5. Calvinismo e Arte
QUINTA CONFERENZA
CALVINISMO E ARTE
In questa quinta conferenza, la penultima, tratto di Calvinismo ed Arte[1].
Non è il fatto che sia la tendenza prevalente di questo tempo che mi induce a farlo. Inchinarsi davanti ad un’adorazione quasi fanatica dell’arte, cosa che il nostro tempo sprona a fare, avrebbe proprio poco di armonico con la profonda serietà di vita alla quale il Calvinismo si è appellato, e che ha suggellato non con la penna o con lo scalpello nello studio, ma con il suo più nobile sangue sul rogo e sul campo di battaglia. Inoltre, l’amore per l’arte che si sta ampiamente diffondendo in questo tempo non dovrebbe accecarci, bensì, dev’essere esaminato sobriamente ed in maniera critica. Esso ci mostra, cosa facilmente spiegabile, che il perfezionamento artistico, fino ad ora limitato ad una ristretta cerchia di favoriti, tende ora a prender piede nella più ampia classe media, ed occasionalmente tradisce perfino una propria inclinazione ad abbassarsi alle ancor più ampie classi della bassa società. È la democratizzazione, se volete, di un’espressione di vita che fino ad ora s’è raccomandata con la sua attrazione aristocratica. E benché il vero artista ispirato possa lamentarsi del fatto che, se si è in maggioranza, suonare il piano è solo uno strimpellare e dipingere solo poco più che un imbrattare, tuttavia l’emozionante sensazione di prender parte ai privilegi dell’arte è così irresistibile che gli scherni degli artisti sono preferibili alla rinuncia dell’insegnamento artistico nell’educazione. L’aver prsentato una produzione propria, per quanto povera, sull’altare dell’arte diventa sempre più la manifestazione di una civiltà evoluta. Infine, in tutto ciò il desiderio di dilettarsi all’ascolto e alla vista riesce ad esprimere se stesso, specialmente per mezzo della musica e del palcoscenico. E se non si può negare che molti ricercano questi piaceri sensuali in forme che sono meno nobili e troppo spesso peccaminose, è altrettanto certo che in molte occasioni questo amore dell’arte porta l’uomo a cercare godimento in direzioni più nobili e frena il desiderio per una sensualità più bassa. Specialmente nelle nostre grandi città, i direttori teatrali sono capaci di procurare un divertimento di tale prima qualità, ed i facili mezzi di comunicazione fra le nazioni impartiscono un carattere talmente internazionale ai nostri migliori cantanti ed attori, che i divertimenti artistici più raffinati sono ora accessibili a prezzi bassissimi ad una classe sempre piu vasta. Inoltre, non è che un bene permettere che il cuore umano, minacciato dall’atrofia del materialismo e dal razionalismo, cerchi un antidoto contro questo progressivo inaridimento, nel suo istinto artistico. Incontrollata, l’influenza dominante del denaro e dello sterile intellettualismo porterebbe la vita delle emozioni al punto di congelarsi. Ed incapace di aggrapparsi ai più santi benefici della fede, il misticismo del cuore reagisce con un’intossicazione artistica. Di qui, sebbene io non dimentichi che il vero genio dell’arte cerca le alture dell’isolamento piuttosto che le pianure al di sotto, e che la nostra epoca, così povera nella produzione di arte veramente creativa, è vista come riscaldarsi allo splendido fulgore del passato; anzi, benché io ammetta che l’omaggio dell’arte da parte del volgo profano non possa che condurre alla corruzione dell’arte, nondimeno, secondo il mio parere, anche il più sconsiderato fanatismo estetico sta molto più in alto della comune corsa alla ricchezza, o di un empio prostrarsi davanti ai santuari di Bacco e di Venere. In quest’epoca fredda, irreligiosa e pragmatica, il calore di questa devozione all’arte ha mantenuto vive molte più nobili aspirazioni della nostra anima, che altrimenti avrebbero potuto facilmente essersi spente, come fecero alla metà del secolo scorso. Così, vedete, io non sminuisco il presente movimento estetico. Ma ciò che alla luce della storia dovrebbe essere disapprovato è il folle tentativo di porlo più in alto del movimento religioso del sedicesimo secolo, o perfino di metterlo sullo stesso piano come valore; eppure, questo è ciò che dovrei fare se elemosinassi per il Calvinismo il favore di questo movimento artistico. E perciò, quando difendo il significato del Calvinismo nel campo dell’arte, non sono per niente indotto a farlo da questa volgarizzazione dell’arte, ma mantengo piuttosto i miei occhi fissati sul Bello e sul Sublime nel loro significato eterno, e sull’arte come uno dei doni più ricchi di Dio all’umanità.
