15. 4. Con quale criterio?

 

La crisi della storia presente è il collasso della dottrina dell’uomo prevalente nella cultura occidentale a partire dal Rinascimento, un concetto che si è stabilito non solo in Europa e Nord America, ma è sempre più prevalente in tutto il mondo. Questa dottrina, dichiarando che l’uomo è la misura di tutte le cose, dalla dottrina biblica dell’uomo creato ad immagine di Dio, lo ha ridotto all’uomo l’animale economico. Uno degli aspetti più infelici di questa crisi è la crescente irrilevanza della chiesa cristiana e della teologia nei confronti della crescente crisi dell’uomo. La chiesa ha parlato per innumerevoli generazioni, ma diventa sempre più ovvio che la chiesa ha parlato a se stessa. Questa situazione si è potuta discernere in modo speciale nei circoli riformati. È difficile evitare la conclusione che la teologia riformata si sia trovata a indulgere in un monologo che non ha ascoltatori esterni, che si sia trovata a giocare una partita di solitario, e si sia sempre più isolata da ogni contatto col mondo. Perché questa irrilevanza in teologia? Perché questo isolamento del pensiero riformato? Perché la crescente indifferenza del mondo verso la teologia, e in una certa misura, un’indifferenza della teologia nei confronti del mondo?

La crisi dell’uomo moderno, quanto la crisi della teologia, si può in gran misura rintracciare nella mancanza di un adeguato criterio. Il concetto di uomo economico è crollato perché l’uomo ha trovato che per la  vita sia un criterio inadeguato. L’uomo non può vivere di solo pane e il crescente fermento della società moderna testimonia questa verità. In quelle aree dove l’uomo economico ha maggiormente trionfato, come nella moderna cultura americana, insoddisfazione, inquietudine e disturbi mentali testimoniano sempre più della sua impotenza  e del riconoscimento che non può vivere di solo pane. L’uomo secolare moderno si è scoperto essere privo di un criterio. D’altro lato, la teologia è stata priva di un criterio per valutare la situazione ed ha dimostrato la sua mancanza di un concetto basilare per la comprensione del mondo nella sua crescente irrilevanza ed impotenza nel trattare con quei problemi che erano posti da sociologia, biologia, filosofia, e ogni altro aspetto e sfera della vita contemporanea. Pertanto, la domanda fondamentale è questa: con quale criterio comprenderemo la situazione presente? Con quale criterio affronteremo i problemi della vita contemporanea? Con quale criterio la teologia governerà se stessa?

Questo problema mi è di particolare pertinenza in quanto tormentava il mio pensiero ai tempi dell’università. Non si trattava di una mancanza di retroterra cristiano, né di una mancanza di conoscenza delle Scritture, ma una mancanza di teologia e di direzione teologica che mi rendeva impotente di fronte alla scena contemporanea. Nel corso del mio ragionare fu il libro di Giobbe a dare direzione alla mia teologia. Il libro di Giobbe fece di me un calvinista. Il libro di Giobbe mi rese chiaro con quale criterio dobbiamo comprendere il tutto della vita. Il libro di Giobbe perciò è significativo per la scena contemporanea perché tratta precisamente con questo problema del criterio, della misura, del metro o righello mediante il quale l’uomo può comprendere.

Nel libro di Giobbe troviamo un problema che è comune nell’esperienza umana.  Mentre ciò che è posto per noi nel libro è una prova particolare e speciale dell’uomo Giobbe, pur tuttavia l’esperienza che vi si trova può essere duplicata nella vita di innumerevoli persone. Molte persone pie sono state afflitte come fu afflitto lui, hanno visto il lavoro di una vita dissolversi per una catastrofe, hanno visto il malvagio prosperare mentre loro sono stati abbassati, umiliati e distrutti, hanno gridato con  lui in agonia di spirito e amarezza e si sono fatti domande sulle vie di Dio che hanno permesso che tali cose avvenissero. La conclusione che Giobbe dunque raggiunse quando comprese il criterio di Dio nel trattare con lui e con tutti gli uomini, diventa specialmente rilevante per la nostra generazione. Quando Giobbe dapprincipio fu abbassato, si trovò spogliato di tutti i suoi possedimenti, la famiglie distrutta, e lui stesso ammalato tanto nel corpo quanto nell’anima, la sua reazione fu una di fede: “e disse: ‘Nudo sono uscito dal grembo di mia madre e nudo vi ritornerò. L’Eterno ha dato e l’Eterno ha tolto. Sia benedetto il nome dell’Eterno’. In tutto questo Giobbe non peccò e non accusò DIO di alcuna ingiustizia” (Gb. 1:21-22).

 

Successivamente, quando la moglie di Giobbe vide la sua malattia e la sua completa miseria, il suo giudizio della situazione fu brutale e diretto: “‘Rimani ancora fermo nella tua integrità? Maledici DIO e muori!’. Ma egli le disse: ‘Tu parli come parlerebbe una donna insensata. Se da DIO accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare anche il male?’. In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra” (Gb. 2:9-10).

