CAPITOLO SETTE
Lo Stato, il Peccato e la Giustizia
Come abbiamo visto precedentemente, il filosofo dell’educazione Harold O. Rugg disse nel 1955 che “Lo Zio Sam” dovrebbe essere “occupato a convertire se stesso in Zio Salvatore” [1]. Questa affermazione del carattere salvazionista dello stato fu affermata in modo forte per primo dal Presidente Woodrow Wilson, e a partire dai lunghi anni di Franklin Delano Roosevelt, è stata fondamentale nella politica Americana estera e interna. È stata pure la premessa di altri stati, specialmente di quelli Marxisti.
Lo stato moderno ha un fondamento morale, ma non è un fondamento Cristiano. Anzi, è piuttosto enfaticamente umanistico. Come Quigley notò riguardo all’establishment Inglese e Americano: “Le loro radici erano da trovarsi nell’antica Atene piuttosto che nella moderna Manchester” [2]. In altre parole, le radici dell’ordine umanistico non erano nella realtà economica, vale a dire a Manchester, né nel libero mercato. Non erano nemmeno nella fede Biblica. Questi statisti intesero se stessi nei termini della Repubblica di Platone. La loro ostilità fu rivolta contro “Le tenebre della legge teocratica”, in altre parole la legge Biblica [3]. Presero in prestito la forma del loro funzionamento in qualche modo vagamente dai Gesuiti [4].
In ogni caso, lo stato moderno vede se stesso in termini messianici e come salvatore dell’uomo. La pianificazione statale è il sostituto per la predestinazione di Dio; i programmi previdenziali dello stato hanno operato a soppiantare la carità Cristiana, e lo stato considera se stesso la nuova agenzia di provvidenza, rimpiazzando Dio.
Nelle Scritture lo stato ha un ministerio specifico, il ministerio della giustizia (Ro.13,1). Il suo posto nel piano di Dio è tanto reale quanto limitato. Lo stato deve essere il servo del Messia, lo stato moderno ha fatto se stesso messia. Nel fare questo ha ripudiato il cristianesimo e la storia del cristianesimo in favore dell’antico paganesimo. Roma vide se stessa come sviluppante l’ordinamento ultimo, inclusivo di dei, uomini e dell’universo. Secondo Seneca, in Ad Marciam (XVIII, i) “Tu stai per entrare in una città condivisa da dèi e da uomini, una città che abbraccia l’universo che è legato da leggi fissate ed eterne” [5]. Questo ordine cosmico ideale doveva essere il bene dello stato. Roma era la Grande Città in processo di sviluppo e poteva perciò essere chiamata da Cicerone (Filippiche, IV, vi, 14) La luce del mondo, il guardiano delle nazioni” [6]. Roma doveva diventare la città della Giustizia: “Appartenente a tutta l’umanità”, afferma Mazzolani [7]. Il suo ruolo era perciò la salvezza. Cicerone, (Filippiche, V, xviii, 49) disse di Ottaviano: “In lui poniamo le nostre speranze di libertà, da lui abbiamo già ricevuto salvezza” [8].
Nei fatti, tuttavia, Roma divenne il trionfo dell’oppressivo collettore di tasse. Un’incursione barbarica e una visita del collettore di tasse furono entrambe elevate al rango di disastri, fino a quando l’uomo delle tasse divenne il male peggiore e alla fine nessuno credé che valesse difendere Roma. Quando avvenne il sacco di Roma nel 410 d.C. per mano dei Visigoti nessun danno irreparabile fu arrecato agli edifici. Roma declinò da grande metropoli a piccola città perché era bancarotta. I cristiani spesso sostenevano che la caduta di Roma fosse una necessità morale, e qualcuno diceva che il Signore non sarebbe ritornato finché non fosse caduto l’Impero [9]. In questo modo Roma, che si era presentata come la speranza e la luce del mondo, nel tempo divenne anatema a tutti gli uomini e disertata da tutti. Lo stato moderno, rincorrendo lo stesso corso messianico è volto allo stesso destino.
Nel 40 d.C. l’imperatore Caligola ordinò che la sua statua fosse posta nel tempio a Gerusalemme. L’intero mondo Giudaico reagì con orrore. Prima che l’ordine potesse essere eseguito Caligola fu assassinato. Nel 52-53 d.C. Paolo scrisse le sue lettere ai Tessalonicesi. In II Tessalonicesi 2, 3-10, dice:
3. Nessuno vi inganni in alcuna maniera, perché quel giorno non verrà se prima non sia venuta l’apostasia e prima che sia manifestato l’uomo del peccato, il figlio della perdizione,
4. l’avversario, colui che s’innalza sopra tutto ciò che è chiamato dio o oggetto di adorazione, tanto da porsi a sedere nel tempio di Dio come dio, mettendo in mostra se stesso e proclamando di essere Dio.