Qui, comunque, ogni studente di storia sa che io sprofondo in un pregiudizio fortemente radicato. Calvino, si dice, era personalmente privo dell’istinto artistico, ed il Calvinismo, che in Olanda fu colpevole di iconoclastia, non può che essere incapace sia di uno sviluppo artistico sia di una produzione artistica reale e degna di nota. Perciò, un breve accenno su questo forte pregiudizio è di dovere. Senza stimare eccessivamente il suo “Wer nicht liebt Weib, Wein und Gesang”, è al di là di ogni questione che Lutero fosse artisticamente più disposto di Calvino; ma ciò che cosa prova? Neghereste voi all’Ellenismo i suo allori artistici perché, vuotato di ogni senso del bello, Socrate si gloriò della bellezza del suo naso gigantesco perché permetteva al suo respiro di passare più liberamente? Gli scritti di Giovanni, Pietro e Paolo, le tre colonne della Chiesa Cristiana, tradiscono essi anche in una sola parola alcun particolare apprezzamento della vita artistica? Anzi, con rispetto parlando, c’è alcuna istanza nei Vangeli in cui Cristo difenda l’arte come tale, o ne cerchi il suo godimento? E nel momento in cui queste domande abbiano tutte una risposta negativa, avete voi per questo il diritto di negare il fatto che il Cristianesimo come tale sia stato di importanza quasi inestimabile per lo sviluppo dell’arte? E se no, perché allora accusereste il Calvinismo per il semplice fatto che Calvino personalmente ebbe poco interessamento per l’arte? E quando parlate dell’iconoclastia dei Beggars, potete dimenticare che nell’ottavo secolo, proprio dentro al bel mondo artistico Greco, lo spirito intrepido di Leo Isauro istigò un’iconoclastia ancor più spinta, e neghereste quindi a Bisanzio il vanto di aver prodotto i migliori monumenti? Volete ancora ulteriori prove del contrario? Bene, in maniera ancor più drastica di Leo Isauro nell’ottavo secolo e dei Beggars Olandesi nel sedicesimo secolo, Maometto nel suo corano fu contrario ad immagini di ogni tipo, ma giustificherà questo l’accusa che la Alhambra a Grenada e l’Alcazar a Siviglia non siano magnifici prodotti di arte architettonica?
Non dobbiamo dimenticare che l’istinto artistico è un fenomeno umano universale, ma che lo sviluppo di quell’istinto è spartito in modo molto diseguale fra le nazioni in relazione a modelli nazionali, climi e paesi. Chi cercherà lo sviluppo dell’arte in Islanda? E chi dall’altro lato non lo fiuterà, se mi posso esprimere così, in mezzo alla ricchezza della natura nel Levante? È dunque una cosa così sorprendente che il Sud dell’Europa fosse più propizio del Nord allo sviluppo di questo istinto artistico? E quando la storia mostra che il Calvinismo fu accolto più ampiamente dalla gente del Nord, prova qualcosa contro il Calvinismo il fatto che in nazioni che vivono in un clima più freddo ed in un ambiente naturale più povero esso non fu capace di dar vita ad un movimento artistico simile a quello che fiorì fra le nazioni più a Sud? Poiché il Calvinismo preferì un culto di Dio in Spirito e Verità, rispetto alla ricchezza sacerdotale, è stato accusato da Roma di essere privo di un apprezzamento per l’arte, e poiché disapprovò che una donna si svilisse a modella di un artista o si giocasse la propria reputazione nel balletto, la sua serietà morale si è scontrata col sensualismo di quelli che ritengono che nessun sacrificio sia troppo sacro per la Dea dell’Arte. Tutto questo, comunque, riguarda solo il posto che l’arte deve occupare nella sfera della vita, ed i confini del suo dominio, ma non tocca l’arte stessa. Per prendere in considerazione quindi l’importanza del Calvinismo per l’arte da un punto di vista più ampio, seguitemi nell’investigazione dei seguenti tre punti:
- Perché al calvinismo non fu permesso di sviluppare uno stile artistico proprio;
- Che cosa deriva dal suo principio per la natura dell’arte;
- Ciò che ha effettivamente fatto per il suo progresso.
