1

IL FONDAMENTO EPISTEMOLOGICO
DELLA FEDE CRISTIANA

Le Scritture sono la rivelazione di Dio sia di se stesso all’uomo che della propria volontà per l’uomo. Esse rivelano perciò non meramente la verità: “Ciò che l’uomo ha da credere riguardo a Dio”, ma anche la parola comando di Dio “Che doveri Dio richiede all’uomo” (Catechismo Minore di Westminster D. 3, R.). Il compito della teologia, pertanto, è duplice: in primo luogo, il teologo punta a comprendere e comunicare efficacemente la verità della parola di Dio e, in secondo luogo, ad applicare la parola comando di Dio alla situazione presente, provvedendo così una base intellegibile per la messa in pratica delle fede cristiana.

Questa definizione del compito teologico fa certe presupposizioni circa la relazione tra Scrittura e teologia, vale a dire, che le Scritture sono la base essenziale e fondamentale per la nostra comprensione di Dio e delle sue opere di creazione e provvidenza — in altre parole per la nostra comprensione di tutte le cose — e pertanto che la bibbia parla con autorità finale su tutte le materie di cui tratta. Se abbandoniamo questo concetto del compito teologico tagliamo il legame essenziale tra Scrittura e teologia.

Questo è stato avvalorato da sviluppi nella teologia protestante moderna che hanno sempre più rigettato il concetto di teologia derivato dal sola scriptura in favore di un approccio più deista o razionalista. Nessuna denominazione cristiana main-stream o gruppo all’interno di quelle denominazioni è rimasto immune da questa moderna tendenza. Il risultato è che le Scritture, quali fonte della verità ultima, e ancor più tale come parola-comando di Dio, sono scivolate sullo sfondo, e nel caso della seconda è diventata quasi totalmente trascurata, in molti ambienti perfino come base per l’insegnamento dell’etica e della moralità personale. Il legame essenziale tra Scrittura e teologia è andato perso ed è andato perso perché il fondamento epistemologico su cui era stato affermato è stato abbandonato.

Il proposito di questo capitolo è d’esaminare il fondamento epistemologico del concetto di fede cristiana che risulta dal sola scriptura in contrasto con quello del concetto del mondo e della vita [1] del non-credente, e poi di provvedere una concisa applicazione della teoria cristiana della conoscenza alla filosofia dell’istruzione. La necessità e l’importanza di trattare questo soggetto oggi è causato dal fatto che l’epistemologia è la preoccupazione prioritaria della filosofia moderna e di conseguenza è solo sulla base di una corretta comprensione del soggetto che saremo capaci di mettere insieme un’apologetica per la fede cristiana che sia razionalmente coerente e al contempo fedele alla Scrittura.

Il locus ultimo della razionalità

L’economista e filosofo austriaco Ludwig von Mises disse che i fatti non si esprimono da se stessi, vengono espressi mediante una teoria. Questa è un’affermazione tipicamente post-kantiana e citata in quanto tale significa che i fatti della realtà non hanno significato o scopo finché la mente creativa dell’uomo non ordini quei fatti in modo logico e con ciò dia loro significato e scopo. In questa prospettiva il locus ultimo della razionalità e dell’intelligibilità è l’uomo in sé. L’uomo è la misura di tutte le cose al di sopra del quale non c’è autorità più alta. Per il cristiano, invece, è l’atto creativo di Dio a dare a tutti i fatti della realtà il loro scopo e significato. La sua parola è l’originale parola creativa che porta in esistenza e ordina tutti i fatti della realtà. L’uomo è capace di comprendere il mondo in cui vive perché anch’egli è parte di quella creazione ordinata razionalmente, creato ad immagine di Dio “in conoscenza, giustizia e santità, col dominio sulle creature” [2].

Ciò che il non-credente asserisce riguardo ai fatti della realtà è pertanto basato su una particolare teoria della conoscenza umana la quale assume che la mente dell’uomo abbia il potere originale creativo di definire e ordinare i dati nudi e crudi della realtà che lo circonda senza fare riferimento ad alcuna autorità esterna o ad un principio interpretativo [3]. In altre parole è basato su certi presupposti riguardo la natura del mondo in cui vive, cioè che il mondo esiste e può essere compreso indipendentemente dal Dio delle Scritture.

Similmente, ciò che il cristiano asserisce riguardo ai fatti della realtà è basato su un presupposto particolare riguardo la natura della realtà, e cioè che essa è la creazione ex nihilo del Dio della Scrittura. In questo modo il cristiano conosce tutte le cose per fede (Eb. 11:3), che significa che comincia il propio pensare con un atto di fede nel Dio delle Scritture e con ciò postula la veracità e la sufficienza della rivelazione divina come il reale fondamento della propria comprensione di tutte le cose. Nel farlo egli insiste che la sola interpretazione dei fatti della realtà che sia valida è quella che gli viene data dal suo creatore e che questa autoritativa interpretazione della realtà è stata dettata da Dio stesso nelle Scritture del Vecchio e Nuovo Testamento. In questo modo il cristiano asserisce che la sola epistemologia o teoria della conoscenza umana ad essere valida è quella che si fonda sulla parola rivelata di Dio.

Di qui, malgrado dobbiamo rigettare categoricamente la cornice che ha dato origine a questo dettame — cioè che i fatti non si esprimono da se stessi ma vengono espressi da una teoria — dobbiamo, comunque, allo stesso tempo riconoscere che in esso c’è una verità importante. Di fatto questa verità è per l’uomo la base fondamentale dell’epistemologia. Ma per l’umanista è la mente autonoma dell’uomo a dare senso ai fatti della realtà e a dettare la parola di verità definitiva riguardo al reame dei fenomeni, mentre per il cristiano è Dio a dettare la parola di verità riguardo alla realtà [4].

Per il cristiano, quindi, il locus ultimo della razionalità e dell’intelligibilità è il Dio delle Scritture e pertanto l’uomo, se vuole conoscere qualcosa veramente, in quanto creatura di Dio creato a sua immagine deve, per usare le parole di Cornelius Van Til: “pensare i pensieri di Dio appresso a Lui” [5].

Inoltre, secondo la teoria cristiana della conoscenza, anche il non credente è in grado di giungere a vera conoscenza solo nella stessa maniera, benché ne sia inconsapevole. Nella misura in cui lo neghi e rifiuti di pensare i pensieri di Dio nella sua cornice di pensiero la sua conoscenza è falsa perché è basata su una teoria che non armonizza con l’interpretazione definitiva e autoritativa del Creatore dei fatti della realtà. L’esempio classico di questo, ovviamente, è la valutazione di Eva dei fatti della realtà nel Giardino d’Eden. Avendo assunto che aveva la capacità di giungere alla verità ultima concernente la natura della realtà senza fare riferimento all’autoritativa parola di Dio fece una falsa valutazione dell’albero della conoscenza del bene e del male. È stato questo processo del ragionamento autonomo, cioè il rigetto della definiva parola di Dio come fondamento di tutta la conoscenza, che portò alla caduta e che costituisce l’essenza del peccato originale.

Alcuni problemi con la visione umanista
della razionalità

Il non-credente, come abbiamo visto, comincia il suo pensare con la premessa che il mondo esiste e può essere compreso indipendentemente dal Dio che l’ha creato e che lo sostiene continuamente per la parola della sua potenza. Egli postula con ciò un’epistemologia che rivendica essere neutrale o oggettiva, cioè basata sui fatti della realtà anziché sui fatti interpretati da una fede religiosa. Questa rivendicazione di neutralità è un mito. È un mito perché nel fare questo assunto fondamentale il non-credente è tutt’altro che neutrale o oggettivo. Sta partendo da una teoria che per propria natura nega che il Dio delle Scritture possa esistere e che pertanto nega implicitamente l’intera religione biblica. In questo modo, la sua interpretazione dei fatti della realtà negherà inevitabilmente che l’universo sia ciò che il cristiano insiste che sia, cioè fattura di Dio. Dato questo fondamentale punto di partenza il non-credente non può logicamente giungere a qualsiasi altra conclusione.

Qui potrebbe essere obbiettato che benché il non-credente non assuma fin dal principio l’esistenza del Dio delle Scritture però neppure la nega ma semplicemente lascia aperta la questione. Se Dio esista oppure no sarebbe a quel punto determinato dal risultato dell’applicazione di principi razionali autonomi. Per mezzo della proprie capacità razionali l’uomo assurgerebbe alla conoscenza di Dio.

Però, il dio di una tale teologia naturale non può essere il Dio rivelato nella Scrittura ma semplicemente un dio creato dall’uomo secondo la moda religiosa dell’epoca. È così perché il Dio delle Scritture è il vero fondamento di tutte le cose, la scaturigine di tutta la ragione e quindi della razionalità propria dell’uomo. Pertanto, come già affermato, se l’uomo vuole sapere qualsiasi cosa veramente deve pensare i pensieri di Dio nella sua cornice di pensiero, perché Egli è Colui nei cui termini tutte le cose devono essere conosciute e misurate, non la mente autonoma dell’uomo. Porre la domanda: “Dio esiste?” Significa asserire, ma proprio al massimo, che la possibilità precede Dio, che equivale a dire che il concetto di possibilità governa l’esistenza di Dio. Tale dio non sarebbe il Dio di cui si parla nelle Scritture perché il Dio delle Scritture è il Dio di tutte le possibilità. La bibbia afferma che il Dio del quale parla non è possibile che non esista, e che tutte le cose dipendono da Lui per la loro esistenza. Il Dio delle Scritture è dunque la scaturigine di tutto il vero, colui che determina ciò che esiste e ciò che non esiste e quindi colui che definisce tutte le cose, uomo incluso, col suo atto di creazione. Assumere la razionalità autonoma dell’uomo è negare l’esistenza di un tale Dio. Per l’uomo rivendicare di determinare da se stesso se Dio esista o no è fare di se stesso la scaturigine del vero finale, colui che determina ciò che esiste e ciò che non esiste e pertanto colui che definisce Dio secondo la propria immagine. Qualsiasi Dio immaginato su tali basi non può essere il Dio della Scrittura ma meramente la proiezione di un idolo dentro la Scrittura. La domanda se Dio esista oppure no è pertanto negare in partenza l’esistenza del Dio della Scrittura [6].

Questo sbugiarda la supposta neutralità del razionalista. La cosiddetta oggettività o dottrina della neutralità dell’uomo moderno è, di fatto, un presupposto religioso universale negativo riguardo alla natura della realtà, che è sostenuto e difeso per sola fede perché l’assunto che il mondo esista e possa essere compreso indipendentemente dal Dio della Scrittura non può essere provato oggettivamente più di quanto possa essere provata oggettivamente l’esistenza di Dio; è una questione di fede.

In questo modo, l’idea che il conflitto tra umanismo e cristianesimo sia un conflitto tra fatto e fede, che è stata promossa da molto dell’establishment “scientifico” ai nostri giorni, è una menzogna. In realtà il conflitto è fede contro fede, perché nell’universo non ci sono “crudi fatti”, ci sono solo fatti interpretati, e nella sua interpretazione dei fatti della realtà il non-credente assume la propria capacità di conoscere e comprendere indipendentemente da Dio il mondo che egli crede esista indipendentemente da Dio.

È questo il presupposto che governa il pensare del non-credente e quindi la sua valutazione dei fatti in qualsiasi e ogni ambito. Egli pertanto concepisce il mondo intorno a sé e tutte le cose in esso nei termini di una teoria che è pre-teoretica — vale a dire non provata e per la propria natura non provabile. Il non-credente, perciò, comincia il proprio pensare con un atto di fede nella propria presupposizione circa la natura autonoma della realtà e nella propria capacità in qualità di pensatore originale creativo e conoscitore del mondo, in altre parole vede tutte le cose da una prospettiva religiosa che richiede la fede come proprio fondamento.

Conoscenza, fede e rivelazione

Ciò diventa evidente se consideriamo che esistono solo due posizioni ultime con riferimento al possesso della conoscenza, vale a dire la conoscenza esaustiva o onniscienza, e la completa ignoranza. Se io debba conoscere qualsiasi cosa realmente devo conoscere ogni cosa esaustivamente, altrimenti ciò che so, o meglio, ciò che penso di sapere, può essere influenzato da ciò che non so, in un modo e una misura che io non posso sapere, quindi la mia “conoscenza” non è conoscenza in alcun senso proprio ma meramente speculazione. Se in quanto essere finito che non ha conoscenza esaustiva, io voglia conoscere qualche cosa veramente, mi deve essere rivelato da uno che conosca tutte le cose esaustivamente. Sulla base di questa rivelazione e nella misura in cui il mio ragionare sia coerente con essa a quel punto sono in grado di procedere ad edificare la mia conoscenza e la mia comprensione dell’universo che mi circonda. Ma la mia conoscenza è necessariamente basata sulla fede nella validità di questa rivelazione.

È così tanto per il non-credente e per quelli che si considerano razionalisti quanto per il cristiano. Tutta la conoscenza, scientifica o altro, è basata su rivelazione che significa dire su un “dato” che è pre- teoretico e pertanto ricevuto per fede. Tali “dati” sono considerati assiomatici e pertanto assunti senza escussioni. Essi formano la base di tutta la futura conoscenza e pertanto non sono suscettibili di prova razionale perché mettere in discussione la loro validità sarebbe mettere in discussione la possibilità della conoscenza. In altre parole, la conoscenza dipende dalla fede, non la fede dalla conoscenza. La sola alternativa per gli esseri umani finiti è la totale ignoranza e lo scetticismo.

Il non-credente accetta la natura razionale della realtà come una verità auto-evidente. Ma è una verità auto-evidente per l’uomo solamente perché egli stesso è creato ad immagine di Dio che ha portato in esistenza questo cosmo razionale in primo luogo. La natura razionale della creazione è rivelata nella creazione; è per tutti chiara da vedersi perché questo è il modo in cui Dio l’ha creata [7].

Il non-credente inoltre accetta, comunque, che il mondo esista e possa essere compreso indipendentemente dal Dio della Scrittura e che le sue proprie facoltà razionali siano sufficienti al compito di comprendere quel mondo e pertanto capaci di dare ordine e significato ai fatti della realtà in un modo originale creativo. Anche queste sono fondamentalmente credenze religiose, cioè presupposti che governano la struttura della visione del mondo del non-credente e che sono ricevute per sola fede.

Nella misura in cui il non-credente sia coerente con la prima (cioè la natura razionale della realtà) è capace di conoscere l’universo intorno a sé. Ma nella misura in cui assume la seconda (la natura autonoma della realtà) la sua conoscenza è corrotta e pertanto falsa. È la mutua esclusività di queste presupposizioni basilari circa la natura della realtà che rende in ultima analisi impossibile per il non-credente congegnare una visione del mondo razionalmente coerente e significativa.

La circolarità del ragionamento

Ogni modo di ragionare è pertanto circolare per il fatto che fa certi assunti fondamentali circa la natura della realtà che governano il processo del ragionamento. Queste presupposizioni governano sia il metodo usato per valutare i dati della realtà sia le conclusioni raggiunte su questi dati, visto che il processo di ragionamento avviene nei termini della validità di queste presupposizioni. Questo vale per il non-credente quanto per il credente. La visione del mondo del non-credente è pertanto basata sulla fede, vale a dire sull’ipotetica validità delle presupposizioni che governano la sua comprensione della natura della realtà. In altre parole, il non-credente fa certe presupposizioni riguardo al mondo in cui vive che funzionano essenzialmente da dogma religioso nei termini del quale viene ricercata ulteriore conoscenza e comprensione del cosmo. Quando nega che sia così e reclama oggettività o neutralità egli si dimostra con ciò d’essere ignorante del fondamento epistemologico del proprio pensiero. In una parola, è un illuso.

Presupposti presi in prestito

Comunque, questo non è l’unico punto su cui il non-credente s’illude. Se fosse intellettualmente onesto con se stesso — cosa infatti rara tra i cosiddetti pensatori scientifici dei nostri giorni — dovrebbe ammettere che pensa e ragiona continuamente nei termini di principi totalmente incoerenti. Assume l’esistenza di un cosmo ordinato razionalmente, o comunque un cosmo che consente di essere razionalmente ordinato dall’uomo, che alla fine diventa la stessa cosa perché se il cosmo non è ordinato razionalmente non ha significato ed è pertanto incapace di essere ordinato razionalmente — di fatto, in tale universo non esiste una cosa come la razionalità. Ma poi tenta di mettere insieme una filosofia che è basata su un concetto diametralmente opposto a questo assunto, vale a dire l’evoluzione totalmente casuale dell’universo, che significa che il cosmo intero, ogni fatto e sfaccettatura della realtà, incluso l’uomo e pertanto la sua razionalità, sono mere cose scollegate l’una dall’altra, meri accadimenti, il risultato del caso, senza significato in relazione alle altre casualità che avvengono nell’universo. In altre parole, il non-credente cerca di argomentare razionalmente di un universo che è per propria natura irrazionale e quindi impossibile da comprendersi perché non ci sono fondamenti per la sua intelligibilità.

Van Til ha descritto il compito del non-credente come il tentativo d’infilare un numero infinito di perline senza buco in una stringa infinitamente lunga senza capo ne coda. Ma questo è, in effetti, precisamente ciò che il non-credente rivendica d’essere riuscito a fare visto che asserisce di essere capace di comprendere il mondo in cui vive. Tuttavia, è capace di farlo solo nella misura in cui è incoerente con se stesso. Per poter dare una qualsiasi forma di senso all’universo deve assumere principi operativi di razionalità, legge, e intelligibilità che fondamentalmente contraddicono la sua credenza che l’universo sia un prodotto del caos e del caso. I principi che assume, infatti, sono presi in prestito da una comprensione della realtà come essa è stata creata da Dio. In questo modo, nell’usare questi principi il non-credente testifica della propria continua dipendenza da un concetto di realtà che presuppone che il cosmo sia una creazione del Dio delle Scritture. Ovviamente nega che sia così, visto che ammetterlo equivarrebbe a riconoscere Dio. Egli dunque presuppone il vero riguardo a Dio e continuamente tenta di negare la natura della realtà che è di essere creata da Dio.

Pertanto, il non-credente opera continuamente su presupposti presi in prestito. Deve accettare l’universo come creato da Dio, vale a dire come un universo razionale governato da una legge. Questo è capace di fare, e senza esserne consapevole, perché è creato ad immagine di Dio e quindi in possesso di una natura razionale. Ma come creatura decaduta nega e sopprime la verità intorno a Dio e perciò tenta di spiegare la natura della realtà nei termini di una teoria che presuppone l’esistenza indipendente del cosmo e la razionalità autonoma dell’uomo. Ne risulta un’epistemologia incoerente che porta a molte teorie ad hoc circa l’origine dell’universo e di come funziona. Ma poiché tutte queste teorie e filosofie sono incoerenti per logica esse vanno a finire nell’irrazionalità. L’uomo non può trovare il senso dell’universo senza Dio. I suoi tentativi di farlo sono internamente incoerenti perché sono fondati su principi irreconciliabili.

Ciò nonostante, poiché l’uomo è creatura di Dio, creato ad immagine di Dio affinché pensi i pensieri di Dio nella sua cornice di pensiero, in altra parole perché è incoerente e assume un mondo di razionalità, è capace di interpretare il mondo intorno a sé in qualche misura. Ma lo fa malgrado la sua negazione di Dio e solo nella misura in cui accetta, benché inconsapevolmente, la natura della realtà che è di essere una natura creata e rivelata da Dio — in altre parole, nella misura in cui pensa i pensieri di Dio nella sua cornice di pensiero. Se dovesse essere coerente con la sua negazione di Dio dovrebbe concludere che tutte le cose sono senza senso e che è impossibile dire qualcosa di intelligibile su qualsiasi fatto o aspetto dell’esistenza nell’universo casuale che lo circonda — di fatto, in tale universo il concetto di intelligibilità non ha alcun senso. In una certa misura alcune scuole di filosofia moderna hanno elaborato questa verità più coerentemente di quanto fatto sin prima, e pertanto abbiamo l’esistenzialismo e il nichilismo.

 

Note:

1 Per molta parte di quello che ho da dire qui sull’epistemologia, e per la mia generale comprensione del soggetto, sono in debito agli scritti di Cornelius Van Til. Tuttavia, poiché molti dei suoi libri non hanno un indice – e anche quando ci sia non è esaustivo – non sono stato in grado di dare i riferimenti specifici ai suoi scritti per alcune delle idee che ho espresso, e pertanto questo riconoscimento generale dovrà bastare. Per chi desideri perseguire questo soggetto più dettagliatamente i seguenti tre libri di Cornelius Van Til sono un eccellente punto di partenza: A Survey of Christian Epistemology; The Defense of the Faith e A Christian Theory of Knowledge, tutti pubblicati da Prsbyterian and Reformed Publishing Company. (Concetto del mondo e della vita traduce “world and life view” che a sua volta esprime il termine filosofico tedesco weltanschauung, e verrà spesso abbreviato con “visione del mondo” N.d.T.)
2 Catechismo maggiore di Westminster D. 17, R.
3 Scrivendo sulla secolarizzazione della scienza Herman Dooyeweerd dichiara: “Il nuovo ideale della scienza ha secolarizzato il motivo biblico della creazione. Il potere creativo è stato attribuito al pensiero teoretico al quale è stato dato il compito di demolire metodicamente le strutture della realtà come sono stata date nell’ordine divino della creazione, per poterle creare di nuovo teoreticamente secondo la propria immagine. La presuntuosa affermazione di Cartesio, ripetuta da Kant: ‘Dateci il materiale costruiremo un mondo per voi’ e l’affermazione di Thomas Hobbes, che il pensiero teoretico può creare proprio come Dio stesso, sono ambedue ispirate dallo stesso motivo umanistico, il motivo della libertà creativa dell’uomo concentrata nel pensiero scientifico”. (The Secularization of Science; Memphis, TN: Christian Study Centre, 1954, p. 19.

4 La differenza tra questi due approcci può forse essere riassunta dicendo che questa verità è per il cristiano il punto di partenza approssimato (più prossimo) nell’atto di conoscere, mentre per l’umanista è il punto ultimo di partenza.
5 Si tratta di un concetto importante della filosofia di Van Til: “To think God’s thoughts after Him” — pensare i pensieri di Dio secondo Lui (o dopo di Lui, cioè non in modo creativo ma come scoperta) ovvero “nella sua cornice di pensiero” che è l’idioma che verrà generalmente usato di qui in poi. (N.d.T.).
6 Van Til dice così: “Contrapposto a questa sorta di dio che scaturisce dal principio dell’uomo autonomo c’è il Dio della Scrittura. Egli presenta se stesso nella Scrittura come Colui nei cui termini l’uomo deve abbandonare la propria autonomia e permettere di essere interpretato da Dio. In altre parole la Scrittura presenta Dio come di valore ultimo. Di conseguenza la Scrittura si presenta come il principio finale mediante il quale devono essere misurate tutte le cose. I dii prodotti dalla mente dell’uomo senza le Scritture sono idoli. Abbracciare uno qualsiasi di tali dii è trasgredire il primo comandamento del Dio della Scrittura.” (A Christian Theory of Knowledge; Nutley, New Jersey: Presbyterian and Reformed Publishing Company, 1969, p. 224.
7 Van Til afferma il caso in questo modo: “Secondo la Scrittura Dio ha creato l’ ‘universo’. Dio ha creato tempo e spazio, Dio ha creato tutti i ‘fatti’ della scienza. Dio ha creato la mente umana. In questa mente umana Dio ha posto le leggi del pensiero secondo le quali esso deve operare. Nei fatti della scienza Dio ha posto le leggi dell’essere secondo le quali essi devono funzionare. In altre parole, lo stampo del piano di Di è sopra a tutta la creazione. Noi possiamo caratterizzare quest’intera situazione col dire che la creazione di Dio è la rivelazione di Dio. Dio ha rivelato se stesso nella natura e Dio ha rivelato se stesso anche nella mente dell’uomo. Perciò è impossibile per la mente dell’uomo funzionare se non in un’atmosfera di rivelazione. E ogni pensiero dell’uomo quando funzionasse normalmente in questa atmosfera di rivelazione esprimerebbe il vero come è posto da Dio nella creazione. Possiamo perciò definire un’epistemologia cristiana un epistemologia rivelazionale.” (A Survey of Christian Epistemology; Phillisburg, New Jersey: Presbyterian and Reformed Publishing Company, p. 1.


Altri Libri che potrebbero interessarti