5. Non vi ricordate che, quando ero ancora tra voi, vi dicevo queste cose?
6. E ora sapete ciò che lo ritiene, affinché sia manifestato a suo tempo.
7. Il mistero dell’empietà infatti è già all’opera, aspettando soltanto che chi lo ritiene al presente sia tolto di mezzo.
8. Allora sarà manifestato quell’empio, che il Signore distruggerà col soffio della sua bocca e annienterà all’apparire della sua venuta.
9. La venuta di quell’empio avverrà per l’azione di Satana, accompagnata da ogni sorta di portenti, di segni e di prodigi bugiardi,
10. e da ogni inganno di malvagità per quelli che periscono, perché hanno rifiutato di amare la verità per essere salvati.
Secondo Caird, Paolo ha in mente l’episodio di Caligola [10]. Paolo vide nella pazzia di Caligola la demenza ed il male di uno stato empio.
Il peccato basilare e originale dell’uomo è di voler essere un dio, determinando o conoscendo da sé il bene ed il male (Ge. 3, 5). Questo peccato fondamentale, che è peccato nella sua essenza, non si manifesta solo nell’uomo ma anche nelle sue istituzioni. Durante la maggior parte della storia lo stato è stato l’istituzione centrale dell’uomo e perciò la manifestazione centrale in forma corporativa del peccato originale dell’uomo. Di conseguenza, lo stato si è ripetutamente presentato come il salvatore e dio dell’uomo.
Warfield, commentando questo testo, ha richiamato l’attenzione all’errore delle visioni escatologiche popolari. Il grande fatto riguardo ad ogni profezia, e II Tessaloncesi 2, 2-10 è profezia, è quello di essere etico o morale nel suo scopo. La profezia non cerca di soddisfare la nostra curiosità ma di rafforzarci moralmente. La “venuta” del Signore a distruggere l’uomo del peccato non è necessariamente, né affatto in questo caso, la sua venuta in persona (la venuta alla fine dei tempi), ma la sua venuta in giudizio (una venuta alla fine di un momento storico). In questo modo né la rivelazione né la distruzione dell’uomo del peccato devono essere considerati un evento della fine dei tempi.
L’uomo del peccato è qualcuno nel futuro prossimo dei Tessalonicesi e di Paolo. Warfield considerò l’uomo del peccato essere “La linea di imperatori, considerati come l’incarnazione del potere persecutorio.” Il potere che lo “riteneva” era lo stato Giudaico, la cui esistenza dava qualche protezione ai Cristiani, nel fatto che Roma dava loro, come “setta giudaica,” la stessa immunità dai controlli Romani che la fede giudaica possedeva [11]. Infine, in questa interpretazione, l’apostasia è ovviamente la grande apostasia dei Giudei, che gradualmente riempiva tutti quegli anni e affrettava verso il suo completamento nella loro distruzione [12].
Paolo così vedeva uno stretto collegamento tra il tentatore ed il suo piano primordiale, il peccato originale, e lo statalismo al di fuori di Cristo. Lo stato in Cristo è lo strumento di Dio per il compimento della giustizia. Lo stato al di fuori di Cristo è lo strumento di Satana per l’avanzamento del suo piano di sostituire la volontà della creatura a quella del Creatore. Per questa ragione ci è impossibile come Cristiani essere indifferenti alla teologia dello stato.
Note:
1. Harold Rugg e William Withers: Social Foundations of Education, p.234. New York, N.Y.: Prentice-Hall, 1955
2. Carrol Quigley: The Anglo-American Establishment, From Rhodes to Cliveden, p.132. New York, N.Y.: Books in Focus, 1981
3. Ibid., p.134.
4. Ibid., p.34.
5. Lidia Storoni Mazzolani: The Idea of the City in Roman thought, from Walled city to Spiritual Commonwealth, p.36. Bloomington, Indiana: Indiana University Press, 1970
6. Ibid., p.120.
7. Ibid., p. 97.
8. Ibid., p. 129.
9. Ibid., pp.203ff., 230.
10. G. B. Caird: Principalities and Powers, A Study in Pauline Theology, p.26ff. Oxford, England: Clarendon Press, 1956
11. Benjamin Brekenridge Warfield: Biblical Doctrines, p.610. Grand Rapids, Michigan: Baker Book House, (1929) 1981.
12. Ibid., p. 612.