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Non vi sarebbe alcun problema, se solo il Calvinismo avesse sviluppato uno stile architettonico proprio. Come ci si vanta del Partenone ad Atene, del Pantheon a Roma e della chiesa di Santa Sofia a Bisanzio, della Cattedrale a Colonia o della Basilica di San Pietro in Vaticano, così anche il Calvinismo dev’essere capace di esibire una struttura solenne che raffiguri tutta la pienezza del suo ideale. E che non lo abbia fatto è considerato prova sufficiente della sua povertà artistica. Naturalmente, si pensa che il Calvinismo abbia cercato di raggiungere lo stesso splendore artistico, ma lo si biasima di essersi dimostrato incapace di riuscirci, essendo la sua sterile rigidità l’ostacolo che impedì ogni più alto sviluppo estetico. E quando gli Umanisti si gloriano dell’arte classica dell’antica Grecia, la Chiesa Greca dello stile Bizantino e Roma della sua Cattedrale Gotica, si guarda al Calvinismo come se rimanesse perplesso di fronte alla grave accusa di aver sminuito la pienezza della vita umana. Ora, in opposizione a quest’accusa completamente ingiusta, sostengo che proprio a ragione del suo principio più alto, non fu possibile per il Calvinismo sviluppare un proprio stile architettonico. A questo proposito sono stato costretto a prendere in considerazione soprattutto l’architettura, perché sia nell’arte classica che in quella cosiddetta Cristiana la produzione artistica assoluta e universale fu esibita nell’architettura, con tutti gli altri settori dell’arte che alla fin fine furono ad essa accostati, nel tempio, nella chiesa, nella moschea o nella pagoda. Difficilmente si può menzionare uno stile d’arte che non sia sorto dal centro del culto Divino e che non cerchi la realizzazione dei suoi ideali nella sontuosa struttura per quel culto. Questo fu il prosperare di un impulso che in se stesso era nobile. L’arte derivò la sua ricchezza dalla Religione. Lo zelo religioso era la miniera d’oro che rese finanziariamente possibili le sue concezioni più ardite. Per la realizzazione delle sue concezioni in questa sfera sacra essa non trovò ai suoi piedi solo un ristretto circolo di amanti dell’arte bensì proprio l’intera nazione. Il culto divino fu il legame che unì le diverse arti. E per dirlo anche meglio, grazie a questa vicinanza con l’Eterno, l’arte ottenne una propria unità interiore e la propria consacrazione ideale. E ciò spiega il fatto che qualsiasi cosa il palazzo ed il palcoscenico possano aver creato per l’arte, fu sempre il santuario che le impresse un carattere speciale e al quale deve uno stile creativo. Lo stile dell’arte e lo stile del culto coincisero. Ora, di certo, se questo matrimonio tra il culto ispirato dall’arte e l’arte ispirata dal culto, non è uno stadio intermedio, ma il fine più alto che si debba ottenere, allora bisogna francamente confessare che il Calvinismo non possa che dichiararsi colpevole. Se, tuttavia, si può dimostrare che quest’alleanza della religione con l’arte rappresenti il livello più basso di sviluppo religioso e, in generale, umano, allora è evidente che proprio in questa mancanza di un particolare stile architettonico, il Calvinismo trovi una raccomandazione ancor più alta. Essendo io pienamente convinto che sia proprio così, procedo col prendere in considerazione questa convinzione.
Dapprima, dunque, lo sviluppo estetico del culto Divino, portato a quei livelli ideali dei quali il Partenone, il Pantheon, Santa Sofia e San Pietro sono testimonianze scolpite sulla pietra, è possibile solo allo stadio più basso, nel quale la stessa forma di religione è imposta ad un’intera nazione, sia dai governanti che dal sacerdote. In quel caso, ogni differenza di espressione spirituale si fonde in una sola modalità simbolica di culto, e quest’unione delle masse sotto la guida del magistrato e del clero offre la possibilità di pagare l’ingente costo di tali strutture colossali e dei loro ornamento e decorazione. Tuttavia, nel caso di un progressivo sviluppo delle nazioni, dove i tratti di carattere individuali rompono l’unità delle masse, anche la religione si eleva a quel livello più alto dove matura dalla vita simbolica a quella pienamente consapevole, ed ha bisogno perciò sia della dissociazione del culto in molte forme sia dell’emancipazione della religione maturata da ogni controllo sacerdotale e politico. Nel sedicesimo secolo l’Europa si avvicinava, benché lentamente, a questo livello più alto di sviluppo spirituale, e non fu il Luteranesimo, con il suo assoggettare l’intera nazione alla religione del principe, ma il Calvinismo, con la sua profonda concezione di libertà religiosa, ad iniziare la transizione. In ogni paese dove il Calvinismo abbia fatto la sua apparizione, ha portato ad una molteplicità di tendenze di vita, ha abbattuto l’egemonia dello Stato in campo religioso, ed ha quasi del tutto messo fine al sacerdotalismo. A risultato di ciò, abbandonò la forma di culto simbolica, e rifiutò le pretese dell’arte di concretizzare il suo spirito religioso in monumenti di splendore.
L’obiezione che una tale funzione simbolica ebbe luogo anche in Israele non indebolisce la mia argomentazione, piuttosto, la sostiene. Poiché, non ci insegna forse il Nuovo Testamento che il ministero delle ombre, che fiorì spontaneamente sotto la vecchia dispensazione, cioè sotto la dispensazione delle profezie adempiute, è “antico ed invecchia ed è vicino a sparire”? In Israele troviamo una religione di stato che è una e la stessa per il popolo intero. Quella religione è sotto la guida sacerdotale. Fa infine la sua apparizione in simboli e prende di conseguenza forma nello splendido tempio di Salomone. Ma quando questo ministero delle ombre ha servito i propositi del Signore, Cristo giunge a preannunciare l’ora in cui Dio non sarà più adorato nel tempio monumentale di Gerusalemme, ma sarà piuttosto adorato in Spirito e Verità. Ed in accordo con questa profezia non troviamo traccia né ombra di arte per il culto nella letteratura apostolica. Il sacerdozio visibile di Aronne in terra lascia il posto all’invisibile Sommo Sacerdote secondo l’ordine di Melchisedec in cielo. Il puramente spirituale si apre un varco nella nebbia del simbolico.
