2. La Filosofia Cristiana della Conoscenza

 

L’epistemologia, o filosofia della conoscenza, ha in Cartesio (Renè Descartes) il suo pensatore moderno rappresentativo. Cartesio, un matematico e filosofo francese, affrontò il problema della conoscenza con un retroterra che includeva otto anni in una scuola di gesuiti, esperienza militare, una conoscenza del Rinascimento e delle scienze e molto viaggiare. Eppure, nell’affrontare il mondo filosoficamente, agì come fosse in effetti un bambino appena nato o un visitatore in questo mondo, vale a dire senza presupposti, non avendo alcuna conoscenza di alcunché eccetto sé stesso e della necessità di accertare la natura di uno strano nuovo mondo. Una tale procedura è filosoficamente valida? È in alcun modo possibile chiedere come conosciamo senza aver precedentemente supposto cosa conosciamo? Cartesio cominciò col presupposto della ragione umana autonoma; per lui, Dio ed il mondo erano problemi, ma lui stesso non lo era. Mentre il razionalismo di Cartesio è adesso sorpassato, la sua enfasi sull’uomo autonomo non lo è. La procedura di Cartesio è ancora basilare. Egli definì ed identificò l’uomo nei termini di sé stesso, senza riferimento ad alcun fatto o essere esterno e poi procedette a definire il mondo e Dio nei termini dell’uomo autonomo. Nei termini di questa procedura, Kant e l’Esistenzialismo divennero inevitabili; l’uomo autonomo divenne il principio basilare di definizione ed identificazione, e ambedue Dio e il mondo divennero relativi all’uomo. Il Dio autosufficiente e sovrano, assieme al suo eterno decreto, diventa anatema per l’uomo. Dio esiste, per i teologi neo- ortodossi, nei termini dell’incontro divino-umano, ed essi contrastano l’idea ortodossa del Dio autosufficiente e trino. Come ha indicato Van Til: “Barth argomenta che la trascendenza di Dio significa la sua libertà di diventare completamente identico all’uomo e di elevare l’uomo a completa identificazione con sé stesso” [1]. L’esistenzialismo dunque identifica Dio nei termini della sua relazione con l’uomo e manifesta ostilità verso l’idea di una trinità ontologica autosufficiente. In questo modo a Dio è permessa poca o nessuna esistenza indipendente ed è ridotto ad una relazione esistenzialista con l’uomo autonomo. La teologia è di conseguenza dialettica, colloquiale, Dio parla e agisce, ma esaurisce se stesso nel suo agire e parlare, nella sua relazione con l’uomo. L’esistenzialista può perciò essere d’accordo che “Dio era in Cristo” esaustivamente perché lo era relazionalmente.

Come hanno fatto teologia e filosofia a giungere a una posizione così perversa? L’assurdità del punto di partenza di Cartesio ce ne dà una chiara indicazione. Quando Cartesio cominciò col chiedersi “come conosciamo?”, e rispose dichiarando il proprio punto di partenza con “cogito ergo sum”, penso dunque sono, egli aveva già presupposto cosa sapeva. Il cristiano ortodosso che comincia con la dottrina del Dio trino come lo riceve dalla Scrittura infallibile, è considerato ignorante e pieno di pregiudizi in quanto ha già assunto tutto ciò che apparentemente ha bisogno di essere provato. Ma l’uomo moderno che comincia con la propria natura autonoma e stabilisce la propria ragione come priva di preconcetti e valida interprete di Dio e del mondo ha di fatto assunto molto di più. Se Dio ha effettivamente creato cielo e terra e tutto ciò che contengono, allora nulla può avere alcun significato o interpretazione separatamente da Dio. Poiché tutte le cose sono venute all’esistenza per virtù del suo decreto sovrano, tutte la cose hanno significato solamente nei termini del suo eterno consiglio. La sola vera interpretazione di qualsiasi fatto, uomo incluso, è perciò nei termini di Dio il Creatore e provvidenziale Controllore. La posizione cristiana ortodossa, come sostenuta dal calvinismo coerente, è che Dio è il Creatore e quindi è anche l’interprete: perciò, il solo possibile punto di origine o di partenza è il Dio trino della Scrittura infallibile. Se l’uomo è l’interprete, come mantengono la filosofia e la teologia moderne, allora tutte le cose, inclusi Dio e il mondo e anche gli altri uomini, hanno il loro essere esistenzialmente, non indipendentemente, e costituiscono una relazione verso, e un incontro con, l’uomo autonomo. Perciò la teoria cristiana della conoscenza si fonda sulla teoria cristiana dell’essere, e la teoria non cristiana della conoscenza si fonda su una teoria non cristiana dell’essere. Come ha osservato Van Til: “La nostra teoria della conoscenza è quella che è perché la nostra teoria dell’essere è quella che è. Come cristiani noi non possiamo cominciare speculando sulla conoscenza di per sé stessa. Noi non possiamo chiedere come conosciamo senza allo stesso tempo chiederci cosa conosciamo” [2].

