13. La Cristologia e il Vuoto

 

Uno dei malintesi che piagano un’alta dottrina di Cristo è che aderenti ad una bassa cristologia non riescono a “vedere Cristo” in quel pensiero! Quando Van Til, in linea col pensiero riformato, parla di Dio, parla della trinità ontologica ed economica: di Dio il Padre, Dio il Figlio, e Dio lo Spirito santo. Nel pensiero popolare, e in basse cristologie, la parola Dio è riservata al Padre e c’è un’implicita ed esplicita subordinazione che riserva una posizione minore e una natura quasi vice-presidenziale alla seconda e alla terza persona della trinità. Parlare direttamente del Figlio e dello Spirito santo come Dio va contro il loro pensiero e sembra quasi confusione. Tali persone perciò mancano di vedere Cristo trattato adeguatamente perché per loro egli deve essere considerato in subordinazione e isolato dalla trinità.

Un’altra tendenza che piaga la cristologia corrente è il pensiero Neo- ortodosso che è ostentatamente cristocentrico perché considera il Cristo della Scrittura un universale più alto del Padre. Essendo indifferente nei confronti di Dio-in-sé e interessata di Dio-in-relazione, e trovando che la deità si rivela esaustivamente nella relazione, la neo-ortodossia focalizza su Cristo perché non ha altro punto focale. Ma il Cristo su cui centra la propria attenzione è a malapena riconoscibile. I risultati della della scuola critica biblica sono pienamente accettati. Il Gesù storico è separato dal Cristo, e il Cristo diventa l’Universale, nella cui partecipazione è costituita l’essenza di essere una persona e di essere salvato. Tutti gli uomini sono perduti e salvati, reprobi ed eletti, nei termini di questa corrispondenza. L’essenza di Dio è attività rivelazionale, e l’essenza dell’uomo è fede. Perciò, Dio deve rivelarsi ed è conosciuto nel Cristo, nell’attività, mentre l’uomo deve intrinsecamente credere, poiché tale è la sua natura. In questo modo la neo- ortodossia tende all’universalismo; tutti gli uomini dovranno alla fine essere salvati perché tutti gli uomini sono uomini solo quando credono. Similmente, Dio è Dio solo quando rivela se stesso in attività rivelazionale, supremamente nell’idea del Cristo. Pertanto, per essere Dio, Dio deve essere completamente coinvolto nella storia, diventare completamente implicato nel contingente, accantonare tutti i suoi attributi incomunicabili, se ne abbia, e diventare l’opposto di se stesso. Da fonti liberali, la neo-ortodossia è stata criticata come “il ballo di san Vito in terra di nessuno”. La sua cristologia può essere ulteriormente descritta come una scala nello spazio vuoto che va dal nulla al nulla. La neo-ortodossia può dire che Dio era in Cristo perché altrimenti senza Cristo Dio non sarebbe esistito; in quell’attività rivelazionale, Dio era esaustivamente presente. Per Barth, per esempio, l’incarnazione fu la completa umiliazione di Dio e il suo sacrificio di sé, e può perfino parlare di Dio che soffre “morte e perdizione”.

La completezza dell’umiliazione di Dio nella crocifissione di Gesù Cristo e l’infinità dell’auto-sacrificio che compie qui, risiede nel prendere su se stesso come uomo ogni cosa che la ribellione dell’uomo contro di lui ha reso inevitabile — sofferenza e morte ma anche perdizione e inferno, punizione nel tempo e nell’eternità, prescindendo completamente dal fatto che ciò non sia degno di lui come Dio. Dove rimane Dio, e cosa rimane ancora suo, come Dio, quando il figlio di Dio è stato ucciso sul calvario? [1].

Barth non è disposto a dire esplicitamente ciò che è implicito nel suo approccio, e infatti si ribellerebbe alla conclusione logica del suo pensiero. Ma nondimeno rimane vero che se Dio è diventato esaustivamente uomo allora l’uomo può diventare e diventerà esaustivamente Dio. Avendo insistito che Dio deve essere identico con Cristo, talché Cristo è lasciato scollegato dalla trinità ontologica, come può evitare che chiunque insista che l’uomo deve essere identico a Dio quando l’uomo è uomo eletto? Più ancora di questo, è la dottrina neo-ortodossa della corrispondenza ed elezione a tendere verso questo stesso obbiettivo.