Così troviamo Giobbe in una situazione non insolita nella storia, una situazione che può meglio essere definita comune, e noi troviamo Giobbe che accetta la volontà di Dio con fede — con fede ma non con comprendimento.  La conversazione di Giobbe coi suoi amici rivela una fede ardente, un’incrollabile fiducia in Dio, ma insieme ad essa, una mancanza di comprensione. Perché Dio lo aveva trattato in quel modo? Dove si trova la giustizia di Dio? Ancora una volta troviamo nei tre amici di Giobbe la fede ma non l’intendimento. Nei discorsi dei tre amici di Giobbe troviamo molto che è commendabile, molto che rivela fede e intuizione, ma anche una basilare mancanza di comprensione del criterio di Dio, manca il criterio mediante il quale l’uomo ha da discernere tutte le cose  e in quella mancanza sta il basilare conflitto tra Giobbe e i suoi amici. I tre amici argomentarono con Giobbe che l’afflizione è sempre il risultato del peccato. Giobbe era turbato proprio da questa questione: “Perché il giusto soffre e il malvagio prospera?” Giobbe trovava difficile comprendere perché un Dio giusto permettesse che un uomo giusto soffrisse così dolorosamente. Non è insolito trovare uomini che protestano contro il corso della storia del mondo sulla base dell’osservazione che questa sembra rappresentare il trionfo del male. Durante il corso della prima guerra mondiale, il critico teatrale William Archer dichiarò che se ci fosse stato un Dio non ci sarebbe stata alcuna guerra. Sfidò l’esistenza e la giustizia di qualsiasi Dio fosse esistito additando gli orrori di quella guerra. La questione che propose era di facile risposta: il salario del peccato è, è stato, e rimarrà la morte. Le speranze peccaminose dell’uomo sono costantemente frustrate; tale è il piano e la provvidenza di Dio. Il corso della storia è quello che è precisamente perché c’è un Dio di giustizia. L’uomo non può vivere per se stesso, con tutta la dissolutezza che la storia rivela, e aspettarsi di raccogliere altro che tempesta, e  il corso della storia umana rivela che le stelle nel loro corso combatterono contro Sisera e continuano a combattere contro ogni tiranno, contro ogni nazione, contro ogni popolo il cui corso sia incurante della giustizia e incurante di Dio e dell’uomo. Non sono le guerre, né i disastri economici, né i grandi movimenti della storia a costituire un problema per la fede. Tali cose sono una verifica della nostra fede per il fatto che testimoniano della realtà del salario del peccato e del fatto delle sue conseguenze. Ciò che costituisce un problema per la fede è il problema di Giobbe: perché il giusto soffre, perché persone buone perdono il loro unico figlio nel corso della guerra, un figlio pio; perché le povere vedove sono oppresse e derubate; perché gli uomini giusti sono abusati, sollevati dal loro incarico e pubblicamente messi alla gogna per peccati non loro; perché il giusto soffre? La sofferenza di Giobbe pertanto portò in primo piano nella sua mentalità una questione teologica basilare che è rilevante in ogni epoca: come possiamo comprendere le opere di Dio; con quale criterio si può comprendere il corso degli eventi umani?

L’immediata reazione di Giobbe fu di lagnarsi della sua nascita. Maledì il giorno in cui nacque, espresse il desiderio di non essere mai nato o di essere stato abortito e dichiarò che per lui la vita era solo una maledizione. Allora Elifaz di Teman rispose a Giobbe in riprovazione: “Ecco tu ne hai ammaestrati molti e hai fortificato le mani stanche …Ma ora che il male succede a te, vieni meno; ha colpito te, e sei tutto smarrito. …Ricorda: quale innocente è mai perito, e quando mai furono distrutti gli uomini retti?” (Gb. 4:3, 5, 7). “Può un mortale essere più giusto di Dio? Può un uomo essere più puro del suo Fattore. Ecco, egli non si fida neppure dei suoi servi, e riscontra difetti persino nei suoi angeli; quanto più in quelli che abitano in case di argilla, il cui fondamento è nella polvere, e sono schiacciati come una tarma” (Gb. 4:17-19). Elifaz dichiarò inoltre che “la sventura non spunta dalla terra, né il dolore germina dal suolo” (Gb. 5:6 NR). “Io però vorrei cercare Dio, a Dio vorrei esporre la mia causa” (Gb. 5:8). Elifaz asserì il principio di causalità: le afflizioni non spuntano dalla polvere e il dolore non germina dalla terra; in altre parole, non sono senza scopo, senza causa, prive di significato. C’è in tutta la vita una rigida causalità, ed egli invita Giobbe a guardare nel suo passato e a comprendere che ci deve essere una causa particolare per la quale Dio lo ha punito. Gli uomini sono tutti peccatori, dichiara Elifaz, e magari Giobbe ha un qualche peccato particolare, qualche segreta ribellione che ha meritato questo particolare giudizio di Dio. Col presuppisto di Elifaz che questo è un mondo di causalità possiamo tutti concordare. Su nessun punto delle sue osservazioni Elifaz è chiaramente in errore; al contrario, la sua analisi è un’analisi di fede e manifesta un credo in un universo governato da leggi, e tuttavia Elifaz non comprende l’essenza del dramma di Giobbe. Giobbe risponde in una considerevole angoscia e afflizione di spirito. Egli sente che chiaramente tutto ciò che gli è accaduto proviene da Dio: “Infatti le saette dell’Onnipotente mi trafiggono, lo spirito mio ne succhia il veleno” (Gb. 6:4). Tanto Giobbe che i suoi tre amici sono completamente d’accordo che Dio sia l’assoluto sovrano e che tutti gli eventi abbiano la loro origine nella volontà di Dio. Potremmo dichiarare che la teologia di base di tutte le persone coinvolte è riformata o calvinista per il fatto che la sovranità di Dio è chiaramente riconosciuta da ciascuno di loro e la causalità divina è riconosciuta in tutti gli eventi. Dietro a tutte le seconde cause essi vedono la mano di Dio e la provvidenza di Dio.

