3. Il Re è Nudo

 

Secondo un’antica fiaba, certi astuti filosofi avvicinarono un re e gli offrirono di tessere per lui un raro e costoso abito che avrebbe avuto la meravigliosa capacità di rendergli manifesti gli sciocchi e i furfanti nel suo reame. In virtù delle magiche qualità dei fili, l’abito sarebbe stato invisibile a tutti eccetto ai saggi e ai puri di cuore. Deliziato il re commissionò la tessitura dell’abito regale a costo enorme, solo per scoprire, a propria costernazione, che egli era ovviamente uno sciocco e un furfante poiché non vedeva nulla sui telai. Nel giorno stabilito per la grande parata, gli astuti filosofi riscossero il regale onorario, vestirono il re della sua panciuta nudità, e sgusciarono fuori dalla città mentre la parata aveva inizio. Tutto il popolino si unì ai cortigiani nel lodare i vestimenti regali, nessuno osando ammettere che non vedeva null’altro che la nudità del re, per non essere marchiati come auto-confessi sciocchi e furfanti. L’intera parata di stupidità crollò, quando la vergogna del re e del popolo fu smascherata dall’osservazione di un onesto bambino: “Il re è nudo!”

Questa storia è stata spesso ripetuta, con lunghe omelie riguardo ai sentimenti del re e della gente. Ma, significativamente, il bambino è stato ignorato, come accade generalmente per la verità. Si consideri il futuro di quel bambino. Con una piccola verità egli rese manifesta una bugia nazionale e personale. Con un granello di verità, trasformò in vergogna la gloria della gente. Non ci sorprende che non si dica niente di lui. Gli astuti filosofi la fecero franca, e divennero pure ricchi. Re e popolo continuarono con le loro attività quotidiane, mangiando, bevendo, sposandosi e dando in sposa. Ma il piccolo bambino fu emarginato fino alla vecchiaia: aveva detto la verità e svergognato la sua razza. Non solo la nudità del re, ma quella della gente, perfino di suo padre e sua madre, era stata messa sotto gli occhi di tutti con la sua verità. Nessuno era stato consapevolmente nudo finché la verità del bambino non aveva distrutto la loro menzogna, strappando via la loro foglia di fico fatta di comune ipocrisia. Il bambino continuò a dire la verità. Tutti lo conoscevano, ma pochi osavano dargli ascolto perché pochi desideravano essere nudi di nuovo.

Ora questa storia ha un moderno parallelo nella vita e nell’opera del filosofo della religione Cornelius Van Til, il quale, come il bambino della favola, osservò le filosofie regnanti ed esclamò: “il re è nudo!” forse non si può dire di nessun altro moderno pensatore che è tanto ben conosciuto quanto poco letto come lo è Van Til. La reazione dei recensori e dei lettori alla pubblicazione del suo New Modernism, Una Valutazione della Teologia di Barth e Brunner nel 1946, fu occasione di furente sconcerto ed orrore, uno shock di dimensioni tali che l’hanno fatto divenire in breve tempo materia di studio significativa. Il libro fu un’inqualificabile offesa, un oltraggio, una esecrazione di tutta la filosofia e la teologia. Il Calvin Forum, che vantava un alone d’ortodossia, alcuni anni più tardi, nel discutere la filosofia di Van Til, lo fece con un calore ed un linguaggio talmente intemperante da accelerare la propria scomparsa. Qui, apparentemente, c’era un Ismaele, la cui mano era alzata contro ogni uomo. O non era invece l’opposto con la mano d’ogni uomo alzata contro Van Til?

Quel’è la ragione per tutta questa furia? Cosa c’è nel suo pensiero cha fa militare contro di lui tutte le filosofie e teologie contemporanee?

Per comprenderlo. Dobbiamo prima di tutto guardare di nuovo alla Bibbia stessa piuttosto che alla recensione che ne fanno Graf-Wellhausen. Secondo quel documento, la tentazione dell’uomo fu “essere come Dio, conoscendo il bene e il male” (Ge. 3:5), vale a dire, l’uomo avrebbe dovuto essere il proprio dio, determinando ciò che costituisca bene e male secondo i dettami della sua propria natura. A questa tentazione l’uomo si sottomise, e nei termini di questo concetto l’uomo vive. Qui, dunque, c’è l’origine del concetto di uomo autonomo, che è il punto di partenza in filosofia, uomo il cui pensiero è creativo, e la cui ragione ha il diritto di revisione giudiziaria su tutta la creazione e sul suo Creatore. Pure qui è il punto d’origine di maggior parte della teologia e della filosofia, nell’uomo il conoscitore, il determinatore di categorie di pensiero, che tollera Dio solo se tutte le nozioni di pre-esistenza vengono anticipatamente scartate. Questo uomo autonomo tollererà Dio solo se la rivelazione diretta sia eliminata, se la semplice identificazione della Scrittura con la Parola di Dio è fatta cadere, e la relazione di Dio con l’uomo è fatta paradossica o dialettica. In questo modo, non è Dio ad essere conosciuto direttamente, ma la consapevolezza propria dell’uomo. Non è Dio che parla semplicemente, ma ancora una volta la ragione stessa dell’uomo. O Dio è eliminato dalla scena, o gli è permesso coesistere con l’uomo autonomo nei termini dell’uomo stesso.

Torniamo di nuovo al re nudo e ai suoi ipocriti cortigiani e popolazione. Quando l’osservazione del bambino onesto fu fatta, quel re fu esposto in tutta la sua nudità di pallone gonfiato, e i suoi adoranti seguaci come sciocchi e furfanti. In questo modo fu ferito l’orgoglio di ognuno, e la vergogna di ognuno fu messa in piazza. L’animosità di tutti fu indirizzata perciò contro il bambino. Ma un attacco diretto era impossibile: avrebbe dimostrato troppo la loro furfanteria. Di conseguenza i parassiti di corte insistettero che erano d’accordo con l’enfasi sulla verità del bambino ma rifiutando la sua metodologia. “Noi siamo interessati di conoscere la natura della realtà quanto questo giovane” insistettero, “Ma non possiamo tollerare questa metodologia radicale ed infame. Si sarebbe potuto ottenere molto di più, se anziché dire: ‘Il re è nudo’, il bambino avesse detto: ‘Il re è senza mantello’ e si fosse persino offerto di provvederne uno. Questo avrebbe costituito un terreno comune tra di loro anziché distruggerlo”. Il bambino, furono tutti concordi, era un estremista che aveva distrutto la propria tesi ed eliminato qualsiasi possibile fondamento dicendo chiaramente che il re aveva di fatto abbandonato i vestiti anziché rimarcare educatamente che il re aveva un qualche vestito.

Questa è stata l’accusa mossa anche contro Van Til. La sua filosofia non lascia nulla all’uomo naturale coerente. Gli sfruttatori religiosi dell’uomo autonomo e della sua filosofia insistono che al loro re sia concesso che ha tutto eccetto il suo mantello, che all’uomo naturale sia concessa valida conoscenza di tutto eccetto di Dio e di questioni pertinenti alla rivelazione. In questo assunto è fondamentale credere in un area di fatti neutrali che sono egualmente a disposizione di Dio e dell’uomo e che derivano il loro significato da sé stessi. Questo credo, distruttivo di ogni pensiero, rimane comune alla maggior parte della filosofia religiosa, benché ultimamente sia stato attaccato da varie fonti, con enfasi diverse. Alan Richardson, per esempio ha scritto che “l’illusione che ci sia una storia ‘oggettiva’ o non interpretata è stata finalmente spazzata via. I fatti della storia non possono essere sgrovigliati dai principi interpretativi attraverso i quali solamente possono esserci presentati come storia, vale a dire, come una serie o ordine di eventi coerenti e tra di loro connessi. La fede cristiana fornisce il necessario principio interpretativo per mezzo del quale i fatti della storia biblica e cristiana possono essere razionalmente osservati e compresi” [1]. Fatti ed interpretazione sono inseparabili. La risposta neo-ortodossa ed esistenzialista a questo problema è di eliminare la vecchia relazione soggetto-oggetto e il suo concetto statico di essere oggettivo e di rimpiazzarlo con l’incontro divino-umano con la filosofia trascendentale di puro atto. Né i fatti né Dio hanno alcun significato in sé stessi ma solo nei termini di questa interazione: l’esperienza dell’uomo di questo incontro è il punto di riferimento finale in ogni interpretazione. Ma, secondo Van Til: “Nella prospettiva cristiana delle cose è il Dio autosufficiente ad essere il punto di riferimento finale … Per i cristiani, in ultima analisi, i fatti sono quello che sono in virtù del posto che prendono nel piano di Dio” [2]. L’uomo naturale, il soggetto del re nudo, ha un ben definito preconcetto nel suo pensiero ma insiste che solamente il bambino ha preconcetti. Van Til è categorico sulla fallacia di qualsiasi tentativo di stabilire un principio di interpretazione altro da Dio. Se, seguendo la maniera di Tommaso d’Aquino o del vescovo Butler, stabiliamo un principio neutrale di coerenza e di razionalità, o se come Clark e Carnell, eleviamo al trono la legge di contraddizione, coinvolgiamo due importanti concessioni. Primo, noi ragioniamo dal principio dell’uomo a Dio ed eleviamo al trono la nostra legge sopra Dio come basilare ad ogni procedimento umano e divino. Se la legge o il principio sono lo strumento basilare per la comprensione, allora esso e non Dio è basilare per pensare, per interpretare. Ma se Dio è il creatore, allora Dio stesso è il solo vero principio d’interpretazione. Secondo, quest’approccio “concede che l’uomo naturale abbia la plenaria abilità di interpretare certi fatti correttamente malgrado indossi gli occhiali fumé del trasgressore del patto. Come se l’ascia dei trasgressori del Patto non fosse da affilare. Come se non fossero ansiosi di evitare di vedere i fatti per quel che veramente sono [3]. Sempre più, la storia della filosofia sta rendendo ovvio che ogni filosofia ora ha il suo punto di riferimento o nell’uomo come valore ultimo, o in Dio come tale. È anche evidente che se la Scrittura è nel giusto nell’affermare che “i cieli raccontano la gloria di Dio, e il firmamento dichiara l’opera delle sue mani” (Sl. 19:1), allora ogni fatto nella creazione testimonia all’uomo riguardo a Dio. L’uomo in questo modo non è in un mondo che dà una testimonianza neutrale né è egli stesso un neutrale osservatore. Se manca di riconoscere questa testimonianza della creazione è perché deliberatamente sopprime quella testimonianza. E visto che egli stesso è un essere creato, egli sopprime pure la testimonianza della propria stessa natura ed arroga a sé stesso un principio d’interpretazione indipendente, uno on cui egli diventa il proprio dio. Anziché riconoscere di essere stato creato, l’uomo assume di essere di valore ultimo, in quanto tale, egli rifiuta di tollerare un essere indipendente ed ultimo quale Dio: Dio al massimo può esistere solo come un altro dio tra gli dei, magari con una posizione d’anzianità, ma sicuramente nel rango di emerito.

Ma se Dio veramente e causalmente ha creato tutte le cose, è indipendente e sovrano e con la sua provvidenza governa e controlla tutte le cose, allora nessun fatto è un fatto separatamente da Dio né ha una piena e valida interpretazione separatamente da lui. Ogni fatto è un fatto creato da Dio ed interpretato da Dio, e questo mondo esiste solamente in qualità di mondo creato da Dio e interpretato da Dio. Mentre la conoscenza che l’uomo ha del mondo e della Scrittura non può essere esaustiva, pure può essere vera nella misura in cui essa riconosce ed interpreta ciò che è stato pienamente interpretato da Dio. In principio, perciò, l’uomo autonomo è incapace di alcuna vera conoscenza se è fedele a sé stesso quale solo principio d’interpretazione, ma poiché “l’uomo non è un prodotto finito”[4] egli non manifesta questo totale collasso in questa vita. Questa radicale incapacità dell’uomo naturale coerente è presente in ogni reame di conoscenza ed ogni aspetto della realtà. Il suo fallimento non è limitato al campo della religione ma è egualmente applicabile alle scienze naturali. Se tutti i fatti sono fatti dati-da-Dio, allora tutti i fatti hanno una comune fonte d’interpretazione e, rigettarla in un’area è rigettarla in tutte. L’uomo è salvato da questo estremo solo dalla sua incapacità di essere coerente con sé stesso, egli pensa in modo teista quando può farlo in regime di sicurezza mentre ripudia il fondamento della propria conoscenza. L’uomo autonomo è dunque come alcune famiglie dell’ovest, il cui unico mezzo di sussistenza è il roteare una larga corda. Tali uomini negano categoricamente di essere ladri di bestiame, benché non abbiano altro evidente mezzo di sostentamento, mentre allo stesso tempo vivono interamente alle spalle del proprietario del ranch. In questo modo l’uomo naturale di fatto possiede conoscenza, ma è conoscenza presa in prestito, rubata dal pascolo cristiano-teista, allo stesso tempo l’uomo naturale non ha conoscenza, perché nei termini del suo principio — il valore ultimo del suo pensiero — non può averne alcuna, e la conoscenza che possiede non è veramente sua. Se il ladro fosse fedele alla propria professione d’onestà, dovrebbe patire la fame per mancanza di cibo o essere costretto all’onestà. Se l’uomo naturale fosse fedele ai propri presupposti, egli dovrebbe ammettere di non avere conoscenza e di non poter sapere nulla, o si rivolgerebbe alla Trinità ontologica come la sola fonte di conoscenza e il solo principio d’interpretazione. L’uomo naturale ha conoscenza valida solo nello stesso modo in cui un ladro possiede dei beni.

Che Van Til abbia detto dell’uomo autonomo che “il re è nudo” è perciò offensivo, i suoi critici vorrebbero insistere che dicesse semplicemente: “Il re non ha mantello”. In altre parole, nell’abbandonare il Dio autosufficiente, l’uomo autonomo ha semplicemente dismesso un pesante mantello ma è ancora adeguatamente vestito e, nei termini del tempo estivo, è vestito appropriatamente. Ma Van Til insiste che l’uomo autonomo nel dismettere Dio ha dismesso tutto e, se coerente col proprio principio, non ha valida conoscenza di alcun ché, sé stesso incluso, perché anch’egli è un fatto- creato-da-Dio e perciò un fatto da Dio interpretato. Il re ed i suoi seguaci si sono coinvolti nella loro infame situazione precisamente perché rifiutano di conoscere sé stessi. In virtù della Caduta gli uomini sono peccatori davanti a Dio, un fatto che non vogliono riconoscere. I disonesti filosofi/tessitori sfruttarono questa volontaria cecità da parte del re e della gente e quindi li convinsero a spogliarsi e a sfilare nella parata della vergogna. E questa è la sfida di Van Til per loro, che affrontino il fatto che non sono niente di più che creature nel peccato che vivono in un mondo creato da Dio spiegabile solo nei termini di Dio e della sua interpretazione. Gli apostoli dell’uomo autonomo accusano Van Til di utilizzare una metodologia fallace per stabilire una verità che fingono di accettare con lui, quando in realtà la questione della metodologia è un’evasione della verità basilare, e cioè della nudità dell’uomo autonomo e del suo rifiuto di riconoscere la sua nudità.

Il re era nudo ma non osava ammetterlo. Mentre sfilava lungo la strada sentiva il sole sulla sua nuda schiena e la lieve brezza sui nudi stinchi, e sapeva di essere completamente esposto, malgrado ciò che gli adulatori stessero dicendo dei suoi magnifici vestiti. Allo stesso modo l’uomo naturale conosce la propria nudità. Adamo ed Eva, essendo ingenui ed ancora giovani nella menzogna, si nascosero, dicendo: “Ho avuto paura, perché ero nudo, e mi sono nascosto” (Ge. 3:10), i loro discendenti, più induriti nella rivolta, non sono altrettanto onesti. Sfilano apertamente in parata, affermando di essere vestiti proprio dei vestiti di Dio, con abiti regali, vestiti da re. Lo fanno per mezzo di una metafisica della correlatività tra Dio e l’uomo, come ha indicato Van Til nella sua analisi di Reinhold Niebuhr [5]. Cominciano con un preconcetto anti-metafisico, non possono tollerare né sono interessati in Dio in sé e per sé, nella Trinità ontologica. L’uomo e Dio sono egualmente coinvolti nella storia; Dio non ne è al di sopra e al di là come Creatore sovrano. Dare a Dio questo status sovrano riduce la fede cristiana a verità metafisica al posto di una relazione esistenziale nella quale l’individuo trova la vera particolarità e la vera universalità in sé stesso e diventa il proprio principio di interpretazione. L’uomo e Dio sono entrambi coinvolti nell’universo, che è la realtà ultima. Il peccato originale dell’uomo non è un’azione etica ma un fatto metafisico creato dall’antitesi e dalla tensione tempo-eternità, finito-infinito. Poiché la caduta non fu un fatto storico nel campo dell’etica ma un fatto metafisico concernente l’uomo, l’etica scompare in un ambigua metafisica, e la responsabilità personale svanisce per essere rimpiazzata da un coinvolto universo il cui sviluppo come contesto sociale è la realtà basilare. In questo modo la storia diviene l’interesse primario, piuttosto che Dio o la responsabilità umana.

Il ruolo dell’uomo in questo quadro è dichiarato con estrema chiarezza da Barth, riguardo al quale Van Til scrive:

Non c’è dubbio che Feisser sia formalmente corretto quando dice che secondo Barth dobbiamo cominciare con la rivelazione di Dio in Cristo. Per Barth Dio è identico alla sua rivelazione di sé stesso in Cristo. Il Dio e l’uomo di Barth divengono quello che sono a motivo della loro comune relazione con Cristo. Diventano ciò che sono in Cristo; sono ciò che sono a motivo di una comune Geschichte. L’uomo partecipa nella storia di Cristo. Egli esiste nella misura in cui partecipa in questa storia. E questa storia è la storia della redenzione. L’uomo esiste nella misura in cui partecipa nell’opera redentiva di Cristo per ogni e ciascun uomo. L’uomo esiste nella misura in cui è co-redentore dell’umanità insieme a Cristo [6].

L’accento non è Dio in sé stesso, ma Dio in relazione, e Dio è esaustivo nella sua relazione. E l’uomo partecipa sempre nella vita e nella storia di Dio, quanto nel suo essere. Di conseguenza, la nudità dell’uomo viene coperta con abiti rubati a Dio. Ma il Dio che l’uomo crea per così vestire sé stesso, non è il Dio della Scrittura, né un Dio che ha essere in sé stesso. Egli è solamente una relazione esistenziale. Come lo ha verbalizzato Brunner in The Philosophy of Religion: “Per la nostra conoscenza, l’Assoluto non è niente di più, benché anche niente di meno, che un necessario concetto limitativo” [7]. Dio non è un Dio che esiste da sé. Ma quando Dio cessa di essere Dio, l’uomo pure cessa di essere uomo. Senza un Dio che esiste da sé dal quale noi deriviamo significato e il principio d’interpretazione, l’uomo si trova nudo; i suoi vestiti presi in prestito sono inesistenti quanto il suo Dio della dialettica. La sua sola realtà diventa un universo di crudi fatti senza significato. L’unico filosofo che affrontò più o meno direttamente la nudità dell’uomo naturale fu Nietzsche, il quale evitò interamente il tentativo di prendere in prestito da Dio. Come risultato, affrontò il nichilismo. Ogni tentativo di dare significato divenne puramente la sua propria verità e non aveva significato al di fuori di sé stesso. Credendo Dio morto, egli distrusse a sua volta ogni significato che egli stesso cercò di stabilire, riconoscendo che niente Dio significa niente significato, no, neppure vita. La sua pazzia fu la conseguenza della sua filosofia, l’antitesi fu tra il significato cosmico e il significato completamente personale, tra Cristo, il principio della divina interpretazione, e Anticristo, la negazione del significato, tra Dionisio, l’affermazione di sé come significato contro ogni significato, e il Crocefisso, l’interprete e la Parola. La scelta è nitida; niente Dio, niente uomo; niente Dio, niente significato. L’uomo naturale è nudo in sé stesso, e i suoi vestiti presi in prestito e rubati non reggono indagine. Egli non ha nulla in e da sé stesso.

Egli insiste, comunque, di essere vestito, e che egli stesso è il principio d’interpretazione, che nulla può essere permesso “che non sia in principio penetrabile dalla mente umana … Questa idea dell’essenziale penetrabilità da parte della mente umana di qualsiasi realtà della quale si debba ammettere che abbia un significato determinante per le nostre vite implica che noi, come esseri umani, dobbiamo essere i nostri giudici ultimi”. Questa è la posizione del moderno idealismo il quale, come la neo-ortodossia, ha un Dio finito, il quale, come l’uomo, affronta i crudi fatti, l’universo sostanzialmente misterioso. L’uomo e Dio sono nella stessa situazione, entrambi allo stesso modo lottano per comprendere e trattare con la realtà. Dio è solamente “un principio di razionalità all’interno dell’universo”. Ma, “se i fatti che l’uomo affronta sono già interpretati da Dio l’uomo non ha bisogno né può affrontarli come crudi fatti. Se i fatti che l’uomo affronta sono realmente fatti interpretati-da-Dio, l’interpretazione dell’uomo dovrà essere, in ultima analisi, una re-interpretazione dell’interpretazione di Dio” [8]. La filosofia contemporanea segue la guida di Kant, il quale ascrisse “alla mente dell’uomo il potere ultimo di definire. Il cristianesimo, dall’altro lato, ascrive il potere ultimo di definire alla mente di Dio. Ciò che Eddington ascrive all’uomo: il potere di dialettificare esaustivamente il significato della realtà, il cristianesimo lo ascrive a Dio” [9].

Lo scopo di Van Til perciò è di portare a casa la questione basilare e di rendere sia i cristiani sia i non cristiani consapevoli dei loro rispettivi presupposti e di farli diventare epistemologicamente auto-consapevoli, di renderli consci di come conoscono e cosa conoscono. Gli uomini sono o osservanti del patto o trasgressori del patto, che interpretano la creazione nei termini del suo significato come stabilito dal Creatore, o che tentano una falsa interpretazione con ritagli e scampoli di materiale rubato. Nessuna valida epistemologia o teoria della conoscenza può cominciare da nessun altra parte che con la Trinità ontologica, la persona assoluta, l’universale concreto, la fonte di ogni significato e d’interpretazione. Per Van Til, l’apologetica ha un’importanza centrale e rinnovata nel fatto che i sistemi e le filosofie non cristiane e quelle cristiane non coerenti sono sfatate e corrette nei termini della loro nudità. In questo modo gli scritti di Van Til costituiscono un devastante e continuo attacco a tutti i sistemi contemporanei nei termini della sua filosofia basilare.

Per Van Til, filosofia e storia, universali e fatti sono correlati in maniera importante. Senza Dio non c’è fattualità (fatti reali) o significato. Prima che i fatti possano essere affrontati, deve esserci l’universale concreto, la Trinità ontologica: “in altre parole, solo i fatti teistici sono possibili. Noi decisamente manteniamo che, perché un qualsiasi fatto sia un fatto, deve essere un fatto teistico” [10]. L’approccio Vantiliano si oppone ad ambedue i metodi, quello deduttivo e e quello induttivo. Il metodo deduttivo comincia con il valore ultimo di certi assiomi, non con Dio. Il metodo induttivo assume che esista qualsiasi tipo di fatti, eccetto i fatti teistici. L’approccio di Van Til non è né induttivo né deduttivo, a priori o a posteriori, nel modo in cui questi termini sono storicamente compresi, perché “essi contemplano l’attività umana nell’universo ma non fanno i conti col significato di Dio al di sopra dell’universo” [11].

“È la ferma convinzione di ogni cristiano-teista epistemologicamente auto-consapevole che nessun essere umano può pronunciare una singola sillaba che sia per negare o per affermare, se non fosse per l’esistenza di Dio. Perciò l’argomento trascendentale cerca di scoprire che sorta di fondamento la casa della conoscenza umana debba avere, per poter essere quella che è” [12].

L’accusa portata contro il filosofo cristiano coerente è di essere colpevole di ragionare circolarmente, di ragionare da Dio a Dio, o dalla Scrittura alla Scrittura. Egli apparentemente commette suicidio intellettuale perché dice che crede nella Bibbia perché è vera, e crede qualcosa essere vero perché è nella Bibbia. Secondo Van Til:

Noi sosteniamo che sia vero che il ragionamento circolare è il solo ragionamento che sia possibile all’uomo finito. Il metodo di implicazione come tracciato sopra è il ragionamento circolare. O potremmo chiamarlo ragionamento a spirale. A meno che noi siamo più grandi dell’oggetto che stiamo investigando, in generale, noi dobbiamo girare e girare attorno ad una cosa per vedere sempre più delle sue dimensioni e per saperne di più. A meno che siamo più grandi di Dio noi non possiamo ragionare riguardo a lui in nessun altra maniera che per mezzo di un argomento trascendentale o circolare. Il rifiuto di ammettere la necessità del ragionamento circolare è in sé stesso prova di antiteismo. Ragionare in circolo vizioso è la sola alternativa al ragionare in circolo [13].

Ogni ragionamento è o da Dio ai fatti-dati-da-Dio e fatti da lui interpretati, o dall’uomo all’interpretazione che l’uomo fa dei crudi fatti. Qualsiasi ragionamento è circolare, ma l’uomo rifiuta di ammettere la circolarità dei propri ragionamenti perché assume che gli sia possibile un’infinita ed esaustiva visione delle cose, in altre parole, che egli può ragionare come Dio piuttosto che come uomo.

Le analisi della storia della filosofia da parte di Van Til sono significative nel loro sviluppo dei presupposti epistemologici delle varie scuole. Egli trova particolarmente importante la filosofia Greca poiché essa rappresenta lo sviluppo della mente anti-teista scevra da qualsiasi mescolanza con elementi cristiani. Il pensiero greco mancava di qualsiasi elemento veramente teista e, malgrado molti riferimenti a Dio, credeva basilarmente nel carattere autosufficiente ed ultimativo della natura. Dio e l’uomo, forma e contenuto, spirito e materia, erano essenzialmente aspetti della natura o identificabili con la natura. Era non solo possibile studiare il mondo oggettivo senza alcun riferimento a un Dio al di là dell’universo ma era anche possibile studiare Dio nello stesso modo. Basilarmente l’uomo definiva Dio, non Dio l’uomo. La mente umana era capace di conoscere qualsiasi e tutti i fatti finiti senza alcun riferimento a Dio. L’universo era ultimativo, e la mente in un senso ultimativa in quanto parte di quell’universo. La speculazione greca assumeva, primo, che “tutte le cose in fondo sono una”. Secondo, che il mondo del divenire è ultimativo, mentre per il pensiero cristiano “L’Essere viene prima del divenire e ne è indipendente”. Terzo, per il pensiero greco non solo il mutamento è preso per ultimativo, ma il molteplice generato dall’uno è sempre identico con l’uno [14]. Il pensiero greco, inoltre, assumeva la possibilità della neutralità, dove invece per Van Til l’esistenza di un Dio assoluto, dal quale ogni creatura ha un’esistenza derivata e al quale tutti sono responsabili, preclude ogni possibilità di neutralità. La mente greca è il risultato finale del percorso di Eva.

Prima che Eva abbia potuto dare ascolto al tentatore ella ha dovuto dare per concesso che il diavolo fosse forse una persona che sapeva della realtà altrettanto di Dio … Vale a dire, Eva fu obbligata a postulare un ultimativo pluralismo epistemologico prima di poter persino procedere a prendere in considerazione la proposizione fattale dal diavolo. O, espresso in altro modo, Eva fu costretta a postulare l’eguale valore ultimo della mente di Dio, di quella del diavolo, e della propria. E questo esclude sicuramente l’esclusivo valore ultimo di Dio. Questa perciò fu una negazione dell’assolutezza epistemologica di Dio. La neutralità fu dunque basata sulla negazione. O, potremmo pure dire che la neutralità è negazione. … In connessione con questo possiamo sottolineare en passant che quando Eva diede ascolto al tentatore, non solo dovette postulare un originale pluralismo epistemologico, ma dovette postulare pure un originale pluralismo metafisico. Dovette prendere per concesso che un essere creato nel tempo poteva ragionevolmente considerare sé stesso sufficientemente ultimativo nel suo essere, tale da legittimare un’azione che era contraria alla volontà di un essere eterno. Questo significa che ella non solo dovette fare uguali tempo ed eternità, ma dovette collocare il tempo sopra l’eternità. Era nel tempo che Satana le aveva detto che la questione doveva essere stabilita. Egli disse che era tutto da vedere se le minacce di Dio si sarebbero avverate. Doveva essere impiegato il metodo sperimentale. Solo il tempo avrebbe rivelato la verità. Ora, quest’attitudine implicava che Dio non fosse nulla di più che un dio finito. Se Egli fosse stato concepito come assoluto, sarebbe stata peggio che pazzia per una creatura del tempo testare l’interpretazione di Dio nella provetta del tempo. Se Egli fosse stato concepito come eterno un tale progetto era destinato al fallimento, perché in quel caso la storia non poteva essere altro che l’espressione della volontà di Dio [15].

L’epistemologia greca era il pensiero di Eva consolidato a diventare certezza. Nel pensiero greco, come in Platone, per esempio, tempo ed eternità sono identificati come molto vicini, benché al principio sembrino essere radicalmente opposti l’uno all’altro. Il tempo è “l’immagine in movimento dell’eternità”; il temporale e l’eterno sono allo stesso modo aspetti di una realtà generale. L’uomo è l’apparizione temporale dell’eterno. In quanto tale, l’umanità e non la seconda Persona della Trinità, Gesù Cristo, è il mediatore e l’interprete. Tempo ed eternità, inoltre, sono mischiati nell’umanità, mentre in Cristo le due nature sono senza mescolanza. Per il Platonismo la filosofia termina nel mistero finale, mentre nel cristianesimo il Dio assolutamente auto-consapevole non conosce mistero.

Il mistero finale di Platone va vicino al distruggere ogni conoscenza. Platone cercò senza successo di trovare con Eraclito una base per la conoscenza per il solo mondo sensibile. Cercò senza successo di cercare con Parmenide di trovare la conoscenza per il solo mondo Ideale. Perché per il pensiero greco la realtà era in fondo una, e l’intero universo era il valore ultimo, la differenziazione divenne virtualmente impossibile. L’Idea del Bene sembrò dare una fondamentale ed implicita unità alla conoscenza, ma poiché tutte le altre Idee, incluse l’Idea del fango, dell’aria, dello sporco, Idee del male, erano egualmente ultime e immutabili, questo poneva un problema. Un’unità fondamentale veniva assunta, ma una fondamentale diversità comparve. E se il male è altrettanto ultimo del bene, allora non c’è unità implicita che sia in controllo nel mondo delle Idee. In questo modo la vittoria per una qualsiasi Idea non era possibile, e la sola risposta poteva essere il compromesso di tutte le Idee e l’appianatura del significato di ciascuna. In più, non c’era neppure certezza di come queste idee potessero essere conosciute. Come poteva l’insieme di una qualsiasi Idea essere conosciuto in qualche senso obiettivo? Ma se l’Idea del Bene era in questo modo spezzettata non poteva più fornire l’unità che era indispensabile per la conoscenza. In altre parole la dottrina dell’Idea lasciava irrisolto il problema dell’uno e del molteplice e perciò quello della creazione. Se il mondo Ideale era esso stesso una pluralità ultima non poteva servire nel tentativo di spiegare la pluralità del mondo in cui viviamo [16].

La frammentaria comprensione delle Idee significò la fine della conoscenza anche in una regressione infinita: Né Platone riuscì a sfuggire a questo problema facendo soggettive le Idee, nulla di più che i nostri propri pensieri, nel cui caso la conoscenza sarebbe stata ridotta ad illusione. Inoltre, la realtà ci sarebbe allora sfuggita, visto che la maggior parte della realtà giace al di là della portata d’azione della conoscenza e della percezione dell’uomo. Il pensiero greco, come indica Van Til, fu incapace di fare i conti col fatto della conoscenza, e per mezzo della sua filosofia tese a dissolvere tutta la conoscenza dentro ad una realtà comune e priva di significato. Non poté rendere conto del mondo dell’esperienza ma cercò solamente di distruggerlo. L’epistemologia di Eva e dei suoi figli greci, cominciando con l’eguale valore ultimo di Dio, del diavolo e dell’uomo, finisce con l’eguale irrilevanza e assenza di significato di tutte le cose. Ogni approccio di Platone finì col fallire. Quando egli affrontò il problema della conoscenza con un metodo esclusivamente empirico, poi con uno esclusivamente metempirico, e infine con un’unione tra i due metodi, mancò di risolvere il dilemma. I tre assunti fondamentali della filosofia greca non si poterono superare. Primo, tutte le cose rimangono alla fine una. Secondo, il molteplice esce dall’uno, questo costituisce il fatto del mutamento. Terzo, malgrado questo divenire, tutte le cose rimangono in fondo una e la differenziazione diventa un problema. In questo modo, Dio, l’uomo ed il diavolo erano in senso ultimo lo stesso essere. La mente umana e quella divina differiscono quantitativamente piuttosto che sostanzialmente.

Con Agostino, i primi principi del pensiero greco furono chiaramente e definitivamente rigettati, secondo Van Til, il quale considera Agostino come “un filosofo cristiano-teista con certi elementi di Platonismo nel suo pensiero” ma basilarmente sano nella direzione del suo pensiero. Per Agostino, l’universo fisico esisteva solo come una creazione di Dio. Nella sua impostazione finale “Agostino non separò mai la propria auto-esistenza dall’esistenza di Dio”. Per lui l’universo non è mai il presupposto o la realtà basilare; è una creazione del Dio assoluto. Di conseguenza, Agostino non cercò mai di interpretare la realtà nei termini delle Idee ma nei termini della Trinità ontologica, la quale “Fornì le basi del principio di unità e diversità nella conoscenza umana”. Senza la Trinità la conoscenza è impossibile; qui c’è pluralità nell’unità e il solo mezzo per sfuggire al dilemma della conoscenza umana, il quale, su basi anti-teiste, diventa o una pluralità ultima senza unità e senza possibilità di conoscenza, o una unità ultima, senza differenziazione né significato. Nel Dio trino c’è la soluzione a questo problema. Ma poiché la conoscenza umana è sempre analogica piuttosto ché originale o creativa, deve sempre dipendere dalla conoscenza divina.

Qualsiasi cosa un essere umano conosca deve prima essere stato conosciuto a Dio. Qualsiasi cosa un essere umano conosca lo conosce solo se e perché egli conosce Dio. Per questa ragione pure, l’uomo non può mai conoscere cosa alcuna così bene e così esaustivamente quanto la conosce Dio. Il fatto che la conoscenza dell’uomo debba sempre rimanere analogica è applicabile alla sua conoscenza di Dio quanto alla sua conoscenza dell’universo. Dio nella sua essenza non sarà mai compreso dall’uomo. Se lo fosse non sarebbe più Dio. In quel caso non ci sarebbe soluzione per il problema della conoscenza [17].

Questo concetto o dottrina della Trinità sta al cuore dell’epistemologia finale di Agostino e del suo radicale disaccordo col pensiero greco. Platone, nell’assumere il valore ultimo dell’universo, non poteva evitare la pluralità del mondo dei sensi perché tempo ed eternità, Idee e sensi erano egualmente ultimi. In più, per Agostino, poiché la vera conoscenza è analogica e implica pensare i pensieri di Dio alla sua maniera, nessuno può possedere vera conoscenza intellettuale a meno che prima abbia fede e sia di conseguenza moralmente in sintonia con Dio. E poiché per Agostino il principio del male era finito e quello del bene infinito, l’unità del piano di Dio non poteva essere spezzata e le categorie dell’eternità sono determinative per il pensiero umano.

Nella filosofia Scolastica la forma Aristotelica del pensiero greco alla fine trionfò sulla filosofia di Agostino. Il Dio degli Scolastici rassomigliava da vicino l’indifferenziata realtà dei greci. Questa realtà, analizzata in sostanza, struttura e azione, fu chiamata Padre, Figlio e Spirito santo, ma aveva scarsa somiglianza con la Trinità ontologica di Agostino e della Scrittura. Il concetto greco della gradazione della realtà prevalse sempre più, e come risultato, per lo Scolasticismo, la salvezza significò avanzamento nella scala dell’essere. Il male (il peccato è metafisico, non primariamente etico, ed è basso nella scala dell’essere) è lontano, rimosso dal centro, fievole nella sua partecipazione alla realtà o all’essere. In questi termini l’espiazione implicava il fare il bene, un moralismo col quale uno partecipava al bene e saliva la scala dell’essere.

A motivo di questo elemento pagano nello Scolasticismo, gli universali furono un problema cospicuo. Gli Universali e non il Dio trino provvidero il fondamento per il pensiero Scolastico e il nominalismo fu scetticismo e disperazione tanto sicuramente quanto il soggettivismo delle Idee generò problemi per i greci. Non avevano risposta al problema dell’uno e dei molti. Ancora una volta non c’era via d’uscita dal dilemma tra un essere ultimo indifferenziato e privo di significato e un pluralismo ultimo privo di correlazioni. Lo Scolasticismo trattò questo problema tagliando alla base la distinzione agostiniana tra Dio e l’uomo con un concetto greco dell’essere. Lo Scolasticismo in questo modo cercò di stabilire la conoscenza su un fondamento nel quale non esisteva mistero per l’uomo mentre il mistero rimaneva per Dio, quando invece per il teista il mistero esiste per l’uomo ma non per Dio. E, poiché la storia è determinata da Dio, e il tempo dall’eternità, che il mistero esista per l’uomo non è distruttivo per la conoscenza e per il significato. Costituendo la propria mente quale criterio della verità, l’uomo distrugge le possibilità della verità. Come lo ha riassunto Van Til:

Tutte le antinomie del pensiero umano come la relazione del tempo all’eternità, dell’uno ai molti, dell’unità alla diversità sono implicate nel problema degli universali. Ci sono solo due possibili atteggiamenti che possono essere presi nei confronti di queste antinomie. Si può dire che è compito dell’attività umana risolvere queste antinomie e che a meno che non riesca ad avere successo nel farlo, non c’è per l’uomo valida conoscenza. O si può dire che, poiché l’uomo è un essere limitato (non infinito), è chiaramente non il compito dell’uomo cercare di risolvere queste antinomie e, che esse debbano essere risolte nel pensiero di Dio o dell’uomo sarebbe completamente privo di significato. Possiamo persino fare un passo avanti e dire che il pensiero anti-teista ha artificialmente creato queste antinomie. Se un uomo dicesse a se stesso che a meno che non scali con successo il palazzo del comune non potrà vedere come potrà percorrere la strada, noi cerchiamo di indicargli il fatto che i due conseguimenti non sono reciprocamente dipendenti l’uno dall’altro. Perciò potrebbe non essere necessario per l’uomo essere capace di risolvere queste antinomie di pensiero prima di poter avere una conoscenza adeguata per la propria vita. Noi sosteniamo dunque che gli Scolastici fecero gli stessi errori dei greci. Essi dettero per concesso che le parole debbano essere usate o semplicemente univocamente o semplicemente equivocamente. Essi presero per dato che ogni predicato utilizzato deve applicarsi a Dio nello stesso modo in cui si applica all’uomo o non ci può essere per niente significato in nessuna asserzione [18].

Quantunque gli Scolastici abbiano fatto riferimento a Dio in relazione agli universali, nondimeno la loro soluzione fu fondamentalmente pagana. Apparentemente, lo Scolasticismo diede importanza alla fede, nel fatto che le verità della rivelazione potevano essere comprese solo per fede, e il mondo naturale e le sue verità per mezzo della ragione dell’uomo naturale. Di fatto, questo equivaleva a una negazione della dottrina della creazione, perché al mondo veniva dato un significato inerente in sé stesso e separato da Dio e perciò scopribile dall’uomo separatamente da Dio e senza riferimento al fatto della creazione. In questo modo l’universo veniva liberato dal collegamento con Dio e alla fede fu data solo l’area di mistero al di là dell’universo. Ma la posizione cristiano-teista asserisce che separatamente da Dio nulla può essere veramente compreso perché tutte le cose sono create da Dio e derivano il loro significato dalla sua volontà sovrana e dal suo proposito creativo. Non sorprende, come ha indicato Van Til, che il pensiero cattolico romano sia stato debole su questo punto nella sua dottrina della creazione, e che uomini come F. J. Sheen, in “God and Intelligence” siano indifferenti alla questione dell’eternità del mondo e della materia 19. Il pensiero cristiano-teista insiste sulla “completa auto-consapevolezza di Dio e sul conseguente ragionamento analogico da parte dell’uomo” [20] e rende la Bibbia centrale nel suo pensiero. Il fatto del peccato e della ribellione dell’uomo contro Dio e dalla sua interpretazione della realtà sono basilari all’epistemologia cristiana tanto quanto il fatto della creazione. Lo Scolasticismo, nel credere che l’uomo possa avere vera conoscenza separatamente da Dio, abbandona la prospettiva cristiano-teista.

Il Luteranesimo mancò di operare una completa rottura con Roma in quanto Lutero attaccò, non frontalmente il paganesimo lì presente, ma il legalismo che ne era il frutto. Lutero ebbe la tendenza a limitare l’immagine di Dio nell’uomo agli attributi morali di conoscenza, giustizia e santità. Il concetto Scolastico dell’immagine era che fosse un donum superadditum ad un già esistente mondo sensibile. Lutero mancò di sottolineare a sufficienza l’intelletto e la volontà dell’uomo nel suo concetto di immagine. Questo più vasto concetto dell’immagine, come si trova in Calvino, significa che tutte le relazioni dell’uomo quale essere auto-consapevole gli sono mediate per mezzo dell’immagine di Dio e perciò gli sono presentate non solo nei termini del loro significato creazionale, cioè di Dio, ma appresi da lui nei termini di un’immagine creata che riflette la personalità di Dio. Limitare la portata dell’immagine di Dio nell’uomo significa introdurre impersonalismo nella misura in cui limitiamo quell’immagine. Come risultato, il precoce insegnamento di Lutero sulla predestinazione, apparentemente simile a quello di Calvino, differisce da esso per virtù del suo impersonalismo che lo conduce ai margini del determinismo filosofico e a una meccanica relazione tra Dio e l’uomo. Nella stessa maniera, i mezzi della grazia, la Parola e i sacramenti, tendono ad operare impersonalmente e fino ad un certo punto meccanicamente, mentre non ci può essere impersonalismo tra Dio e l’uomo in una epistemologia cristiano-teista. Questo portò al sinergismo di Melantone.

Il sinergismo dà per scontato che non ci possa essere una relazione veramente personale tra Dio e l’uomo a meno che l’assolutezza di Dio non venga negata nella proporzione in cui viene mantenuta la libertà dell’uomo. Il sinergismo assume che un atto dell’uomo non può essere veramente personale a meno che tale atto sia impersonale. Con ciò vogliamo dire che secondo il sinergismo, un atto personale dell’uomo non può essere allo stesso tempo ma in un senso differente, un atto personale di Dio. Il sinergismo assume che o l’uomo o Dio agiscono personalmente in un certo tempo e in un certo luogo, ma che non possono agire personalmente simultaneamente nello stesso punto di contatto. In altre parole, il sinergismo sostiene che l’attività personale da parte dell’uomo deve sempre avvenire a spese del carattere personale di ciò che lo circonda. Ora questa sembra essere una questione innocente per quanto concerne l’universo intorno a noi. Ma il pericolo è molto grande poiché la de-personalizzazione coinvolta non si limita all’universo materiale. Essa si estende logicamente a Dio. E anche se non contrasta subito e chiaramente l’attività personale di Dio, rimane il fatto che nel sinergismo c’è sempre una tendenza ad aggrapparsi a qualcuno dei rimasugli dell’idea greca di un universo, in qualche senso del termine, indipendente da Dio. Se non lo fa da nessun altra parte, il sinergista come minimo estrae la propria attività dall’attività personale di Dio in qualche punto del tempo. E proprio nella misura in cui lo fa ha de-personalizzato Dio … La portata del concetto di Lutero dell’immagine di Dio comincia ora ad apparire, il suo effetto epistemologico fu che la conoscenza dell’uomo è fatta ancora una volta dipendere in qualche misura da qualcosa d’altro che la personalità e l’auto-consapevolezza di Dio. Ci sono elementi di Razionalismo Platonico. Ancora una volta si profila all’orizzonte lo spettro di un mondo sensibile indipendente. I Luteranesimo non ha imparato ad interpretare tutta la realtà in categorie esclusivamente eterne. All’uomo viene concessa originalità a spese di Dio [21].

Secondo Van Til, l’evidenza di questa debolezza del Luteranesimo si nota ulteriormente nella concezione Luterana della Persona di Cristo. Le due nature di Cristo sono viste come mescolarsi interamente, ed entrambe le nature come ambedue presenti negli elementi della Cena del Signore. Secondo il Krauth “Dire che la natura di Cristo è personalmente presente senza la sua umanità è negare che la sua umanità sia parte della sua personalità e la dottrina dell’incarnazione va in frantumi” [22].

La formula ortodossa di Calcedonia è in questo modo virtualmente rigettata, quanto la sua dichiarazione diretta contro l’eresia di Eutiche di una singola natura, che asseriva che le due nature coesistevano “senza confusione, senza contrapposizione o cambiamento”. La posizione Luterana conduce all’asserzione che l’umano può diventare il divino, che eternità e tempo possono mescolarsi, che i due possono avere un’esistenza indipendente o co-eguale, che l’eternità può essere inserita o ridotta al tempo, e che l’eterno non è determinativo del temporale. Lo Scolasticismo vedeva la debolezza dell’uomo non nel suo peccato ma nella sua finitudine, non etica ma metafisica, e il Luteranesimo a volte tende verso questa stessa posizione. La prospettiva cristiano-teista è che l’unità e la diversità, l’uno e i molti, esistono come valori ultimi eguali nella Trinità ontologica. La prospettiva anti-teista lo nega e cerca il valore ultimo dell’uno e dei molti nell’universo. Quando lo Scolasticismo dibatté in questo modo la questione degli Universali, aveva virtualmente abbandonato la prospettiva teista e cercò le proprie risposte dentro la cornice dell’universo. Il Luteranesimo nel cercare in qualche modo il proprio principio d’unità in una mescolanza dell’eternità e il temporale, esposto in modo drammatico nel suo concetto dell’eucarestia, rifiuta di accettare il carattere determinativo dell’eternità insistendo che la libertà dell’uomo è messa in pericolo se il temporale non è fuso dentro all’eternità. Tale veduta tende a negare realtà a qualsiasi cosa nell’eternità che allo stesso tempo non esista nel tempo mentre la veduta coerentemente teista sostiene che la sola soluzione per il tempo si trova nell’eternità. Il risultato naturale di questa mescolanza è un insistenza nell’indipendenza dell’uomo, perché il tempo è determinativo di ambedue. Il temporale e l’eterno. Il Cristo incarnato diventa determinativo non solo della seconda Persona della divinità ma della Trinità intera, perché egli opera nel tempo e la Trinità nell’eternità. Dio perciò deve limitare se stesso per rispetto per le sue creature; egli non può contravvenire sulla loro indipendenza, perché il tempo, non l’eternità è l’arena della realtà ultima. Conseguentemente, il peccatore determina la propria salvezza, la grazia di Dio dà l’inizio o lo assiste a quello scopo, non lo può determinare senza distruggere il significato del tempo e la sua centralità. Concedere al peccatore questa capacità ha profonde implicazioni, come Van Til con discernimento indica:

Se si mantiene di potersi accostare a Cristo di propria iniziativa benché peccatori, si può dire altrettanto di potersi accostare anche al Padre. E se si può dire che si sa cosa significhi il fatto del peccato senza l’illuminazione dello Spirito santo, allora si può altrettanto dire che si possono conoscere altri fatti senza riferimento a Dio. Di fatto si può dire che si può conoscere ogni e qualsiasi fatto senza riferimento a Dio. Se un fatto può essere conosciuto senza riferimento a Dio non c’è buona ragione per non sostenere che tutti i fatti possano essere conosciuti senza riferimento a Dio. Una volta che l’elefante del naturalismo ha messo la proboscide dentro la porta, non sarà soddisfatto finché non sarà dentro completamente [23].

In questo modo il Luteranesimo vira da un determinismo impersonale e meccanico ad un’insistenza sull’indipendenza dell’uomo. Il Dio personale non è pienamente determinativo del tempo in nessuno dei due estremi, la determinazione risiede dentro all’universo o dentro all’uomo. Malgrado il suo grande inizio, il Luteranesimo non ha voluto seguire la fede della Riforma alle sue conclusioni filosofiche.

Nell’Arminianesimo, nell’analisi di Van Til, la mancanza di volontà di affrontare le piene implicazioni del peccato originale ha fatto fare al Protestantesimo un ulteriore passo sulla strada delle concessioni. Con Watson, il peccato è ascritto alla finitudine piuttosto che alla rivolta morale contro Dio. Il male e la finitudine vanno necessariamente mano nella mano in questa veduta e l’uomo ha bisogno di un salvatore non a motivo di una condizione morale ma perché è un essere umano. In altre parole l’implicazione è che l’uomo ha bisogno di essere liberato non tanto dal peccato quanto dalla creaturalità, dalla sua finitudine all’infinitudine. Inoltre, dal punto di vista Arminiano, la razionalità e la libertà dell’uomo riguarda ed include la sua capacità di cambiare la storia che Dio ha pianificato, o di fare cose che Dio non ha pianificato. In breve, la vita dell’uomo è al di fuori del piano di Dio, costituisce un fatto al di là del controllo di Dio, un fatto sul quale Dio può offrire assistenza ma che non può governare. Qui ci si trova sulla strada del moderno punto di vista filosofico che vede il continuum spazio-tempo come la matrice di tutta la realtà. Dio esiste, ed è dentro la cornice, ma sempre più come spettatore, ai bordi pronto a incoraggiare l’uomo a continuare ma incapace di determinare il corso e il risultato della gara. L’arminianesimo permette Dio e Cristo sulla scena solo per dare la partenza alla corsa, togliere certi ostacoli, e insignire un premio. La determinazione finale degli eventi appartiene all’uomo. L’Arminianesimo inoltre sostiene che, perché sia veramente etico, il volere dell’uomo deve essere responsabile in modo esclusivo per ciò che viene fatto. Ma la misura di auto-determinazione richiesta per l’uomo è un’impossibilità, ed un’impossibilità significativa poiché tale auto-determinazione è possibile solo a Dio. Poiché l’uomo è una creatura, che vive in un mondo creato, nel tempo governato da Dio, il suo agire non può improvvisamente violare il contesto col suo intero mondo. L’atto di una creatura, in un mondo creato e nel tempo creato, può essere solo un atto creato. È non solo un atto personale e uno responsabile, ma anche un atto creato. Perciò, nel suo concetto di atto etico, l’Arminianesimo reclama per l’uomo ciò ch’è possibile solo per Dio e con ciò deruba Dio per onorare l’uomo. Inoltre, Dio è ulteriormente derubato facendo sì che il male significhi virtualmente finitezza. Se il male è finitezza, e la finitudine è la condizione inerente dell’uomo, allora il dilemma greco ricompare, e cioè, che il male ha valore ultimo quanto il bene, che il male è parte della realtà ultima. La primazia viene data al reame temporale, che in questa veduta è il reame determinativo, e il male è fatto basilare al reame temporale perché la finitudine è inerente ad esso. Il male morale del pensiero cristiano è eliminato, l’uomo è troppo indipendente perché un concetto di peccato originale trasmesso sia credibile. La teologia in questo modo lascia il passo all’antropologia e Dio all’uomo, l’eternità al tempo.

Nel Calvinismo fu eliminato l’elemento greco dal pensiero cristiano-teista e fu formulata un’epistemologia coerente. La falsa indipendenza dell’uomo fu mostrata per quello che è, e fu pienamente riconosciuta la noetica influenza del peccato. La Scrittura fu posta al centro del pensiero, e fu enfatizzata l’opera dello Spirito santo nella restaurazione dell’uomo alla vera conoscenza di Dio. Il concetto di Calvino distinse tra il senso o la comprensione più stretta e quella più ampia dell’immagine. Nel senso più stretto, questa concerne la vera conoscenza, vera giustizia e vera santità che l’uomo possedeva quando fu creato da Dio. La caduta distrusse quest’immagine, mentre l’immagine nel senso più ampio, la razionalità e moralità dell’uomo, la sua vita intellettuale ed emotiva, rimangono ancora ad immagine di Dio, ma con limitazioni. L’uomo ritiene questi aspetti della sua natura, ma in un senso oscurato. Egli è razionale, ma la sua razionalità è spiritualmente cieca, emotivamente distorta, e incongruente nei termini degli scopi per cui fu creata, vale a dire, per funzionare analogicamente, per pensare i pensieri di Dio nella sua cornice di pensiero e di interpretare ed esperire la vita nei termini della volontà di Dio. L’uomo, mentre spiritualmente cieco, è ancora una persona, e perciò il sinergismo di Lutero non è una necessità per Calvino. Il sinergismo affrontava una situazione di aut-aut, o era Dio ad agire o era l’uomo ad agire; non ebbe il coraggio di affrontare la domanda ultima, o Dio è una persona o lo è l’uomo. Per Calvino l’uomo è (ha) una persona-lità perché Dio è una persona. Il peccatore, una persona creata, non può conoscere Dio correttamente a meno che gli sia data nuova luce dalla Scrittura, e il potere della vista gli sia ristabilito dallo Spirito santo operante nel suo cuore. La salvezza non è l’eternizzazione dell’uomo ma piuttosto la sua restaurazione alla sua perfezione originale e allo sviluppo di questa. L’incarnazione perciò non è resa necessaria dalla finitudine dell’uomo ma dal suo peccato. Poiché la finitudine dell’uomo non è il problema, la natura umana di Cristo non è necessaria nel sacramento nel senso Luterano. L’ordine eterno è quello determinativo, e Dio salva l’uomo nel tempo, non a causa del tempo. Dio salva l’uomo mediante l’incarnazione, per mezzo della comparsa nella storia della seconda Persona della Trinità con la sua incarnazione con la quale la natura umana fu unita senza mescolanza con la natura divina. L’incarnazione fu il mezzo della salvezza, ma la causa della salvezza si sarebbe potuta trovare solo nel pre-ordinato e predestinato eterno consiglio di Dio, solo nella Trinità ontologica. Enfatizzare l’incarnazione, e in modo particolare la natura umana di Cristo, in contrasto alla Trinità ontologica, equivale ad insistere nel mescolare il temporale con l’eterno e dislocare l’area della realtà via dall’eternità e da Dio. Van Til l’ha affermato in questo modo: “È dallo sviluppo di questi insegnamenti di Calvino che dobbiamo dipendere per un’epistemologia cristiana coerente: Calvino non mescolò le categorie del temporale e dell’eterno. Egli non soccombette alla tentazione di dare all’uomo una falsa indipendenza nell’opera della salvezza. Perciò di tutti i Riformatori solamente lui riuscì a disfarsi degli ultimi rimasugli di ragionamento Platonico [24].

Due aspetti significativi della teologia di Calvino mettono in evidenza la natura del suo pensiero cristiano-teista; questi sono la sua dottrina della teologia dell’alleanza e della Trinità. Nel Calvinismo non c’è subordinazionismo nella dottrina della Trinità. Le persone della Trinità sono rappresentativamente esaustive l’una dell’altra e rappresentano la soluzione, sul piano eterno, del principio dell’Uno e del Molteplice. Poiché le persone della Trinità hanno eguale valore ultimo, i principi di unità e diversità hanno eguale valore ultimo. Ecco come lo analizza Van Til:

Questa mutua esaustione delle persone della Trinità pone davanti alla scelta di interpretare la realtà esclusivamente con categorie temporali o esclusivamente con categorie eterne. La pretesa della dottrina della Trinità quando concepita in questo modo è che la realtà sia interpretata con categorie esclusivamente eterne in quanto la scaturigine della diversità risiede nella Trinità stessa e non può essere trovata in un mondo sensibile al di là di Dio. Perciò il problema dell’uno e dei molti, dell’universale e del particolare, dell’essere e del divenire, del ragionamento analitico e di quello sintetico, dell’a-priori e dell’a-posteriori deve essere risolto con un riferimento esclusivo alla Trinità. La sola alternativa a questo è assumersi la responsabilità di cercare di spiegare l’insieme della realtà in termini temporali. Così l’uomo è posto davanti ad una chiara alternativa e non c’è più la tentazione di inseguire una soluzione a questi problemi cercando mescolanze del temporale con l’eterno [25].

Su questo concetto della Trinità Calvino stabilì la sua teologia dell’Alleanza. Poiché le persone della Trinità sono rappresentativamente esaustive l’una dell’altra, ne consegue che anche il pensare umano è rappresentativo. Poiché Dio è il creatore e il determinatore di tutte le cose, e poiché tutte le persone, cose ed azioni sono fatti creati, veramente comprensibili solo nei termini della Trinità ontologica, ne consegue perciò che in tutti i fatti e in ogni fatto, l’uomo si trova faccia a faccia con Dio. Nulla esiste in un mondo neutrale o impersonale, tutte le cose esistono in un mondo creato nel quale ogni fatto è circondato dalla personalità di Dio.

Persino l’incontro di una personalità finita con un’altra personalità finita non sarebbe realmente personale se ci fosse un’atmosfera impersonale intorno ad una delle due o ad entrambe queste personalità. Ciò che rende il loro incontro completamente personale è il fatto che la personalità di ciascuno e di ambedue è circondata dalla personalità di Dio. Quindi tutte le relazioni personali tra persone finite deve essere mediato attraverso la centrale personalità di Dio. Ogni atto di una persona finita deve per la natura del caso essere rappresentativo perché la sola alternativa a questo è che sarebbe completamente impersonale. Possiamo persino dire che ogni atto dell’infinita personalità di Dio deve essere rappresentativo perché la sola alternativa a questo sarebbe che sarebbe impersonale. La Trinità esiste necessariamente nel modo in cui esiste. Abbiamo visto che è così perché il principio di unità e di diversità deve essere egualmente originale. Di conseguenza, quando giungiamo alla questione della natura della personalità finita non è un handicap per la personalità finita pensare di se stessa come in relazione in qualche modo alla personalità di Dio, ma che quella è la reale condizione della sua esistenza. Una personalità finita potrebbe funzionare solamente in un’atmosfera completamente personalistica, e tale atmosfera può essere fornita da lui solo se la sua esistenza dipende interamente dall’esaustiva personalità di Dio. È in questa maniera che Calvino concepisce la personalità dell’uomo. L’uomo non è un essere metafisicamente indipendente … Calvino è veramente sicuro che a meno che l’uomo stia operando all’interno del piano di Dio, l’uomo non starebbe operando affatto. Calvino non propone la sua dottrina della volontà dell’uomo scusandosi, ma la espone arditamente come la sola alternativa al completo impersonalismo. Calvino era profondamente consapevole del fatto che la teologia dell’alleanza fornisce la sola interpretazione della realtà completamente personalistica. Calvino era convinto che il falso arrovellarsi di Luteranesimo e Arminianesimo per un atto personale che avrebbe dovuto essere uni-personale nel senso di non essere circondato da un’atmosfera completamente personalistica, avrebbe portato, se svolto coerentemente, alla reiezione dell’intero schema di pensiero cristiano-teista [26].

Per Calvino, la conoscenza di se stesso e di Dio da parte dell’uomo perviene simultaneamente. Siccome ogni conoscenza è derivata dal pensare analogico sulla base della rivelazione di Dio nella Scrittura, e siccome ogni significato è derivato da Dio, la vera conoscenza di sé perviene solo mentre viene conosciuto Dio. Perciò le tradizionali prove dell’esistenza di Dio ebbero per Calvino un misero significato, perché esse assumevano che sulle basi di una precedente vera conoscenza, l’uomo avanzasse alla conoscenza finale dell’esistenza di Dio. Gli argomenti presumono la neutralità della mente, mentre Calvino era convinto dell’inimicizia della mente e dell’uomo nei confronti di Dio. Inoltre, le prove dell’esistenza di Dio assumevano in partenza l’indipendenza da Dio della mente dell’uomo e dei fatti naturali e con ciò cedeva all’opposizione anziché far avanzare la causa teista. La dottrina di Calvino rende giustizia ad ambedue la trascendenza e l’immanenza, dando priorità alla trascendenza. La natura e la volontà di Dio non vengono mai separate, la sua volontà è sempre espressiva della sua natura e, come risultato, le sue attività sono sempre completamente personali. La sua insistenza sull’aseità del Figlio è basilare alla sua dottrina della Trinità: non è tollerata nessuna subordinazione. Il significato di ciò è stato enfatizzato da Van Til:

Se c’è qualsiasi subordinazionismo questo implica che Dio è in quella misura non più la sola categoria interpretativa di tutta la realtà. La misura di subordinazionismo che qualsiasi sistema di teologia conserva nella sua dottrina della Trinità è indicativo della misura di paganesimo in tale teologia. L’indipendente mondo sensibile di Platone appare all’orizzonte nel momento in cui venga dato qualsiasi spazio al subordinazionismo [27].

Nell’epoca moderna, la questione dell’epistemologia è balzata in primo piano in filosofia. Apparentemente, questo è un aggiramento della metafisica e un’eliminazione di Dio dalla filosofia in quanto irrilevante. In realtà, il pieno significato della posizione cristiano-teista si vede nel modo più chiaro nello sforzo che la moderna filosofia fa per eliminare un Dio a-sé, indipendente e sovrano. Le questioni vengono tracciate più nettamente perciò tra la consapevolezza dell’uomo e la consapevolezza di Dio come cornice di riferimento.

Con Cartesio, il fondamento di ogni certezza è la consapevolezza umana in indipendenza non solo dall’universo intorno a lui ma specialmente da Dio. Per Calvino la personalità dell’uomo non può essere conosciuta né può esistere senza la personalità di Dio. Per Cartesio nulla può essere conosciuto senza l’auto-consapevolezza dell’uomo e la sua personalità in sé stessa. L’universo è un universo meccanicistico, e Dio meramente il creatore della macchina che ora funziona indipendentemente da lui. La macchina possiede le proprie leggi e i propri funzionamenti e non è necessario conoscere l’inventore per poter comprendere la macchina. Le vite dei fratelli Wright sono di grande interesse per qualsiasi studente di storia dell’aviazione, ma completamente irrilevanti per qualsiasi comprensione dei principi del volo o del pilotaggio di aerei oggi. I fratelli Wright crearono il primo aereo ad avere successo, ma non avevano creato i principi del volo che resero possibile quell’aereo; meramente li usarono. Il Dio di Cartesio è in ultima analisi nella stessa posizione. Più ancora di questo, l’uomo piuttosto che Dio è fatto essere la scaturigine ultima delle leggi universali e della loro interpretazione.

Come risultato del punto di partenza di Cartesio si svilupparono in filosofia due linee di pensiero: empirismo e razionalismo. L’empirismo sostiene che l’uomo individuale è lo standard della verità e sostiene il valore ultimo del mondo sensibile. Gli universali sono puramente soggettivi. Il culmine di tale pensiero fu lo scetticismo di Hume per il quale non era possibile alcuna conoscenza. Il razionalismo cercò d’interpretare la realtà nei termini di certi principi a priori. Questi principi a priori, comunque, non erano ancorati alla Trinità ontologica o all’eternità ma nella mente umana quale valore ultimo. Il razionalismo raggiunse il suo culmine con Spinoza e Leibniz. Per Spinoza, Dio, l’uomo e l’universo non sono altro che individuazioni ed aspetti della generale Idea di sostanza. Ma, come ha indicato Van Til, dire che tutto è Dio non è diverso da dire che niente è Dio. “Il ragionamento univoco non può che portare alla negazione. Il ragionamento univoco è basato sulla negazione. Il presupposto stesso del ragionamento univoco è che non c’è Dio assoluto. Se ci fosse un Dio assoluto sarebbe ipso facto fuori questione applicare a lui le stesse categorie di pensiero nel modo in cui sono applicate all’uomo” [28]. Leibniz ricercò l’individuazione sulle basi della completa descrizione e per riduzione a formule matematiche. La Rivelazione era in questo modo un’impossibilità. L’interprete è la mente dell’uomo, non la mente di Dio, e la mente dell’uomo può interamente comprendere tutta la realtà. L’eguale valore ultimo dell’uno e dei molti è ricercato senza successo nell’universo, e viene sposata la vecchia teoria della gradazione dell’essere. Nessuno di questi artifici rese Leibniz capace di sfuggire al dilemma di Spinoza o di salvare la religione come cercò di fare; avendo cominciato con l’universo come valore ultimo, non poteva fare niente di più che analizzarlo dentro ad ambedue Dio e l’uomo. “Come Leibniz cercò di essere completamente univoco, così Hume cercò d’essere completamente equivoco nel suo ragionare. Come nella filosofia di Leibniz Dio perse ogni individualità per poter diventare completamente conosciuto, così nella filosofia di Hume Dio mantenne la sua individualità ma rimase completamente sconosciuto” [29].

La soluzione di Kant alla questione è una fusione tra razionalismo ed empirismo. Ogni dato razionale ed empirico era scomparso e la consapevolezza umana affrontava una realtà indifferenziata dissolta dentro a sensazioni dissociate o affrontata come una massa misteriosa. La soluzione di Kant non era nuova: il suo radicalismo lo era. Kant cercò di salvare gli oggetti, Dio e il mondo, distruggendo il concetto tradizionale della relazione soggetto-oggetto e facendo l’uomo un macrocosmo contenente sia Dio che il mondo. Poiché l’uomo era l’interprete, la soggettività, quel vecchio fantasma che tormenta la filosofia, fu apparentemente bandito. Proprio come nel pensiero cristiano l’auto-consapevolezza del Dio sovrano non ha il problema della soggettività poiché comprende tutte le cose, avendole create e sostenendole, così con Kant la soggettività scompare solo se sia concesso all’uomo autonomo rimpiazzare la Trinità ontologica e che in lui l’essere si esaurisce in relazione e che quella relazione è esclusivamente interna. La filosofia già precedentemente era orientata a cadere nella soluzione di Kant, ma l’aveva considerato una sconfitta; Kant l’accettò come mezzo per la vittoria.

Per comprendere il lavoro di Kant, che concerneva il problema della conoscenza, è necessario vedere contro che cosa contendesse. Kant aveva interesse riguardo al collasso dell’epistemologia, riguardo alla riduzione della conoscenza ad illusione nella filosofia a lui contemporanea. Egli perciò stava attaccando e soppiantando sia l’empirismo che il razionalismo, l’empirismo per la sua accettazione della validità delle sensazioni come fonte di tutta la conoscenza, e il razionalismo per la sua accettazione delle idee innate come non necessitanti di materia al di fuori di sé stesse. L’infelice risultato di ambedue le scuole era uno sciagurato dualismo tra mente e materia, tra il conoscitore e la cruda fattualità: l’universo fisico, senza mezzi per colmare il divario o stabilire la validità di entrambe, sensazioni o ragione. L’interesse di Kant era l’epistemologia, non la metafisica, non ciò che è reale, ma ciò che noi possiamo conoscere. Kant tolse dalla considerazione il vecchio approccio come dogmatico, poiché meramente coinvolgeva un tentativo di inseguire le idee alla loro fonte, quale che fosse, idee innate o sensazioni, in entrambi i casi avendo in sé un ruolo essenzialmente negativo. Per Kant l’approccio vero è quello trascendentale o critico, lo studio della ragione pura in se stessa. Kant era teso a stabilire nella ragione ciò che aveva un’universalità al di là dell’esperienza umana mentre però era ad essa necessario che fosse attendibile e applicabile al mondo delle cose. Questo metodo è trascendentale perché è necessario a qualsiasi esperienza, non perché la trascenda. Il trascendentale è razionalmente precedente e per questa ragione indispensabile alla conoscenza, e il metodo critico è la ricerca di questa indispensabile condizione. Come risultato, al vecchio dualismo di mente e materia Kant sostituì un mondo triplice di stati soggettivi, fenomeni, e cose-in-sé-stesse. L’area soggettiva non è più il dominio della conoscenza, ma nemmeno lo è il reame delle cose-in-sé- stesse. Qui risiede la netta rottura col passato di Kant. Le cose-in-sé-stesse stanno al di là di noi stessi e quindi al di là di qualsiasi conoscenza, sconosciute e inconoscibili. Noi non possiamo dire cosa queste cose-in-sé- stesse siano, ma possiamo dire che esistono perché sono postulati necessari all’esperienza. Questi sono i Noumeni, basilari al processo di conoscenza e per questo postulati, ma al di là di questo la loro realtà non deve essere né affermata né negata; tale giudizio non è possibile. Il reame basilare è quello della conoscenza umana: “il mondo dei fenomeni” o esperienza. I fenomeni non sono cose-in-sé-stesse ma cose-per-noi, realtà come l’umanità la esperisce e come è interrelata. In questo modo il tentativo di correlare mente e materia, il conoscitore e la realtà, è lasciato completamente cadere; non è la correlazione a costituire la conoscenza ma l’esperienza, il potere sintetico della mente è l’unificante dell’esperienza umana. Le sensazioni danno solo materiale grezzo; la sintesi produce conoscenza. Non è il risultato delle esperienze combinante a costituire la conoscenza ma lo è l’atto di combinarle. In questo modo la conoscenza è costitutiva, creativa, interprete, e l’abilità comune a tutta l’umanità. Mentre un altro ordine d’esistenza potrebbe avere un diverso potere di sintesi e perciò vivere in un mondo radicalmente diverso dal nostro, la validità della conoscenza non è comunque con ciò negata, perché la realtà assoluta non è l’oggetto della conoscenza. Praticamente parlando, l’umanità può dire, secondo Kant: “il mondo è la mia rappresentazione”. Tale suggerimento accenna al pluralismo che William James avrebbe susseguentemente sviluppato. Al contempo Kant assunse pure, per spiegare questa capacità di sintesi e di pensiero creativo, un ego trascendentale che è il postulato di ogni conoscenza. È l’Ego universale, non un oggetto di conoscenza ma la fonte virtuale della conoscenza. L’Ego perciò è la realtà basilare e quindi non un oggetto di conoscenza. Neppure Dio e l’universo sono oggetto di conoscenza, ma per una ragione diversa, perché sono principi regolativi ed idee e concetti limitanti, fondamentali alla conoscenza in quanto tale, e la cui esistenza in sé stessi non è materia per la conoscenza e quindi non sono né da essere affermati né da essere negati. Il loro status è di appendici dell’ego trascendentale.

In questo modo, mentre Kant attaccò empirismo e razionalismo, il suo attacco basilare fu al concetto di Trinità ontologica, il Dio indipendente. Empirismo e Razionalismo erano collassati nel loro tentativo di recidere la conoscenza dalla dipendenza da Dio, e di qui l’ostilità per essi da parte di Kant, perché per il pensiero kantiano tale rescissione era sia basilare che necessaria. La realtà ultima viene dichiarata inconoscibile; noi siamo circondati da cruda fattualità di cui siamo gli interpreti creativi. Anziché cercare di stabilire la conoscenza mettendo mente e materia in relazione, Kant la trova nel mondo dell’esperienza, nel mondo dei fenomeni, nella ragione sintetica. Mentre la realtà potrebbe esistere o non esistere al di là dell’uomo, nel modo più certo esiste nell’uomo. La vera personalità, l’ego trascendentale è almeno parte (e possibilmente il tutto) di quella basilare realtà e perciò per natura ne è il valido interprete. La soluzione di Satana e di Eva diventa sempre più esplicita; l’uomo cerca di risolvere “il problema di Dio” col diventare Dio ai propri occhi. Secondo Van Til:

Se la posizione di Kant dovesse essere conservata, conoscenza e fede verrebbero ambedue distrutte. Conoscenza e fede non sono in contraddizione ma sono complementari. Kant non fece posto per la fede perché egli distrusse il Dio sul quale solo può essere posta la fede. È vero, certamente, che Kant parlò di un Dio come possibilmente esistente. Questo Dio, comunque, non poteva essere più che un Dio limitato poiché Egli almeno non aveva, o non aveva bisogno d’avere, conoscenza originale del mondo dei fenomeni. Kant pensò che l’uomo può farcela senza Dio in materia di conoscenza scientifica. È in questo modo che il principio di rappresentazione che abbiamo visto essere al cuore della teoria della conoscenza cristiano-teista viene messo da parte. Se l’uomo conosce certi fatti che Dio li conosca oppure no, come sarebbe se la posizione Kantiana fosse verace … qualsiasi sorta di Dio possa rimanere egli non è la suprema categoria interpretativa dell’esperienza umana [30].

Da qui in poi le nozioni di essere, causa e scopo devono sostenere ordinamenti che noi stessi abbiamo fatto, non devono mai sostenere qualsiasi cosa esista al di là della portata della nostra esperienza. Qualsiasi Dio voglia farsi conoscere, è ora più chiaro di quanto lo sia mai stato prima, dovrà farlo identificandosi esaustivamente con la propria rivelazione. E qualsiasi Dio che sia rivelato in questo modo, è ora più chiaro di quanto lo sia mai stato prima, dovrà essere completamente nascosto in pura possibilità. Né Platone, né Aristotele furono titolati a raggiungere l’Incondizionato dai metodi di ragionamento che impiegarono. L’Incondizionato non può essere messo in relazione all’uomo razionalmente. Non c’è dubbio che Kant avesse ragione in questa sua affermazione. Platone ed Aristotele, assunsero l’autonomia dell’uomo non meno di Kant. Su tale fondamento l’uomo può ragionare univocamente e raggiungere un Dio che è virtualmente un’estensione di sé stesso o può ragionare equivocamente e raggiungere un Dio che non ha con lui nessun contatto. Neppure aggiungere due zeri produce più di zero [31].

Quando Kant disse che l’uomo avrebbe potuto avere conoscenza separatamente da Dio, egli con ciò mantenne l’autosufficienza del mondo fenomenale e dell’ego. Eppure Kant non poté fare del mondo dei fenomeni un assoluto perché è il mondo del tempo che è esso stesso soggettivo. Non poté neppure dire che la ragione dell’uomo fosse valida per un altro ordinamento di cose o inclusiva di tutte le possibilità. Perciò, né l’universo, né la mente dell’uomo o il mondo dei fenomeni diede all’uomo alcun assoluto o alcun terreno di validità per la propria conoscenza. Perché gli argomenti di Kant contro il teismo-cristiano possano essere validi:

…devono effettivamente essere validi per tutte le esistenze possibili e perciò includere il futuro quanto il passato. In altre parole Kant ha bisogno di un assoluto per poter rendere fattivo il proprio argomento … Di conseguenza, è corretto dire che Kant dovette presupporre l’esistenza di Dio prima di poterla oppugnare. Ed è così che Kant ha ammazzato gli argomenti univoci a favore dell’esistenza di Dio con un argomento univoco contro tali argomenti ed ha allo stesso tempo ammazzato tutti i ragionamenti univoci dimostrando che tutti i ragionamenti univoci, il suo incluso, presuppongono il ragionamento analogico. Come Sansone morì quando uccise i suoi nemici, così Kant morì quando uccise i propri [32].

Le questioni, come indica Van Til, sono state ampiamente chiarite come risultato del lavoro di Kant. L’Anti-teismo insiste nell’interpretare la realtà in categorie esclusivamente temporali e nel rigettare qualsiasi distinzione tra il pensiero divino e quello umano. Il ragionare deve essere univoco. La Trinità ontologica è assolutamente rigettata come distruttiva di tutta la storia e della ragione. Il pensiero cristiano-teista appare più chiaramente come il nemico di entrambi il pragmatismo e l’idealismo, i quali ambedue sviluppano la creatività di pensiero di Kant nelle loro rispettive direzioni.

È chiaro dall’analisi di Van Til della storia delle filosofia che la differenza tra il teismo cristiano e l’anti-teismo non è confinata all’esistenza di Dio ma all’intero campo della conoscenza. Anziché condividere entrambi una comune conoscenza del mondo ed essere in disaccordo su se Dio esista o possa e debba essere conosciuto, abbiamo invece un radicale disaccordo sulla la natura di tutta la conoscenza.

L’argomento fondamentale del teismo-cristiano è semplicemente questo: che nulla in assoluto può essere conosciuto a meno che Dio possa essere e sia conosciuto. In qualunque modo poniamo la questione, in fondo la cosa importante da notare è questa differenza fondamentale tra il teismo e l’anti- teismo sulla questione dell’epistemologia. Non c’è un angolino in cielo o sulla terra sul quale non ci sia una disputa tra due opposte parti. Ed è il punto che può avere molto peso ora e e in futuro [33].

È questa insistenza costituisce l’originalità di Van Til ma anche l’offensività della sua posizione.

La lotta perciò è tale che copre l’intero campo della conoscenza. È precisamente questo che deve essere riconosciuto come la questione fondamentale. È il concetto cristiano-teista che nulla può essere veramente conosciuto a meno che Dio non possa essere e non sia conosciuto, e questa discrepanza e disaccordo tra le filosofie contendenti è evidente quando consideriamo la questione dell’oggetto della conoscenza.

L’oggetto della conoscenza è qualsiasi cosa che sia considerata un fatto, e qui, ancora la differenza è ovvia. Cos’è un fatto? I fatti possono appartenere al mondo fisico, al reame della psicologia, dell’economia, della matematica e così via. Ma che cos’è un fatto? Ciascuna filosofia differisce su ciò che costituisca un fatto. il concetto di mondo fisico e dei fatti inerenti ad esso varia radicalmente con Agostino, Spinoza, Hume e Kant. I “fatti” variano da filosofia a filosofia; essi sono precisamente il punto di differenza, per il motivo che ciascuna comincia con certi presupporti basilari.

Ciò che i nostri oppositori intendono con l’esistenza di qualsiasi “fatto” è esistenza separatamente da Dio. Che significhino proprio questo è incontestabile per la ragione che tale esistenza separatamente da Dio è ipso facto postulata per tutti i “fatti” ad eccezione del “fatto” di Dio sempre che il “fatto” di Dio sia chiamato in questione. Perché uno possa chiamare in questione l’esistenza di Dio egli deve come minimo esistere e possibilmente esistere separatamente da Dio. Traspare dunque che in questione ci sia la stessa connotazione del termine “esistenza”. Gli anti-teisti mantengono che il termine “esistenza” possa essere applicato come un predicato a qualsiasi “fatto” anche se il “fatto” dell’esistenza di Dio non è un fatto. Dall’altra parte il teista mantiene che il termine “esistenza” non può essere applicato intelligentemente ad alcun “fatto” a meno che il “fatto” dell’esistenza di Dio non sia un fatto. In altre parole l’anti-teista assume che si possa cominciare col ragionare univocamente mentre il teista mantiene che non possiamo cominciare diversamente dal ragionare analogicamente [34].

La denotazione e la connotazione di qualsiasi fatto non possono essere separate. Ogni fatto è ciò che significa in virtù della sua creazione e dalla sua collocazione nella totale provvidenza di Dio e non si può veramente conoscere per nessun altra causa.

Van Til evidenzia che ci sono coloro i quali insistono che sia intellegibile pensare della non-esistenza di Dio ma che allo stesso tempo insistono che non si possa intelligentemente pensare della non-esistenza dell’uomo e del suo mondo. Ciascuno comincia con una realtà, un fatto basilare, che insiste debba essere dato per concesso. Van Til vede quattro posizioni come possibili con rispetto alla questione dell’esistenza e della non-esistenza. Primo, possiamo credere ragionevole dubitare l’esistenza di Dio ma non intelligibile dubitare l’esistenza dell’universo. Secondo, possiamo dubitare l’esistenza di ambedue, Dio e l’universo come il solo passo intelligibile. Terzo, possiamo insistere che non sia intelligibile dubitare né l’esistenza di Dio né quella dell’universo. Quarto, possiamo sostenere sia possibile pensare intelligibilmente della non-esistenza dell’universo ma impossibile dubitare l’esistenza di Dio. Di queste quattro posizioni, solo la quarta è coerente col teismo, non perché il cristianesimo neghi l’esistenza dell’universo, ma perché non può considerare l’universo la realtà ultima e perciò la ragione per tutto il pensiero. Senza Dio nulla può esistere, e perciò Dio solamente è il punto di partenza di ogni pensare intelligibile.

Il concetto di una persona di ciò che costituisca un fatto è perciò governata dal suo punto di partenza. È qui necessario distinguere con Van Til tra un punto di partenza immediato ed uno ultimo. Egli lo spiega con l’analogia della tavola da surf. Un surfista, poggiato sulla punta della tavola e che intorno a sé vede niente più che acqua può dichiarare che la punta della tavola è il suo punto di partenza in un senso immediato. Ma in un senso ultimo il fondamento dell’intera tavola è il suo punto di partenza ed egli non può eliminare dal suo riconoscimento della propria situazione la punta e l’acqua. Come insiste van Til, la questione in ballo in filosofia è “non quella del punto di partenza immediato. Tutti concordano che l’immediato punto di partenza deve essere quello della nostra esperienza quotidiana e dei “fatti” che sono più sottomano. Ma l’esatta accusa che facciamo contro così tanti Idealisti quanto contro i Pragmatisti è che essi danno per scontati certi “fatti” temporali non solo come temporali ma come punti di partenza ultimi [35]. Similmente, la Bibbia non può essere usata come un testo di biologia o rimpiazzare uno studio di paleontologia fatto in africa. “La Bibbia non reclama di offrire una teoria rivale che può essere o può non essere vera. Reclama di avere la verità riguardo a tutti i fatti” [36]. Non si dichiara che si debba andare alla Bibbia anziché in Africa; ciò che si dichiara è che senza il Dio della Bibbia e la rivelazione quivi data nessun fatto può essere veramente conosciuto, né perfino la sua esistenza può essere postulata. Gli oppositori del teismo-cristiano insistono nel dare per scontato proprio ciò che specificamente hanno bisogno di provare e non possono farlo: l’indipendenza e il valore ultimo della mente umana e della bruta fattualità. Inoltre, tutti i fatti debbono a Dio non solo la loro esistenza ma anche la loro denotazione e connotazione, ed ogni fatto esiste e deve essere conosciuto, se è veramente conosciuto, come un fatto cristiano-teista. Senza la luce delle Scritture, nessun fatto può essere veramente conosciuto. Non solo i fatti, ma anche la natura e la storia esistono nei termini di categorie eterne.

Pensatori cristiani come Agostino e specialmente Calvino sono stati disposti a prendere l’io umano come immediato punto di partenza mentre la filosofia anti-teista considera l’io come il punto di partenza ultimo. Quest’ultima enfasi è diventata sempre più consistentemente pronunciata. Inoltre, la filosofia moderna è meno interessata dell’oggetto della conoscenza che del soggetto della conoscenza, e l’io è assunto essere il soggetto ultimo della conoscenza. Ma la sfida vera e propria della filosofia cristiano-teista

…è che Dio è il soggetto ultimo della conoscenza. L’uomo è e può essere un soggetto della conoscenza in senso derivato perché Dio è il soggetto della conoscenza in senso assoluto. Espressa teologicamente noi diciamo che la conoscenza dell’uomo è vera perché l’uomo è stato creato ad immagine di Dio. E anche per questa ragione non ci può essere disputa riguardo alla relativa priorità dell’intelletto e delle percezioni dell’uomo. Poiché la personalità di Dio è una completa unità così anche la personalità dell’uomo è un’unità [37].

L’accusa contro il pensiero anti-teista è che è soggettivo perché erge il pensiero o la consapevolezza umana a criterio ultimo della verità. Poiché il suo concetto di verità è derivato dalla mente o dall’esperienza, la filosofia moderna conduce inevitabilmente ad un completo relativismo in epistemologia e in metafisica. A volte abbandona apertamente la ricerca per la verità e la certezza, ma non ammette candidamente mai che l’alternativa logica è il relativismo totale. Nella teologia liberale, lo stesso relativismo è latente o esplicito, e ciò che passa per teologia è poco più che antropologia, e l’esperienza è enfatizzata in contrapposizione alla verità o come essenza della verità. Le scaturigini della teologia liberale e neo-ortodossa si trovano in tre principali scuole di filosofia, primo nel pragmatismo il quale assume la validità soggettiva di ogni religione a prescindere dal suo oggetto. Poi ci sono i naturalisti i quali enfatizzano la logica piuttosto che il tempo e riducono quel Dio che possa essere tollerato ad un universale logico che tiene uniti insieme particolari egualmente ultimi. Infine ci sono gli idealisti per i quali Dio è l’assoluto, ma un assoluto significativamente vuoto in quanto la differenza tra Dio e l’uomo, tempo ed eternità, è cancellata con l’abbracciare tutto in una comune realtà ultima. In questo modo tutto è egualmente ultimo e Dio è una parte dell’universo anziché il suo creatore e sostenitore. Dio e l’uomo sono egualmente aspetti della realtà, perciò, Dio al massimo può avere la funzione di socio o di fratello maggiore nell’assistere l’uomo nell’interpretazione di una realtà che non ha egli stesso creato e che egli stesso deve lottare per comprendere. Dio diventa più una necessità logica che il creatore. L’uomo è altrettanto necessario a Dio di quanto Dio lo sia all’uomo (come testimonia la filosofia di Pringle Pattison). Con una costante insistenza sulla correlatività di tempo ed eternità, e di Dio e l’uomo, l’idealismo cerca di guadagnare per l’uomo e il tempo una posizione in termini di realtà ultima. Tutti vengono allo stesso modo abbracciati in una realtà comune ed ultima [38].

Non solo c’è una differenza radicale tra il pensiero cristiano-teista e la filosofia anti-teista con riguardo al punto di partenza della conoscenza, ma anche, come abbiamo visto, riguardo alla questione di se l’esistenza dell’oggetto della conoscenza possa essere dato per ammesso separatamente da Dio. Inoltre, tenendo conto della natura peccaminosa dell’uomo, l’interpretazione nei termini di Dio deve provenire attraverso la Scrittura. L’errore è il risultato del peccato, benché non tutti gli errori nella logica siano dovuti al peccato direttamente. Nondimeno, la mente dell’uomo è in ribellione contro Dio ed in inimicizia con lui e stabilisce sé stessa come proprio Dio e come proprio principio interpretativo. L’uomo cerca di pensare creativamente anziché pensare i pensieri di Dio nella sua cornice di pensiero. Il male è il risultato della ribellione dell’uomo contro Dio e non è originale o di valore ultimo, e poiché non lo è, il male non può essere un predicato di Dio o considerato di valore ultimo. Prima della caduta, il mondo e l’uomo erano buoni, male ed errore furono introdotti dalla ribellione dell’uomo. La caduta dell’uomo fu il suo tentativo di diventare l’interprete originale piuttosto che il re-interprete, di essere l’ultima piuttosto che l’immediata fonte di conoscenza. Prima della Caduta, afferma Van Til, l’uomo agiva da re- interprete, riconoscendo che poiché derivava il proprio essere completamente e totalmente da un Dio assoluto, ogni suo atto era perciò basato su un più originale e più fondamentale atto di Dio. L’uomo deve ora essere ristabilito ad una posizione simile, abbandonando il suo ruolo di interprete originale in favore della re-interpretazione, riconoscendo inoltre che la sua consapevolezza è solamente l’immediato punto di partenza per la conoscenza. Ma l’uomo il peccatore virtualmente insiste che la propria presente condizione caduta e anormale è quella normale e prova risentimento ad ogni suggerimento che la sua mentalità sia abnorme. Come Van Til ha indicato, nel paese dei ciechi, l’uomo con la vista era chiamato un pazzo visionario. Per il cristiano, comunque, la risposta è un Dio assoluto, una Bibbia assoluta, e rigenerazione assoluta. L’atto e pensiero creativo devono appartenere a Dio solo. Nulla che alluda alla correlatività di Dio e uomo, di eternità e tempo, può essere permesso. Per mezzo di tale correlatività, l’idealismo cerca di riabilitare la storia, ma nel fare che la realtà storica esista in indipendenza da Dio, distrugge la sovranità di Dio, e il significato della storia. Il male diviene di valore ultimo quanto il bene e la storia diventa un conflitto irreconciliabile e senza significato. La storia ha significato e scopo solo quando completamente, e cioè in modo ultimo, determinata dal Dio personale e sovrano. Allora l’uomo si muove in un mondo personale e intenzionale (propositivo), e il tempo possiede direzione e significato. Al posto di un universo impersonale nel quale bene e male sono egualmente di valore ultimo, egli si muove in un universo completamente personale nel quale le sue attività possiedono significato, il bene è infine trionfante ed ogni fatto ha scopo nei termini di una volontà comune e ultima. La re-interpretazione dell’uomo è possibile a motivo della precedente ed assoluta interpretazione di Dio. La storia ha significato precisamente perché è assolutamente predestinata da Dio. L’attività dell’uomo non è determinata meccanicamente perché egli vive in un ambiente completamente personale e si muove in una storia personale che ha uno scopo. Solo quando l’alienazione etica dell’uomo da Dio è rimossa, l’uomo può agire in modo derivato e costruttivo nel campo dell’originale attività costruttiva di Dio e ristabilire la relazione metafisica originale. Per Van Til alla base non c’è una separazione metafisica tra l’uomo e Dio ma piuttosto un’alienazione etica, un divorzio con tutta l’amarezza e l’alienazione che accompagna una tale situazione. Qualsiasi altro concetto di Dio fa di Dio nulla di più che un fratello maggiore, che presenta l’esempio per l’uomo e assiste gli uomini nel loro compito comune di cercare di dare senso a un universo senza senso che è la realtà ultima. Per il cristiano l’universo fisico è spiegabile solo nei termini dello spirituale perché ambedue hanno la loro comune origine ed unità in Dio.

Da ciò consegue che lo spirituale può essere veramente benché simbolicamente espresso dalle immagini prese in prestito dal fisico. È questo concetto che sta alla base dell’uso di Gesù dell’insegnamento per mezzo di parabole. La vite e i tralci danno un’espressione metaforica ma verace dell’unione spirituale tra Gesù e i suoi perché il fisico è creato allo scopo di dare espressione allo spirituale. Troviamo dunque che si debba precedentemente pre-supporre il concetto anti-teista che la natura sia indipendente da Dio prima che si possa addurre l’argomento che il linguaggio simbolico è necessariamente ad un’estensione non verace [39].

Non solo il linguaggio è derubato di contenuto dalla posizione anti-teista, ma la salvezza dell’uomo è resa impossibile. Con qualsiasi concetto di uomo autonomo, la salvezza scompare. L’uomo non è soggetto alla rappresentazione federale e pattizia in Cristo, e perciò l’espiazione non può avere significato per l’uomo, che diviene isolato nella sua autonomia e nel mondo di bruta fattualità. Allo stesso tempo, quest’autonomia dell’uomo distrugge la sua individualità e personalità in quanto egli diventa perso in un impersonale mondo di bruta fattualità. Essendo la realtà in modo ultimo una massa indifferenziata ed egualmente bene e male, l’umanità pure è in modo ultimo una massa indifferenziata, e l’uomo di massa diventa un problema.

Nel considerare la relazione tra soggetto e soggetto, la questione usuale è se, sotto questa visione cristiana, sia di qualche uso per il cristiano-teista ragionare con i suoi oppositori o ricercare la loro comprensione della visione cristiana delle cose. Considerato che la rigenerazione è obbligatoria, che valore ha la filosofia? Per rispondere dobbiamo di nuovo considerare il problema della conoscenza. Tutti gli oggetti della conoscenza nel tempo e nello spazio, essendo creati da Dio, per essere conosciuti veramente devono esserlo nella loro relazione a Dio. Come asserisce Van Til, gli universali della conoscenza quanto gli oggetti della conoscenza hanno la loro scaturigine in Dio e le loro relazioni sono nei termini del piano di Dio. L’anti-teista, però, non solo comincia con i fatti o oggetti della conoscenza come di valore ultimo, ma considera di valore ultimo anche gli universali, e nessuno dei due ha nulla a che vedere con Dio. Nessun riferimento al di là dei fatti e degli universali è necessario. Se Dio esiste, perciò, egli può essere solo un altro fatto, un altro oggetto della conoscenza anziché essere l’uno supremo oggetto della conoscenza, il fatto e l’universale ultimo. Con tale discrepanza tra le due visioni non sorprende che ciascuna consideri cieca l’altra.

Ma, Van Til dichiara, la relazione tra soggetto e soggetto non è un problema se i soggetti sono cristiani, o se sono non rigenerati. Lo scontro avviene tra i due opposti gruppi. Per rispondere a questo, Van Til sente che si debba prima notare che lo stato normale dell’uomo è che la sua integrale consapevolezza, intelletto, volontà o emozione, era stata creata per essere completamente re-interpretativa. Secondo, la rivelazione di Dio, manifestata ovunque in un universo integralmente personale, perviene alla integrale consapevolezza dell’uomo. Poiché Dio è assoluto, l’uomo gli è sempre accessibile e non può mai sfuggire la sua testimonianza e verità. L’alienazione dell’uomo da Dio è etica; non può alterare la sua dipendenza metafisica da Dio poiché l’uomo è in questo modo integralmente accessibile a Dio e risiede ed è parte di un universo completamente personale, ne consegue che tutta la creazione è strumentale nei termini del piano divino, e la nostra filosofia pure è strumentale.

Il cristiano può efficacemente attaccare qualsiasi terreno su cui si erga l’anti- teista perché l’anti-teista è costantemente su terreno alieno ed ostile. Quando innalza a giudice la propria ragione, e si appella alla legge di contraddizione contraddice sé stesso in quanto il suo universo è uno di caso e di possibilità astratta, e la ragione e la legge di contraddizione sono con ciò rese invalide. Quando un pensatore cristiano come Cornell dichiara: “Fate avanzare la vostra rivelazione! Facciano pace con la legge di contraddizione e coi fatti della storia, e meriteranno il consenso dell’uomo razionale” [40], egli ha collocato l’uomo razionale, rigenerato e non rigenerato, come criterio e giudice su Dio e la sua verità. Un criterio al di sopra del cristianesimo stesso che deriva dall’uomo stabilisce il valore ultimo dell’uomo e la sua supremazia in quanto mente razionale.

In qualsiasi uomo altro da quello fondato su basi cristiane, usare questa ragione è un prodotto del Caso e i fatti che presuppone di mettere in ordine per mezzo della “legge di contraddizione” pure sono prodotti del Caso. Perché mai una “legge di contraddizione” che si basa sul Caso dovrebbe essere meglio di una porta girevole che trasporta il niente da nessun posto dentro al nulla? Solo sulla pre-supposizione che il Dio indipendente della Scrittura controlli ogni cosa l’uomo può conoscere sé stesso o qualsiasi altra cosa. Ma su questa presupposizione l’insieme della sua esperienza ha un senso compiuto. Perciò una filosofia veramente cristiana è la sola filosofia possibile. Le altre filosofie sono o dovrebbero essere chiamate tali solo per cortesia. Quelli che crocifiggono la ragione mentre l’adorano, quelli che ammazzano i fatti mentre li raccolgono, realmente non dovrebbero essere chiamati filosofi. Insistendo nella “ragione” quale test della verità hanno completamente divorziato l’operazione della “ragione” dal disordine del fatto. Col loro principio non possono trovare coerenza in cosa alcuna. Rimane la paura, nient’altro che paura nelle tenebre. L’ultima novella di Aldous Huxley “La scimmia e l’Essenza” descrive in termini forti l’inevitabile risultato di una filosofia che non è una filosofia nitidamente cristiana [41].

Per il teista, il possibile è ciò che è secondo la volontà e la natura del Dio assolutamente auto-consapevole, e Dio solo è l’origine del possibile, mentre per l’anti-teista il possibile è l’origine di Dio. Perciò il loro concetto di possibilità differisce. La divisione tra i due non è sempre chiaramente discernibile a causa di consensi incidentali. Poiché i non rigenerati, per virtù della grazia comune, hanno una sorta di riconoscimento di “ciò che dovrebbe essere benché non sia”, essi giungono ad un consenso incidentale col cristiano. Van Til dimostra che il consenso è incidentale perché la loro consapevolezza dà altre basi per il “fatto” in esame. Come ha indicato Van Til, il pragmatista è d’accordo col cristiano nell’opporsi all’omicidio, ma per ragioni pragmatiche ed umanistiche, mentre per il cristiano la vera ragione è un concetto della giustizia che ha il suo fondamento nella natura del Dio sovrano. Diventa anche improvvisamente evidente che essi differiscono nel loro concetto di giustizia, e che il loro consenso è incidentale, formale ed astratto. Ancor di più, persino questo consenso incidentale esiste solo con riferimento a cose prossime (immediate) piuttosto che a cose di valore ultimo. Perciò è imperativo riconoscere che esistono due tipi di consapevolezza, e che non possiamo parlare di ragione in astratto. La ragione coerentemente rigenerata e quella coerentemente non rigenerata hanno presupposizioni fondamentali riguardo alla natura della ragione e della realtà che non possono essere riconciliate. Comunque, Van Til richiama l’attenzione ad una consapevolezza umana fondamentale e generale che esisteva prima della caduta. La consapevolezza di Adamo era re- interpretativa e la sua conoscenza era valida. Benché la portata della sua conoscenza non potesse essere comprensiva quanto quella di Dio, la sua validità non si posava sulla portata perché egli ragionava “in un atmosfera di rivelazione. La sua mente stessa con le sue leggi era una rivelazione di Dio. Di conseguenza, egli ragionava analogicamente e non univocamente. Egli presupponeva sempre Dio in ogni sua operazione intellettiva” [42]. Benché l’uomo sia ora caduto, e il non-rigenerato sia eticamente alienato da Dio, non può mai diventare Dio come cerca d’essere. Egli rimane metafisicamente dipendente da Dio. Come risultato, la sua consapevolezza, anche in ribellione non può scollegarsi da Dio ma mantiene un formale potere di ricettività. Inoltre, l’alienazione etica non è ancora completa in misura. Come risultato, il cristiano può parlare al non rigenerato. Per Van Til, metafisicamente esiste solo un tipo di consapevolezza, una in dipendenza da Dio; eticamente esistono due tipi di consapevolezza. Sulle basi dell’una fondamentale consapevolezza metafisica, la relazione soggetto con soggetto è possibile ed effettiva. Al non rigenerato deve essere detto che il cristiano- teista possiede il vero concetto della legge di contraddizione, e cioè:

È auto-contraddittorio solo ciò che è contraddittorio al concetto di assoluta auto-consapevolezza di Dio. Se ci fosse tale contraddizione nella Trinità ci sarebbe anche nella questione della relazione di Dio col mondo. Ma, poiché la Trinità è la concezione per la quale l’unità di valore ultimo e la diversità di valore ultimo sono portate in eguale ultimità, è questa concezione della Trinità che rende l’auto-contraddizione impossibile per Dio e perciò anche impossibile per l’uomo. Completa auto-contraddizione è possibile solo all’inferno e l’inferno è esso stesso un’auto-contraddizione perché si alimenta eternamente della negazione di un’assoluta affermazione. Di conseguenza noi dobbiamo sostenere che la posizione dei nostri oppositori è in realtà stata ridotta a contraddizione quando è dimostrata essere opposta senza speranza al concetto cristiano-teista di Dio. Ma per poter portare questo argomento quanto più vicino possibile alla consapevolezza del non-rigenerato dobbiamo cercare di mostrare che il non-teista è auto- contraddittorio rispetto ai propri assunti, come pure rispetto alle assunzioni della verità del teismo e che egli non può essere auto-contraddittorio neppure rispetto ad una base non-teista considerato che se si vedesse che è auto-contraddittorio non sarebbe più auto contraddittorio.

Ora quando questo metodo di ragionare a partire dall’impossibilità del contrario viene messo in atto, non c’è veramente nient’altro da fare. Ce ne rendiamo conto se richiamiamo di nuovo alla mente che una volta che si sia visto che il concetto di Dio è necessario per l’intelligibile interpretazione di qualunque fatto, si vedrà che è necessario per tutti i fatti. Se uno realmente vedesse che è necessario avere Dio per poter comprendere l’erba che cresce fuori della sua finestra costui certamente giungerebbe alla conoscenza salvifica di Cristo, e alla conoscenza dell’assoluta autorità della Bibbia. … È bene enfatizzare questo fatto perché ci sono Fondamentalisti che tendono a gettare a mare tutte le investigazioni epistemologiche e metafisiche e dicono che limiteranno la loro attività alla predicazione di Cristo. Ma vediamo che non stanno realmente predicando Cristo a meno che lo predichino per ciò che egli vuole essere, vale a dire, il Cristo di significato cosmico. Costoro non possono neppure ritenere a lungo il significato soteriologico di Cristo, se abbandonano il suo significato cosmologico. Se si concede che certi fatti possano essere veramente conosciuti separatamente da Dio non si può dire dove sarà il limite [43].

Ogni affermazione dell’anti-teista deve essere sfidata e rivelata per quello che è. L’agnosticismo del pensiero moderno reclama un’umiltà scientifica e un riserbo davanti a ciò che non conosce. Ma proprio nella sua affermazione di essere agnostico fa una tremenda dichiarazione nei confronti della realtà ultima in quanto esclude Dio quale fattore ultimo e lo limita alla possibilità di essere un fatto tra i fatti. Ogni modo di ragionare dell’uomo si posa su un concetto di realtà ultima, e l’agnosticismo esclude nel modo più assoluto Dio quale realtà ultima e gli concede solo la possibilità della correlatività o della co-esistenza. Dire che la scienza non fa alcun pronunciamento riguardo la Trinità ontologica è ascrivere alla scienza un tremendo pronunciamento, un pronunciamento che fa della bruta fattualità la realtà ultima. Viene virtualmente fatta una dichiarazione universale negativa con vaste implicazioni. I fatti esistono in un vuoto, e nulla può essere detto del vuoto a meno che si postuli che alcuni universali esistono al di là del vuoto. In questo modo l’agnosticismo non può discutere in favore della propria posizione senza assumere molto di più di quanto la sua posizione permetta. Basilarmente, come dimostra Van Til, esso assume la verità del sistema cristiano-teista per poter operare e affermare sé stesso. È auto- contraddittorio su premesse cristiane, e auto-contraddittorio sulle proprie premesse a meno che assuma la verità del teismo. Il non credente è quindi capace di pensare e di operare solo sulle basi di un ragionamento pratico che presuppone la cornice cristiana delle cose. Sulle proprie premesse non può sapere niente; su premesse prese in prestito è in grado di pensare e di operare, ma per tutti i suoi risultati, egli rimane nella paradossale posizione del ladro di bestiame menzionato precedentemente. Non ha conoscenza sulle basi dei propri principi; ha valida conoscenza solo nello stesso modo in cui un ladro possiede refurtiva. Van Til dichiara la questione frontalmente:

La questione è del tipo “o così o niente”. L’argomento in favore del teismo cristiano deve perciò cercare di provare che se non si è cristiano-teisti non si conosce assolutamente niente come si debba conoscere qualsiasi cosa. La differenza non è che tutti gli uomini allo stesso modo conoscono certe cose intorno all’universo finito e che alcuni affermano di avere della conoscenza addizionale mentre gli altri non lo fanno. Al contrario il cristiano-teista deve affermare che egli solamente possiede vera conoscenza riguardo a mucche e galline quanto riguardo a Dio. Egli lo fa senza spirito di presunzione perché è per lui un dono della grazia di Dio. Neppure nega che ci sia una conoscenza in qualche maniera che consente al non teista di intendersi in qualche modo, nel mondo. Questo è il dono della grazia comune di Dio e perciò non cambia l’assolutezza della distinzione fatta circa la conoscenza e l’ignoranza del teista e del non teista, rispettivamente [44].

La filosofia cristiana deve evidenziare che l’anti-teismo distrugge conoscenza e ragione e non può esistere sui propri presupposti. “L’uomo autonomo non può per sempre scappare avanti e indietro tra le aride montagne della logica senza tempo e l’oceano senza riva della pura potenzialità. Alla fine deve essere condotto in porto” [45].

Con Van Til abbiamo una filosofia veramente cristiana, una basata completamente sui presupposti del cristianesimo e che fa giustizia all’unità e alla varietà dell’esperienza umana. A motivo del suo carattere cristiano, essa evita le trappole del razionalismo e dell’irrazionalismo. Sul fondamento della Trinità ontologica è sviluppato un sistema realmente cristiano di grande importanza e di ampio respiro. Le questioni sollevate da Van Til devono essere prese in considerazione, e nessun uomo può affermare di sposare una filosofia cristiana senza venire a termini con questi presupposti delineati da Van Til.

Abbiamo cominciato questa panoramica della sfida di Van Til all’epistemologia con una storia di un re nudo. Abbiamo visto quell’uomo, nudo nella sua alienazione etica da Dio, cercare di vestirsi in metafisica indipendenza da Dio. In altre parole, l’uomo cerca di vestirsi derubando Dio e lasciando nudo lui. Ma il tentativo è presuntuoso e un’impossibilità e riesce ad enfatizzare solo la nudità dell’uomo, la sua ribellione etica contro Dio ed allo stesso tempo la sua metafisica dipendenza da Lui. L’uomo non può derubare Dio, non può guadagnare un’indipendenza metafisica, ed ogni affermazione di autonomia è soltanto “abiti regali”, una vuota pretesa che rivela solo più spogliata la natura deformata dell’uomo naturale. Va Til ha ragione, perciò, quando dice che effettivamente, quando esamina l’uomo naturale e le sue filosofie, il re è nudo. Chi ha orecchio da intendere, intenda. Con Van Til e con Dooyeweerd, abbiamo la formulazione più chiara e più coerente dei principi della filosofia cristiana. Inoltre, poiché Van Til mette talmente a fuoco le questioni tra il teismo cristiano e l’anti-teismo, la sua filosofia costituisce una pietra d’inciampo e una roccia di scandalo (Is. 8:14) per coloro il cui interesse filosofico è di smontare l’offesa del cristianesimo all’uomo naturale. Dio e i suoi filosofi richiamano l’attenzione sulla nudità dell’uomo e gli offrono i vestiti di Dio in Cristo; quelli che fanno compromessi insistono che l’uomo naturale è completamente vestito; gli manca solo il mantello. Questa è cecità, non solo riguardo all’uomo naturale, ma anche nei confronti di sé stessi e di Dio. Bisogna dire, non solo del re, ma anche dei suoi filosofi: “sono nudi”.

 

Note:

1 Alan Richardson: Christian Apologetics, p.150 (Harper New York).
2 Introduzione a B.B. Warfield: The Inspiration and Authority of the Bible, p. 18 (Presbyterian and reformed,Philadelphia).
3 Ibid., p. 22s.
4 Ibid., p. 35.
5 Van Til Christianity in Modern Theology, pp. 18s.
6 Ibid., p. 80s.
7 P. 65 s., citato in Van Til: The New Modernism, p. 173
8 Van Til: Christianity and Idealism, pp. 57-74.
9 Ibid., p. 134.
10 Van Til Metapyisics of Apologetics, p. 12
11 Ibid., p. 14.
12 Ibid., p. 15.
13 Ibid., p. 16.
14 Van Til: Metaphysics of Apologetics, p. 20. Si confronti Van Til: “Nature and Scripture” in The Infallible Word, p. 255ss.
15 Van Til: Metaphysics of Apologetics, p. 22.
16 Ibid., p. 38.
17 Ibid., p. 46.
18 Ibid., p. 57.
19 Sheen, p. 226 citato da Van Til, op. cit. p. 58.
20 Ibid., p. 66.
21 Ibid., p. 66s.
22 Kauth: “The Conservative Reformation and its Theology” p. 350 citato da Van Til, op. cit., p. 65.
23 Ibid., p. 72.
24 Ibid., p. 88.
25 Ibid., p. 99.
26 Ibid., Quando Van Til dice che “i principi di unità e diversità devono essere egualmente originali”, questo è un inevitabile biblico, reso necessario perché Dio è un Dio e allo stesso tempo trino. L’eguale valore ultimo dell’uno e dei molti è derivato direttamente dalla dottrina della Trinità.
27 Ibid., p. 95.
28 Ibid., p. 99.
29 Van Til: Metaphysics and Apologetics, p. 101.
30 Van Til: Metaphisics of Apologetics, p. 101.
31 Van Til: “Nature and Scripture” ne The Infallible World, p. 285.
32 Van Til: Metaphysics and Apologetics, p. 103.
33 Ibid., p. 107.
34 Ibid., p.108.
35 Ibid., p. 110.
36 Ibid., 114.
37 Ibid., p. 122.
38 Per l’analisi di Van Til delle filosofie e teologie contemporanee si veda: Metaphysics of Apologetics; Defense of the Faith; Christianity and Idealism; Christianity in modern Theology, The New Modernism; ecc..
39 Van Til: Metaphysics of Apologetics, p. 160.
40 Citato da Van Til in Christian Philosophy, un opuscolo in cui cita E.J. Carnell: An Introduction to Christian Apologetics (Eerdmans, Grand Rapids, Mich; p. 178, iv edizione, 1952
41 Van Til: Christian Philosophy
42 Van Til: Metaphysics of Apologetics, p. 171. 43 Ibid., p.181b.
44 Ibid., p. 194.
45 Van Til: Nature and Scripture,p. 293


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