La mia seconda prova è che ciò è pienamente in accordo con la più alta relazione fra la Religione e l’Arte. Mi appello ad Hegel e a Von Hartmann, i quali, essendo esterni al Calvinismo, si possono citare come testimoni disinteressati. Hegel sostiene che l’arte, che, ad uno stadio di sviluppo più basso, impartisce ad una religione ancora legata ai sensi la sua più alta espressione, l’aiuta infine proprio in questo modo a liberarsi delle catene del percepibile coi sensi; poiché, benché si debba ammettere che ad un livello più basso è solo il culto estetico a liberare lo spirito, nondimeno egli conclude “la bella arte non è la sua più alta emancipazione” poiché ciò si trova solo nel mondo dell’invisibile e dello spirituale. E Von Hartmann dichiara con ancor più enfasi che: Originariamente il culto divino apparve inseparabilmente unito all’arte perché allo stadio più basso, la Religione è ancora incline a perdersi nella forma estetica. In quel periodo, tutte le arti, egli dice, sono al servizio del culto, non solamente la musica, la pittura, la scultura e l’architettura, ma anche la danza, la mimica e l’arte drammatica. D’altro canto, più la religione procede nello sviluppo spirituale, più si districherà dalle fasce dell’arte, poiché l’arte rimane sempre incapace di esprimere la vera essenza della Religione. Ed il risultato finale di questo storico processo di separazione, egli conclude debba essere che la Religione, quando pienamente matura, preferirà rinunciare allo stimolo col quale la pseudo-emozione estetica la intossicò, per concentrarsi completamente ed esclusivamente nel ravvivare quei sentimenti che sono puramente religiosi.
Sia Hegel sia Von Hartmann sono entrambi nel giusto in questo fondamentale pensiero. La Religione e l’Arte hanno ciascuna una loro sfera di vita; queste possono dapprima essere a malapena distinguibili l’una dall’altra e perciò strettamente intrecciate, ma, con uno sviluppo più pieno, queste due sfere necessariamente si separano. Guardando due bambini nella culla si può difficilmente dire quale sia il maschio e quale sia la femmina, ma quando, raggiunti gli anni della maggiore età, stanno di fronte a voi come uomo e donna, li vedete entrambi con forme, tratti e modi di esprimersi peculiarmente propri. E così, arrivate al loro più alto sviluppo, la religione e l’arte esigono una realtà indipendente, e i due gambi che dapprima erano intrecciati e sembravano appartenere alla stessa pianta ora mostrano di spuntare da radici indipendenti. Questo è il cammino da Aronne a Cristo, da Bezaleel ad Haoliab, agli apostoli. E in virtù dello stesso processo, Il Calvinismo occupa un punto di partenza più alto di quanto il Romanesimo potesse raggiungere nel sedicesimo secolo. Di conseguenza, il Calvinismo non fu capace, né gli fu permesso, di sviluppare uno stile artistico tutto suo dal proprio principio religioso. Aver fatto questo sarebbe stato un regredire ad un livello più basso di vita religiosa. Al contrario, il suo sforzo, più nobile, dev’essere quello di liberare sempre di più la religione ed il culto Divino dalla sua natura pragmatica, e di promuovere la sua forte spiritualità. Fu capace di farlo grazie al potente battito per mezzo del quale a quel tempo la vita religiosa scorreva nelle arterie dell’umanità. Ed il fatto che in questi giorni le nostre chiese calviniste siano reputate essere fredde e poco accoglienti e che si desideri una reintroduzione della simbologia nei nostri luoghi di culto, lo dobbiamo alla triste realtà di un pulsare della vita religiosa ai nostri tempi che è molto più debole di quello che fu ai giorni dei nostri martiri. Ma anziché derivare da questo la giustificazione a ritornare ad un più modesto livello religioso, questa debolezza di spirito religioso deve invogliare a pregare per un più forte agire dello Spirito Santo. Una seconda fanciullezza, nella nostra vecchiaia, sarebbe un regredire doloroso. L’uomo che teme Dio, e le cui facoltà rimangono limpide e intatte, non ritorna, alla soglia della vecchiaia, ai giochi della sua infanzia.