Ma Giobbe protesta contro questa attività di Dio dichiarando: “Sono io forse il mare o un mostro marino che tu ponga intorno a me una guardia?” (Gb. 7:12). Sono forse una minaccia per la società degli uomini? Sono forse una minaccia ai propositi di Dio che questa speciale vendetta dev’essere eseguita su di me? Giobbe non discute la propria peccaminosità: “Se ho peccato, che ho fatto a te, o guardiano degli uomini? Perché hai fatto di me il tuo bersaglio a tal punto che sono divenuto un peso a me stesso?” (Gb. 7:20). Pertanto, Giobbe riconosce di essere un peccatore come lo sono tutti gli uomini. Riconosce che la sua giustizia proviene da Dio; riconosce la mano di Dio in tutti gli eventi. Il suo problema è questo: Perché questo particolare giudizio su di sé; perché il giusto dovrebbe soffrire; con quale criterio può comprendere queste attività di Dio? Bildad di Suac parla senza mezzi termini contro gli interrogativi di Giobbe: “Potrebbe Dio pervertire il giudizio? Potrebbe l’Onnipotente pervertire la giustizia?” (Gb. 8:3). “Se proprio sei puro e integro, certo egli sorgerà in tuo favore e restaurerà la tua giusta dimora” (Gb. 8:6). “ Ecco, Dio non rigetta l’uomo integro né presta aiuto ai malfattori.” (Gb. 8:20). L’assunto di Bildad è netto: il Signore non può essere ingiusto — perciò, in difetto è l’uomo. O è giusto Giobbe o è giusto Dio, e poiché Dio non può essere dichiarato ingiusto, ne consegue che in difetto deve essere Giobbe: Giobbe è ingiusto. Contro questo argomento Giobbe si sente impotente: “Sì, certo, io so che è così; come potrebbe il mortale essere giusto davanti a Dio?” (Gb. 9:2). Egli vede la maestà e la sovranità di Dio creare “l’Orsa, di Orione, delle Pleiadi e delle misteriose regioni del cielo australe. Egli fa cose grandi e imperscrutabili, meraviglie innumerevoli” (Gb. 9:9, 10). “Se io fossi senza colpa, la mia bocca mi condannerebbe; se fossi innocente, mi dichiarerebbe colpevole. … Per me è la stessa cosa! Perciò dico: ‘Egli distrugge ugualmente l’integro e il malvagio’. … La terra è data in balìa dei malvagi; egli vela gli occhi ai giudici di essa; se non è lui, chi è dunque?” (Gb. 9:20, 22, 24). Giobbe non mette in discussione la giustizia di Dio. La domanda che solleva è: come dobbiamo comprendere le opere di Dio; come dobbiamo comprendere i propositi di Dio; come dobbiamo comprendere la storia? Certamente Dio è giusto, e se un uomo osa giustificarsi contro Dio, la sua stessa bocca lo condannerà. Ma Giobbe insiste: mentre Dio punisce e distrugge i malvagi, egli distrugge e punisce anche i giusti. Sembra non esserci un criterio di discriminazione tra i due. Giobbe richiama l’attenzione al fatto che è così ovvio per tutte le persone pensanti: è vero che i malvagi a volte soffrono e vengono puniti, ma nello stesso modo in cui soffrono e sono puniti molti uomini pii e giusti. La storia è una scia di lacrime versate da uomini giusti, uomini pii cui tutto è strappato via. Le pagine della storia sono state insanguinate da martiri, da umili santi che sono stati sottoposti ad un trattamento di natura inenarrabile, la cui vita e i cui beni sono stati dati in preda al male. Il problema di Giobbe è reale, e solo il sillogismo teologico dei suoi amici impedisce loro di vederlo.