L’uomo autonomo assume che l’interpretazione della realtà sia una sua funzione senza riferimento a Dio, e perciò procede a comparare le sua idee con la realtà. Storicamente questo processo è stato elaborato in Cartesio, Berkeley e Hume fino alla conclusione che l’uomo non conosce mai la realtà eccetto attraverso le sue idee della realtà. Sorge dunque la domanda: “C’è alcuna valida ragione per credere che come penso così è?” la risposta kantiana è determinativa per la filosofia moderna: le cose in sé stesse non possono mai essere conosciute. La nostra conoscenza è confinata ai fenomeni, le cose come ci appaiono, mai raggiungendo la cosa in sé stessa. La domanda: “ È la struttura del mio pensiero un corretto resoconto della struttura del mondo?” è lasciata cadere come impossibile. Whitehead dichiara: “Non dobbiamo cadere nella fallacia di assumere che stiamo comparando un mondo specifico con specifiche percezioni di esso. Il mondo fisico è in un certo senso generale del termine un concetto dedotto. Il nostro problema è, infatti, adattare il mondo alle nostre percezioni, non le nostre percezioni al mondo” [3]. C’è in questa posizione un’ apparente e fuorviante umiltà che è realmente un perverso orgoglio. L’insistenza dell’uomo nel dire che non possiede una conoscenza valida della realtà in sé stessa, il suo tentativo di eliminare la causalità, l’ordine e il disegno mentre le assume ad ogni istante, costituisce un tentativo di resistere qualsiasi interpretazione altra da quella dell’uomo autonomo.

Il cristiano deve mantenere che l’essere creato non ha significato in sé stesso e ogni tentativo di comprenderlo nei termini di sé stesso costituisce rigetto del vero significato. Neppure l’uomo può avere significato in sé stesso, perché anch’egli è una creatura. Nulla può avere significato in sé stesso o da sé stesso perché nulla esiste in sé stesso o da sé stesso. “Tutte le cose sono state fatte da Lui” e niente ha valida interpretazione separatamente da Dio e dai suoi propositi creativi e redentivi. Perciò ogni tentativo dell’uomo di interpretare il mondo da solo, o di cercare di interpretarlo nei termini della propria mente autonoma e delle sue percezioni, è virtualmente una deliberata reiezione di Dio e della sua interpretazione. Quando gli uomini rigettano Dio essi allo stesso tempo virtualmente rigettano l’interpretazione e il proposito del Creatore e redentore per la loro vita e per tutta la creazione. In questo modo non possono comprendere né se stessi né il mondo in cui vivono, malgrado usino entrambi, spesso con dissoluta abilità. Come ha indicato Van Til, se diciamo che “l’uomo naturale” non può realmente conoscere Dio, allora dobbiamo anche dire che non può realmente conoscere i fiori del campo.

A meno che manteniamo che “l’uomo naturale” non conosce i fiori realmente, non possiamo mantenere logicamente che egli non conosce Dio realmente. Tutta la conoscenza è interrelata. Il mondo creato è espressivo della natura di Dio. Se uno conosce la “natura” realmente, conosce anche il Dio della natura realmente. Anche qui la mente dell’uomo è un’unità. Non può conoscere una cosa realmente senza conoscere tutte le cose realmente. È inammissibile dire che “l’uomo naturale” non conosce nulla di Dio benché conosca bene molte altre cose. E non è sufficiente nemmeno dire che “l’uomo naturale” conosce dell’esistenza di Dio ma non conosce alcunché del carattere di Dio. L’esistenza di Dio è l’esistenza del carattere [4].