Dopo questa dimostrazione si potrebbe ancora fare un’obiezione, e a questa io voglio rispondere. Potrebbe essere posta la questione se una tendenza di vita veramente indipendente non abbia il dovere di creare un suo proprio stile artistico, anche nel caso in cui si sviluppasse in forma del tutto secolare. Si comprenda bene il vero significato dell’obiezione. Essa non sostiene che il Calvinismo, se veramente in possesso di un significato estetico, avrebbe potuto dare una certa direzione all’esercizio dell’arte, perché il fatto che il Calvinismo abbia veramente fatto questo emergerà da sé tra un momento. La questione di questa obiezione va più in profondità e pone l’interrogativo sul se, in primo luogo, uno stile artistico secolare sia concepibile; in secondo luogo, se la creazione di un tale stile d’arte puramente secolare e dominante possa esser stata richiesta dal Calvinismo. La risposta che dò alla prima domanda è la seguente: nella storia dell’arte non è stata trovata una sola testimonianza dello sviluppo di un tale stile d’arteonnicomprensivo che sia indipendente dalla religione. Si faccia attenzione; io non parlo qui di una scuola di una singola arte, ma di uno stile artistico che imprima un’impronta concentrica a tutte e quante le arti. Dell’arte Romanica e di quella Rinascimentale si può almeno in parte asserire con una certa probabilità che, benché prive di un impulso guida religioso, si siano tuttavia manifestate in pieno in tutte le forme artistiche. Parlando di architettura, il duomo nell’arte Romanica e Bizantina non è espressione di un pensiero religioso, bensì di energia politica. Il duomo simboleggia potenza mondiale, e anche del Rinascimento si deve ammettere che, sebbene in modo diverso, esso non ebbe le sue basi nella religione, ma negli ambienti di vita civile e sociale. Ora, il Rinascimento verrà preso in considerazione più pienamente nella terza parte di questa conferenza ma, per quel che riguarda lo stile d’arte Romanico, io qui rispondo, in primo luogo, che uno stile che prese in prestito quasi tutti i suoi motivi dall’arte Greca può difficilmente gloriarsi di una natura indipendente; in secondo luogo, rispondo che a Roma l’idea-Stato si identificò a tal punto con l’idea religiosa che quando l’arte raggiunse, nel periodo degli imperatori, i suoi massimi livelli espressivi, mentre si bruciavano sacrifici al Divus Augustus, non è storicamente possibile considerare lo Stato e la Religione come due sfere a quel tempo separate.
Ma a prescindere da questo risultato nella storia, ci si può chiedere se ci sia mai la possibilità che tale stile d’arte onnicomprensivo abbia origine al di fuori della religione. La creazione di un tale stile necessita di un motivo guida nella vita intellettuale ed emotiva di un popolo, che domini l’intera esistenza dal profondo e che di conseguenza porti i propri effetti dal centro spiritualealla realtà più esterna circostante. Naturalmente, non come se la realtà di un’arte nazionale possa mai essere il prodotto del pensiero intellettuale. L’arte intellettuale non è arte e lo sforzo profuso da Hegel di far derivare qualcosa dalle idee si oppose alla vera natura dell’arte. Le nostre vite, etica, religiosa ed estetica, richiedono ciascuna una sfera propria. Queste realtà corrono parallele e non permettono la derivazione di una dall’altra. È l’emozione primaria, l’impulso primario, l’impeto primario nella radice mistica del nostro essere che cerca di rivelarsi al mondo esterno in questa quadruplice ramificazione. Inoltre, l’arte non è un germoglio laterale di un ramo principale, ma un ramo indipendente che cresce dal tronco stesso della vita, benché sia più strettamente connesso alla religione che al nostro pensiero o al nostro io etico. Nel caso in cui comunque venga posta la domanda sul come si possa arrivare ad un’unità di concezione che abbracci questi quattro domini, si nota costantemente che nel finito questa unità si trova solo lì dove sgorga dalla fontana dell’Infinito. Non c’è unità nel vostro pensiero eccetto che per mezzo di un sistema filosofico ben ordinato e non c’è sistema filosofico che non si elevi alle questioni dell’Infinito. Allo stesso modo, non c’è unità nella vostra esistenza morale eccetto che per mezzo dell’unione della vostra esistenza interiore con l’ordine morale mondiale e non c’è ordine morale mondiale concepibile se non grazie all’intervento di un potere Infinito che ha comandato l’ordine in questo mondo morale. Così anche, non si può concepire l’unità nella rivelazione dell’arte, eccetto che per mezzo dell’ispirazione artistica di un’Eterna Bellezza che fluisce dalla fontana dell’Infinito. Perciò, nessun stile artistico caratteristico e omnicomprensivo può nascere se non come conseguenza dello specifico stimolo dell’Infinito che agisce nel nostro essere interiore. E siccome il vero privilegio della Religione rispetto all’intelletto, la moralità e l’arte, è questo, che essa sola realizza la comunione con l’Infinito nella nostra autocoscienza, la ricerca di uno stile artistico profano, omnicomprensivo, indipendente da ogni principio religioso è semplicemente assurda.
Capite perciò che l’arte non è una frangia del vestito, né un divertimento accessorio alla nostra vita, ma una potenza di grande importanza nella nostra esistenza attuale, e perciò le sue principali varianti devono mantenere nella loro espressione artistica una relazione stretta con le principali varianti nel nostro modo di vivere nella sua totalità; e dal momento che queste principali varianti della nostra intera esistenza umana, nessuna esclusa, sono dominate dalla nostra relazione con Dio, non si tratterebbe sia di una degradazione sia di una sottovalutazione dell’arte, se voi immaginaste che le ramificazioni, nelle quali il tronco dell’arte si divide, fossero indipendenti dalla più profonda radice che ogni vita umana ha in Dio? Di conseguenza, nessuno stile d’arte è sorto dal Razionalismo del diciottesimo secolo, né dal principio del 1789, e, per quanto doloroso possa risultare al nostro diciannovesimo secolo, tutti i suoi sforzi per creare un nuovo stile artistico suo personale sono finiti in un totale fallimento, e perciò la sua produzione artistica possiede un vero fascino solo quando si lascia ispirare dagli splendori del passato.