Giobbe perciò sollevò la questione: che differenza c’è nell’essere buono o cattivo, nell’essere giusto o nell’essere malvagio? “Se avessi peccato, l’avresti ben tenuto a mente e non mi avresti assolto dalla mia iniquità. Se fossi stato malvagio, guai a me! Se giusto, non avrei osato alzare la fronte, sazio d’infamia, spettatore della mia miseria” (Gb. 10:14-15). La confusione di Giobbe è dunque cruciale. Che differenza c’è tra il giusto e l’ingiusto? Che differenza fa nel corso della vita di un uomo se ambedue sono trattati da Dio apparentemente senza considerazione per la loro condizione? La sfida di Giobbe era scandalosa per i suoi amici. Zofar di Naama chiede: “Questa abbondanza di parole rimarrà forse senza risposta? Basterà quindi essere loquace per avere ragione? … Puoi forse scandagliare le profondità di Dio, arrivare a conoscere appieno l’Onnipotente? Si tratta di cose più alte del cielo; tu che faresti? Di cose più profonde del soggiorno dei morti; come le conosceresti? … Ma l’insensato diventerà saggio quando un puledro d’onagro diventerà uomo” (Gb. 11:2, 7, 8, 12). Ancora una volta Zofar sfida la giustizia di Giobbe, lo invita a confessare e alla santità dichiarando che, se la sua vita fosse pura, “Ti metterai a dormire e nessuno ti spaventerà; e molti cercheranno il tuo favore” (Gb. 11:19). La dottrina di Zofar è comune nella nostra generazione. È un’evasione del problema intellettuale nel nome della fede. Zofar rifiuta d’accettare la sfida di accertare con quale criterio possiamo comprendere i problemi della vita e il problema del male e dichiara invece che tutte queste cose debbano essere accettate con fede ignorante perché, siccome l’uomo è incapace di scoprire l’Onnipotente alla perfezione, non deve quindi esserci alcun tentativo di comprendere intellettualmente i problemi della teologia. Contro una tale sapienza Giobbe giustamente protesta. Di nuovo pone il problema: “Sono invece tranquille le tende dei ladroni, e sono al sicuro quelli che provocano Dio” (Gb. 12:6). Giobbe pone i problema del male e acutizza il problema asserendo la sovranità di Dio. “Ma interroga ora le bestie e ti istruiranno, gli uccelli del cielo e te lo diranno. O parla alla terra, ed essa ti istruirà, e i pesci del mare te lo racconteranno. Fra tutte queste creature chi non sa che la mano dell’Eterno ha fatto questo?” (Gb. 12:7-9). C’è un problema del male precisamente perché Dio è sovrano, e poiché c’è un problema del male, e il problema è così basilare per la vita quotidiana dell’umanità, una risposta intellettuale deve essere prevista. Questa risposta non è un sostituto per la fede ma una necessità per qualsiasi fede che sostenga la sovranità di Dio.

Giobbe rende la propria fede assolutamente chiara: “Ecco, uccidami egli pure, sì, spererò in lui, tuttavia difenderò in faccia a lui la mia condotta” (Gb. 13:15 Diodati 1600, KJV, ecc.). Giobbe non rivendica mai perfezione o assenza di peccato, però sfida Dio a far sapere perché egli sia stato il soggetto di tale speciale vendetta, perché il male in tale forza speciale è stato rilasciato contro di lui. Egli afferma chiaramente la dottrina del peccato originale: “Chi può trarre una cosa pura da una impura? Nessuno” (Gb. 14:4). Pertanto Giobbe vede chiaramente la questione teologica di base senza intaccare la dottrina della sovranità di Dio.

A quel punto segue un altro giro di argomenti nei quali gli amici di Giobbe ribadiscono il sillogismo che, siccome Dio è giusto, Giobbe deve essere in errore; pertanto Giobbe soffre a causa di una particolare peccaminosità da parte sua. Giobbe ammette di nuovo di essere peccatore, come lo sono tutti gli uomini, ma insiste che umanamente parlando non è peggio ma meglio di molti.

In questa situazione viene iniettato un altro argomento da un giovane, Elihu, il quale dichiara che precedentemente si era trattenuto dal parlare per la sua giovinezza. Con la tipica impazienza dei giovani, egli accantona gli argomenti dei suoi anziani solo per riaffermare essenzialmente la loro posizione. Egli fraintende la posizione di Giobbe  nel dichiarare: “Tu però hai detto alle mie orecchie, e ho udito il suono delle tue parole, che dicevano: Io sono puro, senza peccato, sono innocente, non c’è in me alcuna colpa. Ebbene, io ti dico che in questo non hai ragione, perché Dio è più grande dell’uomo” (Gb. 33:8, 9, 12). La soluzione di Elihu al problema è in parte questa, ovvero che non tutta la sofferenza è sempre una punizione per il peccato, che spesso è correttiva, mandata da Dio per rafforzare e purificare i suoi figli. “Ecco. Dio fa tutto questo due volte, tre volte con l’uomo, per scampare la sua anima dalla fossa e per illuminarlo con la luce della vita” (Gb. 33:29-30). Ancora una volta, come nel caso dei tre amici di Giobbe, questa dottrina è corretta quanto basta. Ma la vera dottrina non è una panacea che possa essere applicata a qualsiasi situazione. Una buona medicina non può essere applicata ad ogni patologia: la penicillina non è la risposta alla carie nei denti. È vero che Ebrei 12:8 dichiara che se non siamo corretti da Dio “allora siete bastardi e non figli”. Ma questo concetto è applicabile a tutte le situazioni? Se, per esempio, cadiamo da un albero e rompendoci il collo, moriamo, abbiamo imparato una lezione che abbia valore? Può essere chiamata un’azione con cui Dio manifesta la sua disciplina, il suo castigo? Che valore educativo può avere tale azione? Che valore educativo o disciplinare c’è in ogni evento che distrugge le persone; che le deruba del loro necessario, che le lascia completamente spogliate e impotenti? Non c’è dubbio che molto dei rapporti che Dio ha con noi sia per disciplina, ma applicare questo concetto al problema del male è evasivo. Pertanto gli amici di Giobbe ed Elihu diedero tutti della buona e pia consulenza, ma il loro consiglio non era applicabile in questo caso particolare.

La risposta al problema viene data, non da alcuno degli amici di Giobbe, ma dal Signore stesso, che risponde a Giobbe di mezzo alla tempesta: “Chi è costui che oscura il mio disegno con parole prive di conoscenza? Orsù, cingiti i lombi, come un prode; io ti interrogherò e tu mi risponderai. Dov’eri tu quando io gettavo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza. Chi ha stabilito le sue dimensioni, se lo sai, o chi tracciò su di essa la corda per misurarla? Dove sono fissate le sue fondamenta, o chi pose la sua pietra angolare, quando le stelle del mattino cantavano tutte insieme e tutti i figli di DIO mandavano grida di gioia?” (Gb. 38:2-7). Dio qui dichiara che i cieli e la terra sono stati creati prima di Giobbe, che i propositi creativi di Dio trascendono la vita di Giobbe e i propositi di Giobbe, che Giobbe non può aspettarsi che la provvidenza di Dio operi in termini di se stesso quando non solo la creazione ma il Creatore ha priorità su Giobbe. Continuando a rispondere a Giobbe il Signore parla di “far piovere su una terra disabitata, su un deserto, dove non c’è alcun uomo, per dissetare le solitudini desolate, e far germogliare e crescere l’erba?” (Gb. 38:26, 27). Questo è un punto sottile eppure significativo: questo è di fatto il punto centrale che Dio sta facendo contro Giobbe: la pioggia cade sulla terra non per i propositi dell’uomo ma per i propositi di Dio. Piove dove non c’è uomo e il germoglio dell’erba tenera spunta in luoghi ben al di là dell’occhio e della volontà dell’uomo. Pertanto le funzioni e gli scopi della natura trascendono la vita e la volontà dell’uomo, e se la natura trascende l’uomo nel suo funzionamento, quanto più l’Onnipotente trascende l’uomo nel suo proposito e nella sua volontà. Ulteriormente il Signore dichiara: “Il bufalo è forse disposto a servirti o a passare la notte presso la tua mangiatoia? Puoi forse legare il bufalo con la corda per arare nel solco, o erpicherà le valli dietro a te?” (Gb. 39:9-10). Ipotizziamo per un attimo che Giobbe avesse legato il bufalo per i propri scopi, o diamo un’occhiata per un attimo ai buoi nelle stalle della proprietà di Giobbe: il bufalo sulle colline o i buoi nelle stalle di Giobbe hanno il diritto di dichiarare che i propositi di Dio sono malvagi perché loro sono senza libertà? Perché il bufalo non ha più la sua pastura e il bue nella stalla deve lasciare il suo fieno per uscire a tirare l’aratro al comando di un servo, la natura delle cose è forse fuori posto? Perché un bue deve lasciare il suo fieno o un asino è battuto ingiustamente, è Dio ingiusto? Il proposito di Dio può essere messo in discussione quando un animale si trova in frustrazione? La domanda perciò è quella basilare: con quale criterio possiamo giudicare? Può la volontà del bue o di Giobbe essere il criterio con cui Dio viene giudicato? Possiamo mai assumere che qualsiasi cosa nella creazione, che qualsiasi essere creato, possa dichiarare che la struttura delle cose è fuori posto se i loro propositi o la loro volontà viene frustrata? Anch’io ho sofferto, non sempre giustamente: è Dio ingiusto perché io soffro? È il proposito di Dio malvagio perché Giobbe è spogliato di tutti i suoi possedimenti e della sua famiglia? Qual’è lo scopo della creazione, qual’è il criterio mediante il quale tutte le cose devono essere giudicate, qual’è la misura, il regolo di tutte le cose? Dio sfida Giobbe dichiarando: “Tu eri lì quando creavo tutte le cose?” Qual era lo scopo della creazione? Lo scopo primario di Dio è forse di glorificare l’uomo e godere di lui per sempre? O è invece lo scopo primario dell’uomo glorificare Dio e godere di lui per sempre? “Il metro, caro Giobbe” dichiara il Signore, “non è il tuo proposito. Non hai il diritto di dichiarare le cose fuori squadro come prive di senso o ingiuste nei termini della loro relazione a te perché tu non sei il metro. Non puoi dire: perché le cose mi intaccano in questo e quest’altro modo, allora l’intera struttura delle cose è fuori squadro”. Il metro non è Giobbe ma il Signore. E l’unico metro con cui le cose in cielo e sulla terra possono essere giudicate è il Signore e il suo proposito, la Trinità ontologica, il Dio sovrano in se stesso. Pertanto, ciò che Dio richiese a Giobbe fu che riconoscesse la sua sovranità in ogni ambito, che riconoscesse che il solo criterio per giudicare la sua propria vita personale e i suoi propri problemi non era in termini di se stesso ma in termini della sovranità di Dio, nei termini del Dio Trino in se stesso. Giobbe non poteva dichiarare di nessun evento nel corso della sua vita che questa cosa era sbagliata perché lo impressionava e influiva su di lui negativamente, perché tutti gli eventi nella vita di Giobbe potevano essere giudicati solo nei termini di un unico criterio: il proposito del Dio sovrano. Quando Giobbe riconobbe la veracità di queste cose il Signore benedisse il dopo di Giobbe più del prima.

Pertanto, non c’è comprensione del problema del male, o di qualsiasi problema che confronta l’uomo, da un punto di vista centrato sull’uomo. Giobbe e i suoi amici erano concordi sulla dottrina della sovranità di Dio, ma erano incoerenti nella loro fede per il fatto che affrontavano il problema del male da un punto di vista centrato sull’uomo. Dichiaravano che i modus operandi di Dio avrebbero dovuto essere determinati in termini dell’uomo, che la giustizia o l’ingiustizia dell’uomo, che il suo peccato o la sua rettitudine fossero il fattore determinante nel corso degli eventi e che perciò conseguenza, causalità, dovevano essere comprese meramente in termini della vita interiore dell’uomo. Dio dichiarò che tale modo di pensare è fallace e insistette che l’unico criterio valido è un criterio centrato su Dio; che nessun problema, il problema del male o qualsiasi altro problema, può essere compreso se non nei termini di una regola centrata su Dio, di una teologia Teo-centrica. Con che criterio, che misura, che metro, perciò, comprenderemo i problemi del nostro tempo, i problemi della teologia, i problemi della vita di chiesa? Il libro di Giobbe ci dà una risposta netta. Non c’è speranza se non in una teologia Teo-centrica. Con quale criterio? Il Dio trino in se stesso.

Abbiamo visto che Giobbe e i suoi tre amici condividevano una simile fede nella sovranità di Dio ma, quando affrontarono intellettualmente il loro problema del momento, furono incapaci di applicare in modo pratico la sovranità di Dio ai loro problemi ma cominciarono invece col problema del male visto da una posizione centrata sull’uomo. In apparenza non arresero la sovranità di Dio, ma in realtà pratica un approccio centrato sull’uomo implica una resa di quella sovranità. Il declino del calvinismo può essere compreso in termini simili. Il calvinismo in tempi di prova ha provato di volta in volta di essere un insuccesso. Ripetutamente chiese calviniste sono crollate, sono andate alla deriva dentro al Modernismo o sono sparite dalla scena ecclesiale. Il declino del calvinismo in America è stato tipico di questo sviluppo. Nei principali organismi Presbiteriani, PCUSA, la PCUS, e nelle Chiese Presbiteriane Unite, la tradizione riformata era chiara e inequivocabile: la Confessione di fede di Westminster, il Catechismo, erano insegnati e creduti, e tuttavia queste chiese hanno perso il loro carattere chiaramente calvinista. La Chiesa Presbiteriana negli USA, la chiesa di Hodge, Alexander e Warfield, è oggi neo-ortodossa nella sua teologia, e qualsiasi onesta analisi di quella situazione porterà a riconoscere che i semi del declino si trovano proprio nelle teologie di alcuni dei più illustri calvinisti della tradizione di Princeton. Quanto a fede erano chiaramente riformati, uomini studiati, uomini consacrati, uomini da rispettare, e tuttavia nelle loro applicazioni intellettuali della loro fede si persero perché tentarono di affrontare la sfida dell’uomo naturale cominciando su terreno comune, cominciando con gli assunti della ragione umana: cercarono di combattere Golia con l’armatura di Saul e hanno perso, perché Golia si combatte solo nella forza e nella potenza di Dio.

È precisamente a questa situazione che Van Til si rivolse con la sua filosofia della religione rigorosamente calvinista. Si tratta di uno sviluppo intellettuale delle implicazioni della fede calvinista. Storicamente il calvinismo si è affermato teologicamente e si è arreso filosoficamente. Questa posizione di resa è stata infelicemente definita filosofia calvinista ed ha prevalso virtualmente in ogni sfera di vita. Oggi si manifesta nelle critiche mosse a Van Til; tristemente le più accanite furono pubblicate sul Calvin Forum. Per uno che negli anni si è abbonato al Forum sperando di trovarci un criterio partorito dal calvinismo contro gli errori del giorno, ho trovato questo fatto particolarmente penoso. Il Calvin Forum è stato debole in tutti questi anni nella sua critica alle eresie dell’uomo moderno, nella sua critica di Modernismo, Socialismo, Comunismo, Ateismo, e nella sua critica all’insistenza dell’uomo moderno sull’autonomia della sua ragione. La sola occasione in cui il Calvin Forum si è espresso chiaramente e duramente è stato contro Van Til, rivelando con ciò il proprio difetto e manifestando di essere stato toccato sul nervo scoperto. La natura di questo attacco a Van Til si vede chiaramente anche in A Theology of Grace di James Daane. Il capitolo 7 intitolato “La Trinità Ontologica, il principio base d’interpretazione di Van Til” testimonia effettivamente del fatto che Van Til è filosoficamente calvinista per il fatto che il suo principio basilare d’interpretazione è la Trinità ontologica: il punto di partenza di tutta la filosofia cristiana. Eppure contro questo James Daane, un sedicente calvinista, protesta scrivendo: “Perché seleziona egli stesso un aspetto di Dio e lo esalta a principio più alto d’interpretazione per ogni problema? … Il mero riconoscimento della Trinità come universale concreto non provvede un principio d’interpretazione cristiano. Van Til trascurò questo fatto piuttosto ovvio quando scelse non la grazia di Dio né alcun’altra delle virtù di Dio, né tutte le virtù di Dio, e nemmeno Cristo stesso, ma il principio dell’uno e dei molti come il suo principio d’interpretazione più alto per qualsiasi e per tutti i problemi della storia”. Qualsiasi teologia che richieda che il principio d’interpretazione sia una o tutte le virtù di Dio stabilisce il valore come valore ultimo anziché la Trinità ontologica. E qualsiasi teologia che cerchi come proprio principio d’interpretazione Cristo anziché il Dio Trino cerca di ridurre Dio alla sua relazione con l’uomo anziché stabilire Dio in se stesso come il principio basilare d’interpretazione. L’Esistenzialismo nega Dio in se stesso, la Trinità ontologica, e riconosce Dio solo nella sua relazione con l’uomo, e qualsiasi critica adeguata dell’esistenzialismo deve cominciare con la Trinità ontologica.

Daane fa due cose che rivelano chiaramente la sua ostilità nei confronti della dottrina riformata. Nega che il consiglio di Dio includa la doppia predestinazione, ovvero ambedue la riprovazione e l’elezione. Dio elegge solamente; egli non decreta la riprovazione. Pertanto Dio non determina tutte le cose. La sovranità di Dio è con ciò accantonata. Poi, Daane insiste che Adamo avesse la libertà in un senso ultimo e finale, d’obbedire o disobbedire il comandamento di Dio. La conclusione è ovvia: la sovranità di Dio viene limitata per rendere assoluta la libertà di Adamo. Questa è la dottrina dell’uomo autonomo, più pericolosa nella sua veste teologica che nella sua ovvia onestà nell’esistenzialismo di Sartre.

Tutti i critici di Van Til sperano di venire incontro all’incredulità dell’uomo moderno cercando con lui un terreno comune, e il terreno comune  è l’insistenza dell’uomo moderno sulla sua autonomia. Da questo sperano di sviluppare una filosofia cristiana. Ma, secondo la Scrittura, il terreno comune tra gli uomini non deve mai essere fatto derivare dal tentativo dell’uomo di essere il proprio dio, ma dal fatto della creazione. Non la sapienza dell’uomo naturale ma la sapienza di Dio è il nostro punto di partenza, e uno inevitabile per il non-credente quanto per il credente poiché “ciò che si può conoscere di Dio è manifesto in loro (o, a loro), perché Dio lo ha loro manifestato (o, rivelato)” (Ro. 1:19). Questo è il terreno comune di Van Til anziché qualsiasi ragionamento autonomo preteso valido. Masselink, Cecil de Boer; Orlebeke e Van Halsema vogliono tutti concedere all’uomo la validità del suo pensiero per poterlo convertire; cominciano con un approccio centrato sull’uomo, centrato sui fatti, o centrato sulle idee e sperano con ciò di istituire della fede cristiana. Ma la sovranità di Dio non è mai appurata concedendo validità alla rivendicazione dell’uomo alla sovranità. L’impotenza degli amici di Giobbe nel trattare col problema del male fu più evidente quando confrontarono un uomo in sofferenza. L’impotenza delle apologetiche tradizionali che cominciano con la filosofia e la ragione dell’uomo naturale, è stata evidente nella storia del pensiero cristiano. Convincono solo cristiani già convinti, e non possono parlare all’uomo naturale. Inevitabilmente conducono anche i cristiani dentro una teologia traviata.

I critici di Van Til dicono che bisogna cominciare coi fatti, o con l’universo, con la ragione, con la libertà dell’uomo, o con l’ultimità del caso. Ciò con cui cominciamo è in definitiva tutto ciò in cui crediamo. Il nostro dato, il nostro punto di partenza, è in definitiva tutto ciò che il nostro universo permette d’avere. Se cominciamo con l’uomo, finiamo con l’eliminare Dio nella misura in cui egli sia offensivo per la libertà e l’autonomia dell’uomo. Se cominciamo con il caso come ultimo in ogni rispetto, stabiliamo con ciò il caso come supremo su Dio. Se cominciamo con la cruda fattualità, in definitiva tutto ciò che il nostro universo contiene è cruda fattualità. Se l’universo è il nostro punto di partenza, allora l’universo è anche il nostro punto d’arrivo, e se la ragione e la libertà dell’uomo è il nostro “dato” è anche il nostro dio. Dovunque troviamo, in qualsiasi istituzione cristiana, un enfasi su una teologia razionale, qualche spirito di critica, che sia in letteratura o altrove, che stabilisce la dicotomia di forma e materia, abbiamo non filosofia cristiana dell’istruzione ma una filosofia aristotelica o tomista.

Van Til, in quanto calvinista coerente, comincia con Dio, il Dio Trino, in ogni ambito di pensiero umano e insiste che solo la Trinità ontologica, Dio in se stesso, può essere il punto di partenza cristiano per la filosofia. Per Van Til non esistono crudi fatti, vale a dire che nulla esiste in se stesso e da se stesso e tutto può essere compreso veramente solo in termini del Dio Trino e della sua volontà e proposito creativo: perciò è impossibile fare dei crudi fatti, dell’universo, della ragione, della libertà dell’uomo, o di qualsiasi altra cosa, il nostro punto di partenza perché nessuna di queste cose esiste in e da se stessa, sono tutte comprensibili solo in termini del Dio Trino. Siccome tutte le cose sono comprensibili sono in termini del Dio Trino, solo il Dio Trino, la Trinità ontologica, può essere il punto di partenza per la filosofia cristiana.

Giobbe e i suoi amici affermarono la loro fede nella sovranità di Dio, la affermarono in maniera ben più coerente della maggior parte dei moderni cristiani riformati, e tuttavia tutti loro si provarono lacunosi nella loro fede e sotto il giudizio di Dio perché nel loro modo di pensare — nella loro filosofia— affrontarono i problemi della vita e, specificamente, il problema del male, da un punto di vista centrato sull’uomo. Avevano cominciato con l’uomo anziché con Dio e pertanto non potevano rendere ragione al problema del male, della sofferenza, del peccato, né potevano rendereragione della provvidenza che non era altro che offensiva perché il loro punto di partenza era centrato sull’uomo. Come risultato furono giudicati da Dio e fu loro richiesta la preghiera d’intercessione di Giobbe.

La questione è la stessa oggi. Qual’è in nostro criterio; con quale criterio affrontiamo i problemi della filosofia e i problemi della vita di ogni giorno? Se cominciamo con qualsiasi cosa altra dalla Trinità ontologica, con la sovranità di Dio applicata intellettualmente e delineata sistematicamente in ogni aspetto e ambito di pensiero umano, finiamo con la distruzione della teologia cristiana e il deterioramento della vita cristiana. Dio dichiara agli amici di Giobbe e a Giobbe stesso: “Chi è costui che oscura il mio disegno con parole prive di conoscenza?”. Proseguì dicendo a tutti gli effetti: Io ho fatto tutte le cose e prima di tutte le cose IO SONO, può qualsiasi cosa essere compresa senza di me? Con quale criterio, con quale criterio avete osato approcciare il problema della vita? Qualsiasi criterio, altro dalla Trinità, dal Dio trino in sé, è un’offesa contro Dio e la distruzione della fede e della vita cristiane. Il solo criterio che può essere offerto a questo mondo di peccato, il solo criterio a cui il calvinismo coerente può aderire è il Dio Trino, la Trinità ontologica. Chiunque attacchi questo criterio sta attaccando la sovranità di Dio; nessun linguaggio ambiguo può nascondere questo fatto. Esplicitamente o implicitamente, consciamente o inconsciamente, tutti quelli che attaccano questo punto di partenza in filosofia essenzialmente attaccano la sovranità di Dio per poter asserire la sovranità dell’uomo. Il peculiare veleno che Van Til ha suscitato con la sua gentile, affabile e coerente filosofia si spiega solo in questi termini: egli ha messo a nudo il fatto che essenzialmente in molto del pensiero riformato prevale la sovranità dell’uomo anziché la sovranità di Dio. La parola di Dio, ove predicata fedelmente, e la parola di Dio ove fedelmente spiegata ed applicata nella predicazione, in teologia e in filosofia suscita gioia o suscita ostilità. Storicamente  l’ostilità il più delle volte si è manifestata come un’apparente difesa della fede. Infatti l’opposizione stessa di Satana a Cristo si manifesta in forma di anticristo, un finto Cristo, un preteso Cristo offerto agli uomini come il vero mezzo di salvezza. Contro tutti gli attacchi alla sovranità di Dio, contro tutte tali resistenze al Dio trino, a Dio in Sé, come punto di partenza di tutta la teologia, filosofia e vita, anche se significa la separazione tra fratello e fratello il nostro criterio deve essere questo stesso: che “a Dio solo appartiene il dominio”. Questo è il nostro grido calvinista di battaglia.

Noi cristiani abbiamo dimenticato ciò che i santi di un tempo sapevano fin troppo bene, che l’anticristo opera da dentro la chiesa e che ha la sua influenza su di noi ogni qual volta e ogni dove arrendiamo la pienezza della fede su qualsiasi punto di vita o di dottrina. Nelle sagge parole dei santi di secoli passati: “Supponendo che l’Anticristo e tutti i suoi adepti venissero soggiogati, cosa ci gioverebbe se abbiamo un anticristo nel nostro corpo?” L’intero consiglio di Dio deve essere affermato e, poiché il nostro Dio è un Dio tanto di sovranità che di grazia, la sua misericordia deve essere estesa a fratelli in errore nella misura in cui questo sia possibile, senza arrecare danno alla disciplina della chiesa, che Dio possa essere manifestato per mezzo nostro sia nella sua gloria che nella sua grazia. Gioire dell’ostinato smarrimento o del peccato di qualcun altro, o usarli a nostro vantaggio, è dare all’anticristo una vittoria nella vita mentre apparentemente noi ne guadagniamo una in dottrina. Possa Dio concedere alla sua chiesa tanto fermezza che grazia nel trattare con fratelli ostinati: ambedue sono indispensabili, e noi siamo chiamati ad adorare Dio e a rivelarlo tanto nella sua maestà che nella sua misericordia. Noi dobbiamo contendere ardentemente per la fede e anche, come Giobbe, pregare per i nostri fratelli in errore. 


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