Un’oggettiva rivelazione di Dio è data all’uomo sia per mezzo del mondo intorno a sé che per mezzo della sua propria natura creata sui quali il timbro di Dio è inequivocabile. Ma questa conoscenza l’uomo cerca di sopprimerla. Invece, nel suo punto di partenza, metodo e conclusione, l’uomo prende per buona l’ultimità di sé stesso, insiste nell’essere il proprio dio e proprio interprete, e come risultato mal interpreta tutte le cose, sé stesso, i fiori del campo e il Dio onnipotente. Sia nella sua esistenza che nel suo significato, l’intero mondo spazio-temporale dipende da Dio che lo ha creato dal nulla. La sua vita ed il suo significato sono derivati, e come risultato “il significato di ogni fatto nell’universo deve essere messo in relazione con Dio” [5]. Ne consegue perciò che, per conoscere qualsiasi fatto realmente, l’uomo deve prima presupporre l’esistenza di Dio e il suo piano creativo e redentivo. I fatti possono essere messi in relazione con leggi perché dietro a fatti e leggi c’è Dio che mette in relazione e dà significato ad entrambi col suo progetto per l’universo. Sia l’uno che i molti, gli universali e i particolari sono di natura derivata e dipendente dal Dio trino, che è l’originale e ultimo Uno e Molti. “Se dobbiamo avere coerenza nella nostra esperienza, ci deve essere una corrispondenza della nostra esperienza con l’eternamente coerente esperienza di Dio. La conoscenza umana alla fin fine si basa sulla coerenza interna in seno alla Divinità, la nostra conoscenza si basa sulla Trinità ontologica come propria presupposizione” [6]. Poiché l’uomo è una creatura la sua conoscenza non può essere esaustiva, ma poiché egli è creato ad immagine di Dio, la sua conoscenza è reale.

Per il non-cristiano, la vera conoscenza deve essere completa. Poiché i particolari e gli universali hanno per lui valore ultimo, la conoscenza è reale nell’estensione in cui è completa ed esaustiva. In più, il non-cristiano considera la mente dell’uomo autonomo come un valido interprete e come eticamente normale. Il cristiano, dall’altra parte, rigetta il diritto dell’uomo di essere un interprete autonomo e ultimo e sostiene che è invece eticamente depravato talché sopprime volontariamente la conoscenza reale. Il peccato dell’uomo è il suo desiderio di essere il proprio dio, determinando nella propria autorità ciò che è bene e ciò che è male. Di conseguenza sopprime la verità riguardo a Dio, sé stesso e il mondo in ordine di avvalorare sé stesso nella sua ribellione.

Per comprendere la fondamentale differenza tra la dottrina della conoscenza coerentemente cristiana, quella Riformata, nei confronti dell’approccio alla conoscenza dell’uomo moderno “oggettiva” e pretesa “scientificamente imparziale”, esaminiamo una dichiarazione che sembra promettere e dare così tanto alla fede cristiana ortodossa mentre in realtà la azzoppa.

In un lodevole articolo nel numero di ottobre 1951 di Theology Today William Hallock Johnson riassume alcuni dei principali attacchi alla credibilità dei miracoli. “Myth and Miracleas at Mid-century” indica chiaramente la natura non scientifica e non accademica di quei critici che riducono i miracoli a miti su nessun altro fondamento che questo: essi credono, a priori, che i miracoli non possono accadere, perciò non sono accaduti, e ogni evidenza del contrario è automaticamente mitologica. “Preconcetti filosofici”, egli conclude, “li hanno prevenuti dal dare ascolto a testimonianze competenti ed impeccabili. Il risultato è che il mitico ha guadagnato stabilmente e inesorabilmente ai danni dello storico”. I critici scettici, non i vangeli, sono i fautori di miti, e Johnson trova nel loro completo e confessato fallimento di tracciare un ritratto credibile di un Gesù non-miracoloso “un forte argomento negativo a favore della veridicità della narrativa evangelica”.