Così dev’essere negata di per sé la possibilità che uno stile artistico vero e proprio possa originare indipendentemente dalla religione; ma anche se fosse diversamente, sarebbe ugualmente illogico, e questa era la mia seconda questione, pretendere dal Calvinismo una tale secolare tendenza. Perché, come potete desiderare che un movimento di vita che trovò l’origine della sua potenza nel chiamare a giudizio tutti gli uomini e tutta la vita umana al cospetto di Dio, cercasse l’impulso, la passione e l’ispirazione per la sua vita al di fuori di Dio in un campo così straordinariamente importante come quello delle potenti arti? Non rimane perciò nessun fondo di verità nello sprezzante rimprovero che la mancata creazione di un proprio stile architettonico sia prova decisiva della povertà artistica del Calvinismo. Solo sotto gli auspici del suo principio religioso il Calvinismo avrebbe potuto creare uno stile d’arte generale, e proprio perché esso raggiunse uno stadio di sviluppo religioso così alto, il suo stesso principio gli proibì l’espressione simbolica della sua religione in forme visibili e materiali.
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Di conseguenza la domanda dev’essere posta diversamente. E questo ci porta al nostro secondo punto. La questione non è se il Calvinismo produsse ciò che, con il suo concetto più elevato, non gli era più permesso di creare, cioè uno stile artistico generale tutto suo, ma piuttosto quale interpretazione della natura dell’arte fluisca dal suo principio. In altre parole, c’è nella concezione della vita e del mondo del Calvinismo un posto per l’arte, e se sì, quale posto? Il suo principio si oppone all’arte o, se giudicato dagli standard del principio Calvinista, un mondo senz’arte perderebbe una delle sue sfere ideali? Io non parlo ora dell’abuso, ma semplicemente dell’uso dell’arte. In ogni campo la vita è obbligata a rispettare le dimensione del campo stesso. L’usurpazione del dominio altrui è sempre illegale e la nostra vita umana otterrà il suo più armonioso equilibrio solo quando tutte le sue funzioni coopereranno al nostro sviluppo generale nella giusta proporzione. La logica della mente non può disprezzare i sentimenti del cuore, né l’amore per il bello dovrebbe mettere a tacere la voce della coscienza. Per quanto sacra possa essere la Religione, essa deve rimanere entro i suoi confini di modo che, se sconfina dalle sue linee, non degeneri in superstizione, pazzia o fanatismo. E, allo stesso modo, la passione troppo esuberante per l’arte che se la ride al sussurrare della coscienza, non può che finire in una discordia poco piacevole, molto diversa da ciò che i Greci esaltarono nel loro kalokagathos.[2] Per esempio, il fatto che il Calvinismo si sia schierato contro ogni commedia profana recitata a scapito della reputazione della donna ed abbia censurato ogni forma di godimento artistico immorale come degradazione, rimane perciò fuori del nostro campo visivo. Tutto ciò denuncia giustamente l’abuso, mentre non ha alcun peso sulla questione dell’uso legittimo. E che l’uso legittimo dell’arte non fosse stato contestato, ma incoraggiato e perfino raccomandato da Calvino stesso, con le sue stesse parole, è facilmente dimostrabile. Quando le Scritture menzionano la prima apparizione dell’arte nella tenda di Jubal, che inventò l’arpa e l’organo, Calvino ci ricorda con enfasi che questo passo tratta degli “eccellenti doni dello Spirito Santo”. Egli dichiara che nell’istinto artistico Dio aveva arricchito Jubal e la sua discendenza con doti rare. E dichiara apertamente che queste forze inventive sono evidentissime testimonianze della generosità Divina. E con ancor più enfasi dichiara nei suoi commentari sull’Esodo che “tutte le arti provengono da Dio e devono essere considerate come invenzioni divine.” Secondo Calvino questi beni preziosi appartenenti alla vita naturale li dobbiamo originariamente allo Spirito Santo. In tutte le Arti Liberali, nella più importante come in quella meno, devono essere esaltate la lode e la gloria di Dio. Le arti, egli dice, ci sono state date come conforto in questo nostro stato di vita depressa. Esse si oppongono alla corruzione della vita e della natura causate dalla maledizione. Quando il suo collega, il professore Cop, a Ginevra, impugnò le armi contro l’arte, Calvino istituì di proposito dei provvedimenti con i quali, come egli scrive, riportare quest’uomo stolto al buon senso e alla ragione. Il cieco pregiudizio contro la scultura sulla base del secondo comandamento, secondo Calvino, non è degno di confutazione. Egli esalta la musica come una forza meravigliosa per muovere cuori e nobilitare inclinazioni e morali. Fra i magnifici doni di Dio per la nostra ricreazione ed il nostro divertimento essa occupa nel suo cuore il primo posto. E persino quando l’arte accondiscende a diventare il semplice strumento di intrattenimento per le masse, egli sostiene che questo tipo di piacere non dovrebbe essere loro negato. Alla luce di tutto questo possiamo dire che Calvino stimava l’arte, in tutte le sue espressioni, come un dono di Dio, o più specificamente come un dono dello Spirito Santo; egli comprese a fondo i notevoli risultati compiuti dall’arte nella realtà delle emozioni; egli apprezzò lo scopo per il quale l’arte è stata donata, cioè che attraverso essa possiamo glorificare Dio, e nobilitare la vita umana, e saziarci con più nobili diletti, persino con divertimenti comuni; e infine, lungi dal considerare l’arte una semplice imitazione della natura, egli le attribuì la nobile vocazione di dischiudere all’uomo una realtà più alta di quella offertaci da questo mondo corrotto e pieno di peccato.
Ora, se questo non implicasse nulla al di là dell’interpretazione personale di Calvino, la sua testimonianza non avrebbe alcun valore decisivo per il Calvinismo in generale. Ma quando osserviamo che Calvino stesso non aveva propensioni artistiche e che perciò egli deve aver derivato questo essenziale sistema di Estetica[3] dai suoi principi, gli si può attribuire di aver espresso la considerazione calvinista dell’arte come tale. Per andare direttamente al cuore della questione, partiamo dall’ultima affermazione di Calvino, cioè che l’arte ci rivela una verità più alta di quella offertaci da questo mondo pieno di peccato. Voi avete dimestichezza con la questione già menzionata se l’arte debba imitare la natura o trascenderla. In Grecia, gli acini d’uva erano dipinti con una tal accuratezza che gli uccelli erano ingannati dalla loro apparenza e cercavano di mangiarli. E questa imitazione della natura sembrò alla scuola socratica l’ideale più alto. In questo sta la verità troppo spesso ignorata dagli idealisti che le forme e le relazioni esibite dalla natura sono e devono rimanere sempre le forme e le relazioni fondamentali della realtà attuale, ed un’arte che non guardi le forme e i movimenti della natura, né ascolti i suoi suoni, ma a cui piaccia arbitrariamente elevarsi al di sopra di essa, si riduce ad uno sregolato gioco di fantasia. D’altro canto, ogni interpretazione idealistica dell’arte dovrebbe essere sostenuta in opposizione a quella puramente empirica, ogniqualvolta quella empirica riduca la sua funzione ad una pura imitazione. Allora si commette nell’arte lo stesso errore così spesso commesso dagli scienziati quando riducono il loro compito alla semplice osservazione, stima e accurato resoconto dei fatti. Poiché, come la scienza deve passare dal fenomeno alla ricerca dell’ordine che lo contraddistingue in modo che l’uomo, arricchito dalla conoscenza di quest’ordine, possa produrre specie più nobili di animali, fiori e frutta di quanto la natura stessa produca, così è la vocazione dell’arte, non di osservare semplicemente ogni cosa visibile ed udibile, di apprenderla e riprodurla artisticamente, ma molto di più, di scoprire in queste forme naturali l’ordine della bellezza e, arricchita da questa più alta conoscenza, produrre unmondo armonioso che trascenda la bellezza della natura. E questo è ciò che sostenne Calvino: cioè che le arti esibiscono doni che Dio ha messo a nostra disposizione ora che abbiamo perso la vera bellezza come triste conseguenza del peccato. Qui la vostra decisione dipende interamente dalla vostra interpretazione del mondo. Se voi considerate il mondo come la realizzazione del bene assoluto, allora non c’è un mondo più alto e l’arte non può avere altra vocazione che quella di imitare la natura. Se, come insegna il panteista, il mondo avanza in un lento progredire dall’incompiutezza alla perfezione, allora l’arte diventa la profezia di un’ulteriore fase di vita a venire. Ma se ammettete che il mondo fu un tempo bello, ma fu rovinato dalla maledizione, e che per mezzo di una catastrofe finale passerà al suo pieno stato di gloria eccellendo persino la bellezza del paradiso, allora l’arte ha il compito morale di ricordarci nella sua produzione la bellezza che fu perduta e di anticiparci la sua totale fastosità a venire. Ora, quest’ultima affermazione è la confessione calvinista. Essa ha compreso, più chiaramente di Roma, l’odiosa influenza corruttrice del peccato. Essa portò ad una più alta considerazione della natura del paradiso nella bellezza della giustizia originale; e guidato da questo ricordo incantevole, il calvinismo profetizzò una redenzione anche della natura esteriore, da realizzarsi nel regno della gloria celeste. Da questo punto di vista il calvinismo esaltò l’arte come un dono dello Spirito Santo e come una consolazione della nostra vita presente, permettendoci di scoprire in questa vita piena di peccato e al di là di essa uno scenario più ricco e glorioso. Spettatrice delle rovine di questa creazione un tempo meravigliosamente bella, l’arte indica al calvinista entrambe le tracce ancora visibili del piano originale, ma ancor più, la splendida restaurazione tramite la quale il Supremo Artista e Maestro Costruttore un giorno rinnoverà e intensificherà perfino la bellezza della Sua creazione originale.
Se quindi, l’interpretazione personale di Calvino su questo punto fondamentale è in completo accordo con la confessione calvinista, lo stesso si applica al prossimo punto in questione. Se la sovranità di Dio è e rimane per il calvinismo il suo immutabile punto di partenza, allora l’arte non può originare dal Maligno, poiché Satana è privato di ogni potere creativo. Tutto ciò che egli può fare è abusare dei generosi doni di Dio. Neppure può l’arte originare dall’uomo, perché, essendo egli stesso una creatura, l’uomo non può che adoperare i poteri e i doni che gli sono messi a disposizione da Dio. Se Dio è e rimane sovrano, allora l’arte non può esercitare alcun fascino se non in accordo con le regole che Dio decretò per la bellezza, quando in qualità di Artista Supremo creò questo mondo. Ed inoltre, se Dio è e rimane sovrano, allora in più egli impartisce questi ordini artistici a chi egli vorrà, addirittura alla discendenza di Caino prima che non a quella di Abele, non come se l’arte fosse Cainita, ma in modo che colui che ha buttato via i doni più alti possa almeno, come Calvino così ben afferma, avere qualche prova della generosità di Dio nei doni minori. Che l’abilità artistica, la capacità di fare arte come tale, possa aver posto nella natura umana, lo dobbiamo alla nostra creazione ad immagine di Dio. Nel mondo reale Dio è creatore di tutto; il potere di generare cose totalmente nuove è solamente suo e perciò egli rimane sempre l’Artista creativo. In quanto Dio, egli solo è l’Uno originale, noi rispecchiamo semplicemente la Sua immagine. La nostra capacità di creare dopo di Lui secondo ciò che Egli creò può consistere solamente nelle irreali creazioni dell’arte. Così noi, in questo modo, possiamo imitare l’opera di Dio. Noi creiamo un tipo di cosmo nei nostri monumenti architettonici, nella scultura, per abbellire le forme della natura, nella nostra Pittura, per riprodurre la vita, rappresentata con tratti e colori, nella nostra Musica e nella nostra Poesia, per infondere la realtà spirituale. E tutto questo perché la bellezza non è il prodotto della nostra stessa fantasia, né della nostra percezione soggettiva, ma ha un carattere oggettivo, essendo essa stessa l’espressione di una perfezione divina. Dopo la creazione Dio vide che tutte le cose erano buone. Provate ad immaginare ogni occhio umano chiuso ed ogni orecchio umano tappato, comunque la bellezza rimane e Dio la vede e la ode, poiché, non solo “la Sua Eterna Potenza, ma anche la sua Divinità”, fin dalla creazione, furono distinguibili nella Sua creazione sia spiritualmente che materialmente. Un’artista può notare questo in se stesso. Se egli si rende conto di quanto la sua capacità artistica dipenda dal fatto di avere una personale inclinazione per l’arte, egli deve necessariamente giungere alla conclusione che l’inclinazione originale per l’arte è in Dio stesso, la Cui capacità artistica è onniproduttiva e secondo la Cui immagine fu creato l’artista tra gli uomini. Lo comprendiamo dalla creazione intorno a noi, dal firmamento che ci sovrasta, dall’abbondante ricchezza della natura, dall’abbondanza di forme nell’uomo e nell’animale, dal fragoroso scrosciare del ruscello e dal canto dell’usignolo; poiché, come potrebbe esistere tutta questa bellezza se non creata dal Uno che pre-concepì la bellezza nel suo stesso Essere e la generò dalla Sua stessa perfezione divina? Così, voi vedete che la sovranità di Dio e la nostra creazione a Sua somiglianza portano necessariamente a quella nobile interpretazione dell’origine, della natura e della vocazione dell’arte, quale fu adottata da Calvino, e ancora approvata dal nostro istinto artistico. Il mondo dei suoni, il mondo delle forme, il mondo dei colori ed il mondo delle idee poetiche non possono avere altra sorgente che Dio; e il nostro privilegio come individui creati a Sua immagine sta nell’avere la capacità di percepire questo mondo di bellezza, di riprodurlo artisticamente e di goderlo a livello umano.
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Cosi, giungo al mio terzo ed ultimo punto. Abbiamo chiarito che la mancanza di uno stile artistico proprio, lontana dall’essere un’obiezione al Calvinismo, rappresenta al contrario il più alto stadio del suo sviluppo. Dopodiché, abbiamo considerato quale suprema interpretazione della natura dell’arte fluisca dal principio calvinista. Ed ora vediamo quanto nobilmente il Calvinismo abbia incoraggiato il progresso dell’arte sia in campo teorico che in quello pratico.
In primo luogo, richiamo la vostra attenzione sull’importante fatto che fu il Calvinismo che, liberando l’arte dalla tutela della Chiesa, per primo riconobbe la sua maturità. Non nego che il Rinascimento ebbe la stessa tendenza, ma col Rinascimento ciò fu guastato da una preferenza troppo di parte per il paganesimo, ed una passione per idee più Pagane che Cristiane; mentre Calvino, dall’altro lato, rimase fortemente radicato alle idee Cristiane e si oppose ad ogni influenza pagana più strenuamente di ogni altro Riformato. