serpeggiava nelle viscere e nelle midolla, e ancor più della fame la consumava il furore.  

Allora cedette insieme alla spinta dell’ira e della necessità e si abbandonò ad un atto contro la natura. Afferrò il bambino lattante che aveva seco e gli rivolse queste parole: “Povero figlioletto, a quale sorte dovrei cercare di preservarti in mezzo alla guerra, alla fame, alla rivoluzione? Dai romani non possiamo attenderci che la schiavitù, se pure riusciremo a vivere fino al loro arrivo, ma la fame ci consumerà prima di finire schiavi, mentre infine i ribelli sono un flagello più tremendo degli altri due. E allora, sii tu cibo per me, per i ribelli furia vendicatrice, e per l’umanità la tua storia sia quell’unica che ancora mancava fra le tante sventure dei giudei”. Così disse e, ucciso il figlio, lo mise a cuocere; una metà ne mangiò, mentre l’altra la conservò in un luogo nascosto. 

Ben presto arrivarono i banditi e, fiutando quell’odore esecrando, la minacciarono di ucciderla all’istante se non avesse mostrato ciò che aveva preparato. Ella rispose di averne conservata una bella porzione anche per loro e presentò i resti del bambino: un improvviso brivido percorse quegli uomini paralizzandoli, ed essi restarono impietriti a una tal vista. “Questo è il mio bambino” disse la donna “e opera mia è questa. Mangiatene, perché anch’io ne ho mangiato. Non siate né più pavidi di una donna né più compassionevoli di una madre. Ma se provate scrupoli e rifuggite dalla mia vittima sacrificale, allora sarà come se io avessi mangiato per conto vostro e l’avanzo rimanga per me” A tali parole quelli uscirono tutti tremanti – fu l’unica scelleratezza di cui non ebbero il coraggio di macchiarsi, lasciando sia pure a malincuore che la madre si cibasse di un simile cibo – ma istantaneamente la città fu piena della notizia di quella nefandezza e, raffigurandosi la scena raccapricciante, tutti inorridirono come fossero stati loro a compierla. Morsi dalla fame essi non vedevano l’ora di morire, stimando fortunato chi se n’era andato prima di sentire e di vedere simili atrocità. 

Il tempio viene bruciato   (vi: iv: 5-7)

5. Tito si ritirava nell’Antonia deciso a scatenare all’alba del giorno dopo un assalto con tutte le forze per investire da ogni parte il tempio.  Questo già da parecchio tempo era stato dal Dio condannato alle fiamme, e col volger degli evi ritornò il giorno fatale, il dieci del mese di Loos [Av], quello in cui una volta esso era già stato, incendiato dal re dei babilonesi . Le fiamme ebbero inizio e furono causate ad opera dei giudei; infatti, ritiratosi Tito, i ribelli dopo un breve riposo si scagliarono di nuovo contro i romani e infuriò uno scontro fra i difensori del santuario e i soldati intenti a spegnere il fuoco nel piazzale interno. Costoro, volti in fuga i giudei, li inseguirono fino al tempio. 

E fu allora che un soldato senza aspettare l’ordine e senza provare alcun timore nel compiere un atto così terribile, spinto da una forza sovrannaturale afferrò un tizzone ardente e, fattosi sollevare da un commilitone, lo scagliò dentro attraverso una finestra dorata che dava sulle stanze adiacenti al tempio sul lato settentrionale. Al levarsi delle fiamme i giudei proruppero in un grido terrificante come quel tragico momento e, incuranti della vita e senza risparmio di forze, si precipitarono al soccorso perché stava per andar distrutto quello che fino allora avevano cercato di salvare. 

6. Qualcuno corse ad avvisare Tito, che s’era anch’egli ritirato sotto la tenda per concedersi un po’ di riposo dopo la battaglia; balzato in piedi, egli corse come si trovava verso il tempio per cercare di domare l’incendio. Lo seguivano tutti i generali e dietro a questi le legioni in preda all’eccitazione, fra grande schiamazzo e confusione, com’era inevitabile nel muoversi disordinato di forze così numerose. Sia con la voce, sia con la mano, Cesare diede ordine ai combattenti di spegnere il fuoco, ma essi né udirono le sue parole, assordati dai clamori più forti, né badarono ai segni della mano, essendo tutti presi alcuni dal combattimento, altri da una smania furiosa. A frenare l’impeto delle legioni non valsero né esortazioni né minacce, ma tutti si lasciavano trasportare dalla furia. Accalcandosi intorno alle entrate, molti si calpestarono fra loro, e molti furono anche quelli che, sospinti verso le rovine ancora calde e fumanti dei portici, subirono la stessa sorte dei vinti. Quando poi furono vicini al tempio fecero mostra di nemmeno udire gli ordini di Cesare, e a quelli che stavano davanti a loro gridavano di scagliarvi dentro il fuoco. 

I ribelli ormai non potevano più mettere riparo, e dovunque era strage e fuga. La maggior parte degli uccisi furono popolani deboli e inermi, tutti trucidati sul posto dove venivano presi; intorno all’altare si accumulò un mucchio di cadaveri mentre lungo la scalinata del tempio correva un fiume di sangue e rotolavano i corpi di quelli che venivano massacrati su in alto. 

7. Cesare, nell’impossibilità di arginare la furia dei soldati mentre d’altro canto l’incendio si sviluppava inesorabilmente, accompagnato dai suoi generali entrò nel tempio per vedere il luogo sacro e gli oggetti in esso contenuti, che superavano di gran lunga la fama che ne correva fra gli stranieri e non erano inferiori al vanto e alla gloria che se ne facevano i giudei. Poiché le fiamme non erano ancora penetrate da nessuna parte all’interno del tempio, ma stavano devastando solo le stanze adiacenti tutt’intorno, Tito giudicò che l’edificio poteva ancora essere salvato, come in realtà era, e, affrettatosi a uscire, si mise a esortare personalmente i soldati a spegnere l’incendio dando ordine contemporaneamente a Liberale, centurione dei suoi lancieri di guardia, di mettere a posto a colpi di bastone chi non ubbidiva. Ma, nei soldati, sull’ossequio a Cesare e sul timore per le minacce del centurione avevano il sopravvento il furore, l’odio contro i giudei e un incontenibile ardore guerresco. 

Inoltre i più erano spinti dalla speranza di far bottino, convinti che dentro fosse un ammasso di tesori, anche perché fuori vedevano tutto incorniciato d’oro. Improvvisamente uno di quelli che erano entrati nel tempio, quando già Cesare era uscito per cercare di fermare i soldati, gettò nell’oscurità un tizzo sopra i cardini della porta; all’improvviso balenò del fuoco all’interno, i duci insieme con Cesare si ritirarono e più nessuno impedì ai soldati che stavano fuori di propagare l’incendio. E così, contro il volere di Cesare , il tempio fu distrutto dalle fiamme. 

Gerusalemme sotto interdetto    (vi: v: 1-2)

1. Mentre il tempio bruciava, gli assalitoti saccheggiarono qualunque cosa capitava e fecero un’immensa strage di tutti quelli che presero, senza alcun rispetto per l’età né riguardo per l’importanza delle persone: bambini e vecchi, laici e sacerdoti, tutti indistintamente vennero massacrati, e la guerra ghermì e stritolò ogni sorta di persone, sia che chiedessero mercé sia che tentassero di resistere. Il fragore dell’incendio, che si estendeva in lungo e in largo, faceva eco ai lamenti dei caduti; l’altezza del colle e la grandezza dell’edificio in fiamme davano l’impressione che bruciasse l’intera città, e il frastuono era tale da non potersi immaginare nulla di più grande e di più terrificante. 

Da una parte il grido di guerra delle legioni romane che attaccavano in massa, dall’altro l’urlo dei ribelli presi in mezzo tra ferro e fuoco, mentre i popolani rimasti bloccati lassù in alto, fuggendo sbigottiti incappavano nei nemici e perivano fra alte grida. Ai clamori provenienti dall’alto si mescolavano quelli della massa degli abitanti della città, perché ora, alla vista del tempio in fiamme, molti che per lo sfinimento della fame avevano perduto la forza di parlare ripresero a gemere e a urlare. Facevano eco la Perea e le montagne all’intorno ingrossando i clamori. 

Ma più terribile del panico erano le sofferenze; pareva che la collina del tempio ribollisse dalle radici gonfia di fuoco in ogni parte, e che tuttavia il sangue fosse più copioso del fuoco e gli uccisi più numerosi dei loro uccisoti. La terra era tutta ricoperta di cadaveri, e i soldati per inseguire i fuggiaschi dovevano calpestare mucchi di corpi. 

La massa dei ribelli riuscì a stento ad aprirsi un varco tra i romani sboccando nel piazzale esterno e di lì nella città, mentre i superstiti del popolo si rifugiarono sul portico esterno. Alcuni sacerdoti dapprincipio si diedero a divellere dalla sommità del tempio gli spiedi con tutti i loro sostegni fatti di piombo e li scagliarono contro i romani; poi, visto che non concludevano niente e che le fiamme stavano per raggiungerli, si ritirarono sul muro, che aveva la larghezza di otto cubiti, e vi rimasero. Due dei più insigni, Meir figlio di Belgas e Giuseppe figlio di Daleo, pur potendo salvarsi passando dalla parte dei romani, oppure continuare a resistere dividendo la sorte degli altri, si gettarono nelle fiamme e finirono bruciati insieme col tempio. 

2. I romani, considerando inutile risparmiare gli edifici circostanti ora che il tempio bruciava, appiccarono il fuoco a tutti, e così anche ai resti dei portici e alle porte tranne due, una a oriente e un’altra a mezzogiorno; ma più tardi distrussero anche queste. Incendiarono inoltre le stanze del tesoro, in cui erano riposti un’infinità di denaro, di vesti preziose e altri oggetti di valore: in una parola tutta la ricchezza dei giudei, avendovi i signori trasferito tutto ciò che tenevano nelle loro case. 

Arrivarono poi al portico superstite del piazzale esterno, su cui avevano cercato scampo donne e bambini del popolo e una massa confusa di seimila persone. Prima che Cesare prendesse una deliberazione a loro riguardo o desse ordini ai comandanti, i soldati travolti dal furore incendiarono il portico [del tempio], e quelli perirono, alcuni precipitandosi a terra per sfuggire alle fiamme, altri ghermiti dal fuoco: di tanti nemmeno uno si salvò. 

A causare la loro morte fu un falso profeta che in quel giorno aveva proclamato agli abitanti della città che il Dio comandava loro di salire al tempio per ricevere i segni della salvezza. E in verità allora, istigati dai capi ribelli, si aggiravano tra il popolo numerosi profeti che andavano predicando di aspettare l’aiuto del Dio, e ciò per distogliere la gente dalla diserzione e per far coraggio a chi non aveva nulla da temere da loro e sfuggiva al loro controllo. Nella disgrazia l’uomo è pronto a credere, e quando l’ingannatore fa intravedere la fine dei mali incombenti, allora il misero s’abbandona tutto alla speranza. 

Carri sulle nuvole   (vi: v: 3)

3. Così il Popolo fu allora abbindolato da ciarlatani e da falsi profeti, senza più badare né prestar fede ai segni manifesti che preannunziavano l’imminente rovina. Quasi fossero stati frastornati dal tuono e accecati negli occhi e nella mente, non compresero gli ammonimenti del Dio, come quando sulla città apparvero un astro a forma di spada e una cometa che durò un anno, o come quando, prima che scoppiassero la ribellione e la guerra, essendosi il popolo radunato per la festa degli Azzimi nell’ottavo giorno del mese di Xanthico [Nisan], all’ora nona della notte l’altare e il tempio furono circonfusi da un tale splendore, che sembrava di essere in pieno giorno, e il fenomeno durò per mezz’ora: agli inesperti sembrò di buon augurio, ma dai sacri scribi fu subito interpretato in conformità di ciò che accadde dopo. Durante la stessa festa, una vacca che un tale menava al sacrificio partorì un agnello in mezzo al sacro recinto. 

Inoltre, la porta orientale del tempio, quella che era di bronzo e assai massiccia, sì che la sera a fatica venti uomini riuscivano a chiuderla, e veniva sprangata con sbarre legate in ferro e aveva dei paletti che si conficcavano assai profondamente nella soglia costituita da un blocco tutto d’un pezzo, all’ora sesta della notte fu vista aprirsi da sola. Le guardie del santuario corsero a informare il comandante, che salì al tempio e a stento riuscì a farla richiudere. Ancora una volta questo parve agli ignari un sicurissimo segno di buon augurio, come se il Dio avesse spalancato a loro la porta delle sue grazie; ma gli intenditori compresero che la sicurezza del santuario era finita di per sé e che l’aprirsi della porta rappresentava un dono per i nemici, e pertanto interpretarono in cuor loro il prodigio come preannunzio di rovina. 

Non molti giorni dopo la festa, il ventuno del mese di Artemisio [Iyar], apparve una visione miracolosa cui si stenterebbe a prestar fede; e in realtà, io credo che ciò che sto per raccontare potrebbe apparire una favola, se non avesse da una parte il sostegno dei testimoni oculari, dall’altra la conferma delle sventure che seguirono. Prima che il sole tramontasse, si videro in cielo su tutta la regione carri da guerra e schiere di armati che sbucavano dalle nuvole e circondavano le città. Inoltre, alla festa che si chiama la Pentecoste, i sacerdoti che erano entrati di notte nel tempio interno per celebrarvi i soliti riti riferirono di aver prima sentito una scossa e un colpo, e poi un insieme di voci che dicevano: “Da questo luogo noi ce ne andiamo” . 

Ma ancora più tremendo fu quest’altro prodigio. Quattro anni prima che scoppiasse la guerra, quando la città era al culmine della pace e della prosperità, un tale Gesù figlio di Anania, un rozzo contadino, si recò alla festa in cui è uso che tutti costruiscano tabernacoli per il Dio e all’improvviso cominciò a gridare nel tempio: “Una voce da oriente, una voce da occidente, una voce dai quattro venti, una voce contro Gerusalemme e il tempio, una voce contro sposi e spose, una voce contro il popolo intero”. Giorno e notte si aggirava per tutti i vicoli gridando queste parole. 

E alla fine alcuni dei capi della cittadinanza, tediati di quel malaugurio, lo fecero prendere e gli inflissero molte battiture. Ma quello, senza né aprir bocca in sua difesa né muovere una specifica accusa contro chi lo aveva flagellato, continuò a ripetere il suo ritornello. Allora i capi, ritenendo – com’era in realtà – che quell’uomo agisse per effetto di una forza sovrumana, lo trascinarono dinanzi al governatore romano. Quivi, sebbene fosse flagellato fino a mettere allo scoperto le ossa, non ebbe un’implorazione né un gemito, ma dando alla sua voce il tono più lugubre che poteva, a ogni battitura rispondeva: “Guai, guai a Gerusalemme!”. Quando Albino, che era il governatore, gli fece domandare chi fosse, donde provenisse e perché lanciasse quella lamentazione, egli non rispose, ma continuò a compiangere il destino della città finché Albino sentenziò che si trattava di pazzia e lo lasciò andare. 

Fino allo scoppio della guerra egli non si avvicinò ad alcun cittadino né fu visto parlare con alcuno, ma ogni giorno, come uno che si esercitasse a pregare, ripeteva il suo lugubre ritornello: “Guai, guai a Gerusalemme!”. Né imprecava contro quelli che, un giorno l’uno un giorno l’altro, lo percuotevano, né benediceva chi gli dava qualcosa da mangiare; l’unica risposta per tutti era quel grido di malaugurio, che egli lanciava soprattutto nelle feste. 

Per sette anni e cinque mesi lo andò ripetendo senza che la sua voce si affievolisse e senza provar stanchezza, e smise solo all’inizio dell’assedio, quando ormai vedeva avverarsi il suo triste presagio. Infatti un giorno che andava in giro sulle mura gridando a piena gola: “Ancora una volta, povera la città, e povero il popolo, e povero il tempio!”, come alla fine aggiunse: “E poveretto anche me!”, una pietra scagliata da un lanciamissili lo colpì uccidendolo all’istante, ed egli spirò ripetendo ancora quelle parole. 

L’incendio di Gerusalemme   (vi: vi: 3)

3…. Tito … Diede quindi licenza ai soldati di incendiare e mettere a sacco la città, ed essi per quel giorno non si mossero, ma il giorno dopo appiccarono il fuoco agli archivi, all’Acra, alla sala del Consiglio e al quartiere detto Ofel; il fuoco si estese fino alla reggia di Elena, che sorgeva nel mezzo dell’Acra, e le fiamme divamparono nelle strade e nelle case ricolme dei cadaveri delle vittime della fame. 

Nascosti nelle grotte e tra le rocce    (vi: vii: 1-3)

1. I ribelli assaltarono il palazzo reale, dove molti per la sua solidità avevano depositato i loro beni, ne respinsero i romani e, dopo aver sterminato tutti i cittadini che vi si erano raccolti in numero di circa ottomila e quattrocento, s’impadronirono delle cose di valore. Catturarono anche due romani, un cavaliere e un fante; il fante lo ammazzarono immediatamente e lo trascinarono in giro per la città, quasi a vendicarsi su quell’unico cadavere di tutti i romani, mentre il cavaliere, che aveva detto di poter dar loro un buon suggerimento per salvarsi, venne condotto dinanzi a Simone. Qui però egli non seppe che dire e allora venne consegnato a un tale Ardalas, uno dei comandanti, per essere messo a morte. Costui, legategli le mani dietro la schiena e bendatigli gli occhi, lo spinse in vista dei romani per decapitarlo, ma l’altro, mentre il giudeo sguainava la spada, con uno scatto rapidissimo raggiunse i romani. Tito non ebbe l’animo di mettere a morte uno che era sfuggito dalle mani dei nemici, ma, giudicandolo indegno di essere un soldato romano perché s’era fatto prendere vivo, gli tolse le armi e lo espulse dalla legione, un’umiliazione peggiore della morte. 

2. Il giorno dopo i romani, respinti i banditi dalla città bassa, incendiarono ogni cosa fino alla Siloa ed ebbero la soddisfazione di vedere la città in fiamme mentre andarono deluse le speranze di far bottino, perché i ribelli avevano depredato ogni cosa prima di ritirarsi nella città alta. Costoro non provavano alcun rimorso per le loro malefatte, anzi ne andavano fieri come di belle imprese; così, quando videro la città in fiamme, con lieto volto dichiararono di esser contenti di aspettare la fine perché, sterminato il popolo, bruciato il tempio e incendiata la città, non lasciavano niente ai nemici. 

Neppure in quei momenti supremi Giuseppe tralasciò di supplicarli perché risparmiassero quanto rimaneva della città, ma per quanto imprecasse contro le loro crudeltà ed empietà, per quanto si sforzasse di dar salutari consigli, non ne ricavò altro che scherni. Poiché non accettavano di arrendersi a causa del giuramento fatto e non erano più in grado di misurarsi con i romani, essendo come racchiusi in una prigione mentre le loro mani fremevano per l’abitudine di uccidere, essi si sparpagliarono alla periferia della città e si posero in agguato tra le rovine aspettando quelli che volevano disertare. Ne presero molti e, dopo averli tutti ammazzati, perché per la debolezza non avevano nemmeno la forza di fuggire, ne gettarono i cadaveri ai cani. 

Ma ogni genere di morte sembrava più sopportabile della fame, sì che la gente, pur sapendo che presso i romani non avrebbe più trovato pietà, da una parte cercava di raggiungerli, dall’altra era contenta di cadere nelle mani dei ribelli, che non perdonavano. Nella città non si trovava un posto libero, ma c’erano morti dappertutto, vittime della fame o dei ribelli. 

3. Per i capi e le loro bande l’ultima speranza era rappresentata dalle gallerie sotterranee; rifugiatisi là dentro pensavano di non essere ricercati, e quando poi, completata l’espugnazione della città, i romani se ne sarebbero andati, essi contavano di venir fuori e di svignarsela. Ma questo non era che un sogno, perché erano destinati a non sfuggire né al Dio né ai romani. Per il momento, ad ogni modo, facendo affidamento sui sotterranei, essi appiccarono più incendi dei romani, e la gente che dalle case in fiamme usciva a cercar rifugio in quelle gallerie essi l’uccidevano senza pietà e la spogliavano, e se addosso a qualcuno trovavano un po’ di cibo glielo strappavano e lo divoravano tutto insozzato di sangue.Ormai si contendevano con le armi in pugno il frutto delle rapine, e io credo che, se avesse tardato la presa della città, essi sarebbero giunti a tal punto di ferocia da cibarsi anche dei cadaveri. 

Un eccesso di schiavi giudei    (vi: viii: 2)

2. … Queste tuttavia non riuscivano a impedire le diserzioni, e sebbene molti venissero uccisi erano assai più numerosi quelli che riuscivano a fuggire. I romani, accoglievano tutti, sia perché Tito nella sua mitezza aveva lasciato cadere le precedenti disposizioni, sia perché i soldati li risparmiavano stanchi di uccidere e spinti dalla speranza di guadagno; infatti, escludendo soltanto i cittadini, essi vendettero schiavi tutti quanti gli altri assieme alle mogli e ai figli, ma a un prezzo bassissimo per l’abbondanza della merce e la penuria dei compratori. …

“La potenza di Dio contro gli empi”    (vi: viii: 4-5)

4. … Quando nelle mura fu aperta una breccia e alcune torri rovinarono sotto i colpi degli arieti, i difensori presero rapidamente la fuga e anche i capi ribelli si spaventarono in maniera esagerata; infatti, ancor prima che i nemici superassero le difese, essi se ne stavano sbigottiti e in forse se fuggire o no, e si potevano vedere individui un tempo boriosi e fieri delle loro empietà caduti ora in preda alla paura e tutti tremanti, con un capovolgimento che faceva compassione anche se si trattava di farabutti di quella risma. 

A un certo punto essi si prepararono a correre verso la linea di circonvallazione con l’intenzione di travolgere le sentinelle e di aprirsi un varco verso l’esterno, ma non riuscirono più a trovare i fedeli d’un tempo, fuggiti ciascuno dove la necessità l’aveva spinto; nello stesso tempo arrivarono di corsa alcuni a riferire che l’intero muro occidentale era stato abbattutolo, altri con la notizia che i romani erano penetrati all’interno e si avvicinavano in cerca di loro, e allorché qualcuno, con la vista annebbiata dalla paura, gridò che dalle torri si vedevano i nemici, quelli si gettarono faccia a terra lamentando la loro follia e, come se fossero stati loro recisi i nervi, non riuscivano a prendere la fuga. Qui si potrebbero scorgere la potenza del Dio contro gli empi e la fortuna dei romani; infatti, i capi ribelli si privarono da sé stessi della loro sicurezza e di propria volontà scesero da quelle torri in cui non sarebbero stati mai presi con la forza, ma soltanto con la fame. 

D’altra parte i romani, che avevano tanto penato attorno alle mura più deboli, occuparono per favore della fortuna quelle che mai avrebbero espugnato con le loro macchine; infatti le tre torri, di cui abbiamo parlato prima, erano tali da resistere a ogni ordigno. 

5. Ritiratisi da esse, o piuttosto scacciatine dal Dio, lì per lì i ribelli si rifugiarono nel burrone sottostante alla Siloa, ma poi, riavutisi un po’ dallo spavento, si scagliarono contro il vicino settore della linea di circonvallazione. Il loro impeto non fu però all’altezza della bisogna, poiché le loro forze erano prostrate dalla paura e dalla demoralizzazione; ed essi, respinti dalle sentinelle, si dispersero rifugiandosi nei sotterranei. I romani, impadronitisi delle mura, piantarono i loro vessilli sulle torri e con applausi e grida di giubilo inneggiarono alla vittoria. La conclusione della guerra l’avevano trovata assai più facile dell’inizio; quasi non credevano di aver superato l’ultimo muro senza subir perdite e rimasero veramente interdetti al vedere che dall’altra parte non c’era un nemico. Riversatisi nelle strade con le spade in pugno, massacrarono in massa quelli che presero e, se qualcuno cercava scampo chiudendosi nelle case, vi appiccavano il fuoco con tutte le persone che c’erano dentro. In molte di esse, penetrati per saccheggiare, trovavano intere famiglie morte e le stanze ricolme dei cadaveri delle vittime della fame, e allora, inorriditi a tale spettacolo, se ne uscivano a mani vuote. Però, mentre sentivano pietà per quelli che avevano fatto una così brutta morte, non provavano gli stessi sentimenti verso i sopravvissuti, ma facendo strage di chiunque capitava nelle loro mani ostruivano con i cadaveri le strade e inondavano di sangue l’intera città, tanto che parecchi incendi ne furono estinti. 

La carneficina ebbe termine verso sera, ma nella notte il fuoco prese vigore e l’ottavo giorno del mese di Gorpieo [Elul] spuntò su Gerusalemme avvolta nelle fiamme,  una città che durante l’assedio aveva patito tanti mali che, se avesse goduto altrettanti beni dal momento della sua fondazione, sarebbe stata giudicata senz’altro degna d’invidia; una città che non meritava simili sofferenze se non per aver dato vita a una generazione come quella che ne causò la rovina. 

L’ultimo “sacrificio” pasquale    (vi: ix: 3-4)

3. Il numero complessivo dei prigionieri catturati nel corso dell’intera guerra fu di novantasettemila, quelli dei morti dal principio alla fine dell’assedio fu di un milione e centomila.  La maggior parte di costoro furono giudei, ma non di Gerusalemme; erano infatti convenuti da ogni parte del paese per la festa degli Azzimi, quando improvvisamente scoppiò la guerra in cui si trovarono invescati, e il superaffollamento causò dapprima l’insorgere fra loro di una pestilenza e poi l’ancor più travolgente flagello della fame. 

Che la città potesse contenere un sì gran numero di persone risulta dai computi effettuati sotto Cestio, il quale, volendo dimostrare l’importanza della città a Nerone, che non teneva in nessun conto i giudei, chiese ai sacerdoti di trovare un sistema per calcolare la popolazione. Ed essi, sopravvenuta la festa che si chiama Pasqua, nella quale si offrono sacrifici dall’ora nona fino all’undicesima, e attorno a ogni sacrificio si raccoglie un gruppo di confratelli in numero non inferiore a dieci – perché non è lecito sedere da solo alla mensa rituale – e sovente essi raggiungono la ventina, contarono duecentocinquantacinquemila seicento sacrifici. Se consideriamo dieci commensali per ogni sacrificio arriviamo a un totale di due milioni settecentomila persone, che dovevano essere tutte in stato di purità rituale; era infatti vietato di partecipare a tali sacrifici sia ai lebbrosi, sia ai gonorroici, sia alle donne in periodo mestruale,  sia a chi fosse altrimenti contaminato, e così pure agli stranieri che assistevano al rito, 

4. dei quali arriva da fuori una gran moltitudine. In quel tempo, dunque, l’intera nazione era stata come chiusa in prigione dal destino, e la guerra ghermì la città rigurgitante di abitanti. Fu così che il numero delle vittime risultò superiore a quello di qualsiasi sterminio compiuto da mano umana o divina; inoltre i romani, dopo aver ucciso o catturati tutti quelli in cui s’erano imbattuti nella città, si misero a dar la caccia a quelli che s’erano nascosti nelle gallerie sotterranee praticando delle aperture nel suolo e uccidendo quanti ne trovavano, e anche laggiù furono scoperti più di duemila morti, dei quali alcuni si erano suicidati, altri s’erano tolti vicendevolmente la vita, ma i più erano finiti per la fame. 

Chi si calava giù era investito da un orribile lezzo di cadavere, e molti si affrettavano a risalire mentre altri, spinti dalla cupidigia, s’inoltravano calpestando i corpi ammonticchiati; in realtà non furono pochi gli oggetti di valore scoperti in quelle gallerie e il guadagno giustificava ogni mezzo. Vennero tirati su anche numerosi prigionieri dei capi ribelli, che nemmeno ridotti agli estremi avevano deposto la loro ferocia. A tutti e due il Dio inflisse il giusto castigo; 

Giovanni, distrutto dalla fame nei sotterranei insieme con i fratelli, supplicò i romani di concedergli la grazia che tante volte aveva sprezzantemente rifiutata, mentre Simone si arrese dopo una lunga lotta contro il bisogno, come vedremo in seguito. Questi fu riservato all’esecuzione capitale in occasione del trionfo, mentre Giovanni fu condannato al carcere a vita. I romani, infine, incendiarono le estreme propaggini della città e spianarono le mura. 

La festa di compleanno di Cesare    (vii: iii: 1)

1. Durante il soggiorno in tale città, egli festeggiò splendidamente il compleanno di suo fratello [Domiziano], dando anche corso in suo onore a gran parte della punizione dei giudei. Infatti furono più di duemila e cinquecento quelli che caddero nei combattimenti contro le fiere o duellando gli uni contro gli altri o perirono tra le fiamme. Ma ai romani, che li sterminavano in mille maniere, tutto ciò sembrava una punizione troppo lieve. Cesare si trasferì poi a Berito, che è una città della Fenicia colonia dei romani, e vi si trattenne più a lungo celebrando con maggiore sontuosità il compleanno del padre sia per la magnificenza degli spettacoli, sia per le altre forme di liberalità escogitate. La gran massa dei prigionieri trovò la stessa morte che ho detto prima. 

Suicidio a Masada     (vii: ix: 1)

1. Eleazar avrebbe voluto proseguire con le sue parole d’incitamento, ma tutti lo interruppero impazienti di metterle in atto sotto la spinta d’un’ansia incontenibile; come invasati, se ne partirono cercando l’uno di precedere l’altro e reputando che si dava prova di coraggio e di saggezza a non farsi vedere tra gli ultimi: tanta era la smania che li aveva presi di uccidere le mogli, i figli e sé stessi. 

Né, come ci si sarebbe potuto attendere, si affievolì il loro ardore nel passare all’azione, ma conservarono saldo il proponimento maturato ascoltando quelle parole e, sebbene tutti serbassero vivi i loro affetti domestici, aveva in loro il sopravvento la ragione, da cui sentivano di essere stati guidati a decidere per il meglio dei loro cari. Così, mentre carezzavano e stringevano al petto le mogli e sollevavano tra le braccia i figli baciandoli tra le lacrime per l’ultima volta, al tempo stesso, come servendosi di mani altrui, mandarono a effetto il loro disegno, consolandosi di doverli uccidere al pensiero dei tormenti che quelli avrebbero sofferto se fossero caduti in mano dei nemici. Alla fine nessuno di loro non si rivelò all’altezza di un’impresa così coraggiosa, ma tutti uccisero l’uno sull’altro i loro cari: vittime di un miserando destino, cui trucidare di propria mano la moglie e i figli apparve il minore dei mali! 

Poi, non riuscendo più a sopportare lo strazio per ciò che avevano fatto, e pensando di recar offesa a quei morti se ancora per poco fossero sopravvissuti, fecero in tutta fretta un sol mucchio dei loro averi e vi appiccarono il fuoco; quindi, estratti a sorte dieci fra loro col compito di uccidere tutti gli altri, si distesero ciascuno accanto ai corpi della moglie e dei figli e, abbracciandoli, porsero senza esitare la gola agli incaricati di quel triste ufficio. Costoro, dopo che li ebbero uccisi tutti senza deflettere dalla consegna, stabilirono di ricorrere al sorteggio anche fra loro: chi veniva designato doveva uccidere gli altri nove e per ultimo sé stesso; tanta era presso tutti la scambievole fiducia che fra loro non vi sarebbe stata alcuna differenza nel dare e nel ricevere la morte.  Alla fine i nove porsero la gola al compagno che, rimasto unico superstite, diede prima uno sguardo tutt’intorno a quella distesa di corpi, per vedere se fra tanta strage fosse ancora rimasto qualcuno bisognoso della sua mano; poi, quando fu certo che tutti erano morti, appiccò un grande incendio alla reggia e, raccogliendo le forze che gli restavano, si conficcò la spada nel corpo fino all’elsa stramazzando accanto ai suoi familiari. Essi erano morti credendo di non lasciare ai romani nemmeno uno di loro vivo; 

invece una donna anziana e una seconda, che era parente di Eleazar e superava la maggior parte delle altre donne per senno ed educazione, si salvarono assieme a cinque bambini nascondendosi nei cunicoli sotterranei che trasportavano l’acqua potabile mentre gli altri erano tutti intenti a consumare la strage: novecentosessanta furono le vittime, comprendendo nel numero anche le donne e i bambini, Libro VII:401 e la data dell’eccidio fu il quindici del mese di Xanthico [Nisan]. 


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