Come risultato, l’enfasi della neo-ortodossia sulla signoria di Cristo in quanto contrapposta al concetto che suppone statico della unità di Dio è ingannevolmente cristocentrica e realmente antropocentrica. Se la trinità ontologica è tolta dal quadro la cristologia scompare in antropologia. A quel punto Cristo diventa, non il mediatore tra Dio e l’uomo, ma l’essenza della possibilità e potenzialità dell’uomo ed allo stesso tempo l’esaustiva manifestazione di una divinità implicata e invischiata nel tempo che non ha esistenza indipendente al di la della storia. Siccome per Barth la creazione non è vera alla lettera, anche la distinzione Creatore-creatura è egualmente non vera alla lettera, e la salvezza diventa partecipazione anziché rigenerazione. Come ha osservato Van Til, nel commentare sulla cristologia di Barth:

Poiché come Dio è disceso con noi nella pura contingenza, noi ci alzeremo con lui a pura verità. Come Dio nella sua pre-temporalità era libero per noi e mediante la sua nascita verginale, morte e sepoltura divenne contingente con noi, così noi, mediante la sua sovra- temporalità diventeremo eterni con lui. Non c’è per noi alcun possibile dubbio. I nostri peccati, cioè la nostra pura contingenza, sono ora stati lavati via. Infatti Dio li ha portati e li sta sempre portando, ma sempre in relazione alla sua resurrezione. Ci rendiamo conto ora che non avremmo potuto peccare in altro modo che nel Cristo; pertanto sappiamo che, benché reprobi in pura contingenza, saremo salvati da pura razionalità. E ciò che vale per uno di noi vale per tutti. Come con Dio tutti sono sepolti, così con Dio tutti saranno vivificati. Nessuno è riprovato che non lo sia in Cristo. Ciò è implicito nell’equilibrio che Barth vorrebbe mantenere tra la sovra-temporalità di Dio che sta per per la pura razionalità e la pre- e post-temporalità di Dio che insieme stanno per la pura contingenza. Mantenere in equilibrio le tre idee di pre-sovra- e post-temporalità di Dio, dice Barth, ci salverà, da un lato da ogni secolarizzazione che è sistemizzazione e, dall’altro da tutti i problemi inerenti l’idea di pura temporalità in sé. Da ciò appare che che la forma trinitaria della dichiarazione di Barth è in realtà intesa a provvedere ai due motivi critici di pura contingenza e pura razionalità e i due sono tenuti in equilibrio [2].

Brunner può parlare di Cristo che diventa carne nel senso che carne “significa la brutale solidità dei fatti dell’esistenza sensibile”, ma non è l’interpretazione storica che assume che l’eterno è entrato nel temporale, perché “il penetrare” dell’eterno nel tempo “non risulta in nessun modo in nessun fenomeno storico visibile” [3.] Come osserva Van Til, questo è relativismo storico. Poiché non c’è vero concetto di eternità, non ci può essere valido concetto di tempo; perché non esiste Dio in sé, non esiste storia significativa. Il concetto di una caduta sovra-storica conduce a un Cristo sovra-storico scollegato dalle apparentemente dure realtà della critica biblica. Ciò ch’è storico diventa “solo un certo aspetto superficiale della realtà” [4]. È in questo modo possibile diventare contemporanei e perfino identici a Cristo perché Cristo è sovra-storico e perché l’essere è essere e non è differenziato in creato e non-creato. Come Van Til analizza questo approccio in Barth:

È per andare al di là della portata di ogni relativismo storico e speculativo che Barth introduce il suo concetto di storia primaria o tempo di rivelazione. Il tempo di rivelazione e la sua attività è costantemente trattato come l’opposto di relazione sistematica.
La dottrina di Barth della libertà di Dio che trova espressione in ciò che dice sull’incarnazione può ancora una volta essere definita estremamente razionalistica. Proprio il suo tentativo di sfuggire a tutte le forme di teologia naturale la marchiano come tale. Di primo acchito questo tentativo sembra essere semplicemente irrazionalistico. È evidente dal suo costante insistere sulla discontinuità del tempo di rivelazione con la sola interpretazione sistematica che egli cerca di sfuggire alla teologia di consapevolezza. Ma dietro a questo sta la ricerca per un’unità che è così alta da rendere tutte le altre unità subordinate ad essa. Dio non può esistere separatamente dalla sua rivelazione in Cristo. Prima del Cristo Dio non può rivelare se stesso nel cosmo e nella mente dell’uomo attraverso la storia ordinaria. Dio non può rivelare se stesso per niente nella storia come tale. Tutto ciò ancora una volta vale a dire, in effetti, che il soggetto di cui Barth parla è l’Individuo, cioè la realtà nel suo insieme. Può esistere solamente una tale realtà. Questa realtà ha due aspetti. Il Padre sta per l’aspetto di pura contingenza e il Figlio, nella sua incarnazione, per quello di pura razionalità [5].

A questo punto Reinhold Niebuhr è esplicito di altri. Parlando del concetto biblico di resurrezione e giudizio, dichiara:

È importante prendere i simboli biblici seriamente ma non letteralmente. Se sono presi alla lettera il concetto biblico di una relazione dialettica tra la storia e la super-storia è messo in pericolo; infatti in quel caso il compimento della storia diventa meramente un altro tipo di storia-temporale. Se i simboli non sono presi seriamente la dialettica biblica viene distrutta perché in quel caso i concetti di una eternità hanno la connotazione in cui la storia è distrutta e non compiuta [6].

Se non si comincia con la trinità ontologica e col sovrano e segreto consiglio di Dio come determinativo di tutta la storia si distruggono tempo e storia. Nel tentativo di evitare il concetto cristiano di eternità e della trinità ontologica la neo-ortodossia finisce col rifiutare la vera storia che diventa meramente storia-temporale, e cerca rifugio nel limbo del sovra-storico nel quale non ci sono né tempo né eternità, né carne né pesce, ma una ritirata nel relativismo. La cristologia non può esistere in questo vuoto: diventa un’antropologia camuffata e un’evasione della teologia, e la presente richiesta di pensiero cristologico è largamente quello.

La cristologia di Van Til è in linea con Calcedonia e con tutta l’ortodossia cristiana. La seconda persona della trinità ontologica, Dio vero da Dio vero, divenne vero uomo di vero uomo, ma le nature divina e umana furono in unione anziché in confusione: “Due nature, senza confusione, senza cambiamento, senza divisione, senza separazione”. La realtà dell’eterno e del temporale sono mantenute. L’eterno è sempre indipendente dal temporale e lo precede, ma il temporale è reale perché sostenuto e circondato dal segreto consiglio di Dio. Poiché il tempo è reale e la Caduta è reale, l’incarnazione è necessaria per riportare l’uomo a Dio e alla propria responsabilità di creatura creata ad immagine di Dio. Il significato del tempo deve essere visto nei termini del piano di Dio e perciò la storia non può avere significato se non nei termini del consiglio di Dio. Cristo come redentore e mediatore redime l’uomo dall’assenza di significato del suo relativismo nato dal peccato e, come mediatore, lo riporta alla sua vera relazione con Dio. Come profeta, egli ricolloca l’uomo nella vera conoscenza; come sacerdote, egli non solo fa espiazione e intercede per noi, ma stabilisce che la questione della conoscenza è basilarmente una questione etica. Come re, ci sottomette per poterci dare vera conoscenza e stabilirci nel nostro ruolo regale [7].

Inevitabilmente, più chiaramente e più completamente la nostra teologia e la nostra filosofia assumono il loro punto di partenza nella trinità ontologica della Scrittura, più diventa completa e chiara la nostra dipendenza dalla dottrina di Calcedonia. La dottrina della trinità ontologica richiede un’alta cristologia, richiede che sia preservato il significato di ambedue il tempo e l’eternità e può farlo senza confusione. La trinità ontologica dà validità ad ambedue il tempo e l’eternità senza farne due concetti senza correlazione. Ove si abbia il concetto neo-ortodosso dell’individuo e dell’unità dell’essere, è inevitabilmente impossibile mantenere il vecchio concetto di tempo e di eternità; diventano non correlati. A quel punto la teologia e la filosofia prendono tre infelici tangenti. Primo, solo l’eternità è considerata reale con ciò distruggendo la storia; secondo, solo il tempo è considerato reale distruggendo in questo modo ogni significato e proposito e riducendo tutto al relativismo; o, terzo, può essere fatto un tentativo di fondere tempo ed eternità e di sfuggire alla loro tensione facendo ricorso ad un concetto di sovra-storia. In ciascuno di questi tre non è necessario alcun mediatore; al massimo, Cristo diventa l’Idea. Non c’è nulla da mediare perché non ci sono due tipi di essere, creato e non-creato; non c’è tempo contrapposto all’eternità, non c’è Dio sovrano e autonomo contrapposto alla creatura: l’uomo. Tali cristologie cominciano e terminano in se stesse; non fanno riferimento né al Dio biblico né all’uomo biblico, e sicuramente nessun riferimento al Gesù biblico. Operano nel vuoto esistenzialista, né vivendo né morendo nei loro momenti non-storici. La sola garanzia di una adeguata e biblica cristologia è una teologia che comincia con la trinità ontologica. E per questa ragione la cristologia di Van Til è particolarmente significativa. Per questa stessa ragione, il suo concetto di Cristo è di portata cosmica, avendo in vista non meramente la salvezza di anime o il momento sovra-storico, ma la rigenerazione di tutte le cose nei termini del regno di Dio.

Il preteso scopo della nuova cristologia è preservare il significato e la validità della storia; con preservare il significato della storia in realtà intende qualcosa di radicalmente diverso, ovvero, dare priorità alla storia o al tempo sull’eternità. Questo si nota chiaramente non solo nei teologi chiaramente neo-ortodossi, ma anche in James Daane A Theology of Grace e “The State of Theology in the Church” nell’edizione di settembre, 1957 del Reformed Journal. Daane disputa contro l’eguale ultimità di elezione e riprovazione come distruttivi della storia e della teologia e in questo è seguito da Berkouwer [8]. Daane crede “che il Dio assoluto, sovrano, dovrebbe prendere tempo per realizzare il suo proposito”. Non sorprende che questa convinzione segue immediatamente la sua obiezione all’eterno decreto di Dio come punto di partenza. Egli parla anche di “questo aspetto non ancora realizzato del proposito di Dio rispetto agli eletti e ai reprobi” [9]. Per dare significato ad Adamo e al tempo bisogna negare o infrangere l’eterno decreto di Dio, i suoi propositi completamente realizzati, e la sua totale auto- consapevolezza. Poiché è data priorità al tempo sull’eternità, l’auto- consapevolezza di Dio non può precedere l’auto-consapevolezza dell’uomo. Dio non può realizzare completamente quelli che sono i suoi propositi per l’uomo finché l’uomo stesso non si realizza da sé. Ma, come abbiamo visto, l’unico modo in cui può essere preservato il significato del tempo è nei termini del Dio autonomo e del suo eterno decreto. Ecco che il tentativo di preservare la storia la distrugge perché introduce il caso, mina il concetto di trinità ontologica che sola dà particolarità e universalità, e conduce ad una fuga dalla storia stessa dentro al vuoto della sovra-storia. Le nuove cristologie sono idealismi nudi e sterili. Il tentativo di rendere Adamo indipendente dal decreto divino è un tentativo di rendere l’uomo autonomo o nel suo proprio essere o per partecipazione nell’essere di Dio. L’intera posta è dare priorità al tempo e all’uomo sull’eternità e su Dio; è questo non è né cristiano né sostenibile filosoficamente.

La cristologia biblica ha significato a motivo del decreto eterno; il tempo ha significato perché non esiste in un vuoto. Una cristologia il cui orientamento è contro il Dio autonomo e il suo eterno decreto ha valore solamente antropocentrico; usare la cristologia per fare guerra alla trinità ontologica è dimostrazione di povertà di pensiero cristiano! Usare il nome di Cristo per attaccare il Dio Trino è una strana procedura e una strategia perversa. Contro tutto questo la cristologia dell’ortodossia cristiana, che Van Til spiega coerentemente, è la sola effettiva salvaguardia.

Con John A. Mackay si vede chiaramente cosa presupponga la nuova cristologia: un concetto di essere indifferenziato in cui partecipano Dio, l’uomo, e tutta la creazione, e la salvezza diventa corrispondenza e partecipazione. Gesù è quindi di fatto divino, ma tale è anche l’uomo poiché partecipa nell’essere. Come lo esprime Mackay: “La redenzione, la partecipazione dell’uomo nella vita di Dio, è scoperta dal cercatore essere il significato e l’obbiettivo della verità biblica” [10].

Gesù Cristo ha detto, non con cotante parole ma implicitamente, che la realtà è gerarchica … Ciò significa che nell’universo si ha una gradata scala dell’essere. Si ha Dio, si ha l’uomo, si hanno gli animali, si ha la materia; si hanno anche gli spiriti, angelici e satanici. C’è una natura gerarchica delle cose in cui si raggiunge il vero ordine quando l’inferiore dà obbedienza al più alto [11].

Nei termini di ciò, egli può parlare di “Voglia di unità di Dio” nel cristianesimo ecumenico perché l’intero obbiettivo dell’universo è di raggiungere l’unità dell’essere, e Gesù Cristo ha chiuso il “grande divario” nell’universo [12]. Il risultato di tutto questo, tanto con Mackay che col seminario di Princeton, è “un vago misticismo in cui Dio non è Dio, l’uomo non è uomo, e Cristo non è Cristo” [13]. E niente altro può venire da tale concetto dell’essere. Il solo fondamento per la dottrina biblica di Cristo è il concetto biblico del Dio autonomo. La nuova cristologia conduce direttamente dentro al vuoto dell’essere indifferenziato da cui è venuta.

Note:

1 Karl Barth: The Knowledge of God and the Service of God; p. 83 s. (Scribner’s). Vedi anche Barth: Christ and Adam, Man and Humanity in Romans 5.
2 C. Van Til: The New Modernism, p. 346. Sembra quasi inutile aggiungere che quanto suddetto è l’esposizione di Van Til della posizione di Barth, non della propria. Tuttavia, in questo malinteso è incorso Berkouwer. Nel suo De Triomf Der Genade in de Theologie Van Karl Barth, p. 300 e nell’edizione inglese The Triunph of Grace in the Theology of Karl Barth. p. 391, egli accusa Van Til di teologia Nestoriana. Ma Berkouwer basa questa opinione, citata nel testo originale, su una dichiarazione di Van Til in Has Karl Barth become Orthodox?, pp. 160, 162, in cui scambia l’affermazione di Van Til dell’opinione di Barth come fosse la convinzione di Van Til! È desolante che Berkouwer sia stato così sensibile a un paio di frasi in Van Til, male interpretate, mentre così insensibile a volumi in Barth!
3 E. Brunner: The Mediator, pp. 153 s., 308, nota: citato in Van Til, op. cit., p. 180 s.
4 E. Brunner, Ibid., p. 162, in Van Til, Ibid., p. 182.
5 Van Til: Ibid., p. 227.
6 R. Niebuhr: The Nature and Destiny of Man, II, p. 50. (Scribner’s).
7 C. Van Til: The Defense of the Faith, p. 32 s.
8 G. C. Berkouwer: The Triumpg of Grace in the Theology of Karl Barth, p. 391 (Eerdman’s).
9 Daane, op. cit., p. 25.
10 John A. Mackay: A Preface to Theology, p. 66.
11 John A. Mackay: in The Princeton Seminary Buletin, Winter, 1950.
12 John A. Mackay: God’s Order, p. 82, e A Preface to Chirtian theology, p. 17, citato in Van Til, Manoscritto “Dimensionalism of the Word”.
13 Van Til, op. cit.


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