Con questa ponderata affermazione i Calvinisti possono concordare di tutto cuore. Ciò nonostante, la questione deve essere ulteriormente portata avanti perché sia pienamente acclarata. È ovvio il fatto che Strauss, Renan, Schweitzer, Loisy ed altri critici che Johnson menziona di fatto abbiano un basilare preconcetto filosofico che ri-ordina il loro intero giudizio e determina ciò che sia e ciò che non sia un fatto. Ma ciò non cancella ciò che è altrettanto ovvio, vale a dire che Johnson e Dodd e altri accademici hanno i loro preconcetti i quali ciascuno a suo turno pre-determina i fatti sulle basi di certe presupposizioni filosofiche, tuttavia ciascuno a suo turno afferma di presentare i fatti reali, senza preconcetti, imparziali, oggettivi e scientifici. In questa affermazione risiede la natura intrinsecamente soggettiva della loro accademicità e la loro falsa affermazione di un’autorità oggettiva.

L’uomo non è né può essere “oggettivo” e “imparziale”. Tutto il suo pensiero proviene da qualche fondamentale punto di partenza o presupposto che c’è a priori ed è perciò fede, pura o impura. Da milioni di accadimenti momentanei egli seleziona certi dati come significativi o reali perché il suo punto di vista pre-determina che siano tali. Tutta la storiografia è selettiva e filosofica, come testimonia la ben diversa storia d’America che compare in Bancroft e in Beard. È con Dooyeweerd e Van Til che abbiamo l’analisi decisiva della relazione tra fede e fatto. Alla mente moderna codesto punto di vista sembra condurre al puro relativismo perché, ponendo la propria fede nell’uomo autonomo, non può tollerare che la propria centralità e la propria autorità siano messe in questione. “Non toccate il mio unto” essa grida, quando viene sfidata l’autonomia finale dell’uomo.

Il calvinismo accetta audacemente il relativismo del pensiero dell’uomo. Esso afferma chiaramente il fallimento della ragione, dell’intuizione, dell’esperienza e dello sperimentalismo separati da una valida fede guida. Dichiara che la storia dell’epistemologia, la teoria della conoscenza, dimostra che l’uomo è incapace di dare spiegazioni persino delle normali questioni pratiche quotidiane per mezzo di una qualsiasi della moltitudine di filosofie che ha sviluppato. La sola garanzia per la realtà del nostro mondo e della validità della nostra consapevolezza ed esperienza è un’incondizionata fede in Dio e nella sua rivelazione, nel Dio delle Scritture cristiane e nell’autorità e finalità del Figlio Incarnato e della sua parola scritta. In tale fede il relativismo scompare e il problema dell’epistemologia è risolto. Il soggettivismo dell’uomo è compensato dalla realtà di Dio e del suo mondo creato. Nella creaturalità e nella ribellione il nostro fallimento e peccato sono sia manifesti sia limitati, e nella sua divinità trina c’è la garanzia della realtà e della validità della nostra ragione creata.

Per molti moderni, questa fede incondizionata in Dio e nelle Scritture implica una resa della ragione. Che ciò sia stato vero per molte forme di pensiero Romane ed Arminiane è innegabile. Parimenti, molti modernisti teologici hanno arreso la ragione ai capricci dell’esperienza. Il vero calvinismo, come perviene a maturità con Van Til, insiste solamente sulla resa della ragione come Dio e la restaurazione in Cristo della ragione come ragione. L’uomo autonomo ha dato alla ragione una finalità ed una autorità che essa non possiede. Le abbiamo dato il diritto di sedere in giudizio nei confronti di Dio stesso e di incriminare la Trinità dinanzi alla sbarra della ragione. La vera risposta calvinista è che la ragione non è Dio e che non possiede tale autorità. I suoi giudizi sono basati sulle tenui, peccaminose, e soggettive presupposizioni di una creatura e nemmeno sono fondate nell’essere o nella verità. La ragione può solo stabilire una connessione con essere e verità fintanto che poggia, non sulla propria mitica autorità, ma su Dio e sulla sua parola.

La Confessione di Fede di Westminster inizia appropriatamente col capitolo sulle sacre Scritture ed asserisce: “ L’autorità delle Sacre Scritture …(e dei suoi miracoli) … non dipende dalla testimonianza di alcun uomo o chiesa; ma interamente da Dio il Quale è Egli stesso verità, e loro autore; e quindi devono essere ricevute perché esse sono la Parola di Dio”.

Ciò che dipende dall’uomo o dalla sua ragione o testimonianza, è meno che l’uomo, e ciò che dipende da Dio è meno che Dio. Sono la ragione e l’uomo a dipendere da Dio, non Dio, la sua Parola o i suoi miracoli a dipendere dall’uomo o dalla ragione.

È significativo che la Confessione di Westminster non contenga alcun capitolo sull’uomo come uomo, ma solo sull’uomo in relazione a Dio, attraverso la sua caduta, e come chiamato e redento. La vita e la ragione di un uomo possono essere considerate appropriatamente da un pensatore cristiano solo nei termini della stessa relazione. L’uomo autonomo è un mito, e la ragione in quanto ragione creata è parte della relazione dell’uomo in quanto creatura, a Dio, al suo mondo e agli altri uomini. Come tale possiede un grande, incommensurabile ruolo. In qualsiasi altra veste è un ostacolo e una pietra d’inciampo.

Ma, si potrebbe obbiettare, perché criticare Johnson quand’egli è così ovviamente congeniale alla credenza cristiana nei miracoli, visto che difende l’elemento miracoloso nel Nuovo Testamento? Perché tracciare la linea cristiana con tale rigidità e precisione da lasciare in questione tali uomini? Non sta il Calvinismo di Van Til andando troppo lontano nella direzione dell’isolamento nel raffinare così il proprio criterio? La risposta è ben definita. L’accettazione del “miracoloso” non è evidenza di cristianità. Molte persone pagane danno libero e pronto assenso al “miracoloso” nella cristianità senza essere cristiani. Molti indiani Americani, per esempio, sono pronti a credere il diluvio, le guarigioni miracolose, la nascita verginale, e la resurrezione del corpo, senza per un momento accettare il cristianesimo; tale accettazione è pienamente in accordo con la loro visione del mondo. Similmente, Aristotele avrebbe potuto accettare questi stessi miracoli, ridefiniti come nuova evidenza della potenzialità inerente all’interno dell’universo, e rigettare categoricamente Cristo e il Dio delle Scritture. In realtà. Sotto qualunque di questi punti di vista, i miracoli cessano di essere miracoli in alcun senso cristiano. Più importante ancora, non c’è guadagno nello stabilire l’avvenimento di un miracolo come evento della storia se nel farlo si perde il Dio di quel miracolo. Perciò, mentre molti cristiani sono pronti ad accettare qualsiasi “evidenza” apparentemente congeniale e corroborante della visione cristiana che sia pronunciata da Aristotele o da Johnson, il Calvinista coerente non può farlo. Nessun miracolo è realmente stabilito se Dio non è allo stesso tempo stabilito quale presupposto di tutto il pensiero. Più ancora, nessun fatto è stabilito a meno che noi prima di tutto cominciamo con Dio come Creatore quale basilare presupposto di ogni pensiero.

Johnson vide chiaramente i preconcetti filosofici di Strauss, Renan, Schweitzer, Loisy ed altri, ma erroneamente assumeva di non averne egli stesso, che il suo pensiero fosse “obbiettivo” e “scientifico”. Non sorprende che ciascun uomo sia a proprio turno soddisfatto con la validità dei propri ragionamenti, perché si accordano col proprio Dio: sé stesso. Se esprime insoddisfazione col proprio ragionamento, è perché ha fallito nel riconoscere la potenzialità della ragione come egli stesso la riconosce. L’ingenua fiducia della filosofia è troppo spesso mascherata al lettore medio con un linguaggio intricato e pomposo, ma non è necessario andare indietro alla più vecchie filosofie per scoprire nei filosofi una rimarchevole sicurezza di sé riguardo all’oggettiva validità del loro procedimento logico. Per esempio, Rudolf Carnap, un moderno positivista logico, il quale è totalmente anti-metafisico, che nega che la filosofia s’interessi della realtà, mentre dichiara che le “proporzioni metafisiche – come i versi poetici- hanno solo una funzione espressiva, ma non hanno funzione rappresentativa” può non di meno dire: “la nostra dottrina è una dottrina logica e non ha nulla a che vedere con tesi metafisiche circa la Realtà o l’Irrealtà di qualsiasi cosa”. Egli concorda con Hume che “hanno senso solamente le proporzioni della matematica e della scienza empirica e che tutte le altre proposizioni sono senza senso”. Questo, naturalmente, milita contro le sua stesse proposizioni, la cui validità ciò nonostante egli mantiene come scale che uno deve salire per vedere il mondo correttamente, utilizzando come propria la difesa di Wittgenstein [7]. Perfino rigettando metafisica e verità, tali uomini insistono su una metafisica e una verificabile validità per la loro logica. È stupefacente il modo in cui gli uomini possano con modestia dissolvere Dio dalla loro filosofia e lo stesso mantenere la loro propria integrità!

Ma questo non è un caso relativo alla filosofia. La questione essenziale è tra l’autorità dell’uomo autonomo e quella del Dio Sovrano. Far entrare Dio nell’universo, a condizione che noi apriamo la porta, è dire che l’universo è il nostro universo, e che le nostre categorie sono decisive nel pensiero umano. Noi possiamo accettare le Scritture come inerranti e infallibili nei nostri termini, come soddisfa la nostra ragione, ma con ciò abbiamo semplicemente stabilito noi stessi come dio e giudice e abbiamo dato maggiore assenso a noi stessi che a Dio. Ma, se Dio è Dio, allora l’universo e l’uomo sono sua creazione, comprensibile solo nei suoi termini, e non si può stabilire nessun senso se non nei termini del significato dato da Dio. Accettare i miracoli o le Scritture su qualsiasi altro fondamento è in effetti negare il loro significato essenziale e dare loro un significato pagano.

In questo modo, la posizione cristiana coerente deve essere questa: niente Dio niente conoscenza. Poiché l’universo è un universo creato, non è possibile nessuna conoscenza di esso se non nei termini di pensare i pensieri di Dio nella sua cornice di pensiero [8]. Questo, l’uomo naturale, essendo internamente incoerente, lo fa in una certa misura, usando la scala ma negando la sua esistenza. Nei suoi ragionamenti pratici e nella sua ricerca è semi-cristiano. Nella sua ragione teoretica, egli è insistentemente uomo autonomo. La questione, perciò, è tra la ragione come ragione e la ragione come Dio. La razionalità dell’uomo, secondo la visione cristiana, è parte della relazione dell’uomo con Dio, non un dio in sé stessa. Ma l’uomo autonomo, con le sue leggi di contraddizione e di logica, richiede che Dio segua la sua razionalità e la sua logica. In altre parole, Dio deve pensare i pensieri dell’uomo nella cornice di pensiero dell’uomo decaduto! Questo è il crudo significato di molta della filosofia apparentemente cristiana. Contro tutto questo Van Til ha innalzato un criterio effettivo.

Note:

1 “Christianity and Crisis Theology,” opuscolo ristampato da Chen Yen Pao
2 The Defense of the Faith, p. 49.
3 Alfred North Whitehead, “Space, Time, Relativity” in The Aim of Education and Other Essays, p. 166. (Macmillan New York).
4 C. Van Til, An Introduction to Systematic Theology, 1949, p.25.
5 Ibid, p. 21.
6 Ibid, p. 22.
7 Morton White editore The Age of Analysis, 1955, pp. 216, 220, 224 (New American Library Mentor).
8 Van Til usa spesso questa frase riguardo a come l’uomo dovrebbe pensare: “Thinking God’s thoughts after Him” specificando che il pensiero dell’uomo non può essere creativo ma può essere solo “analogico”. La frase in questione è stata tradotta in tutti i capitoli seguenti con “pensare i pensieri di Dio nella sua cornice di pensiero”.


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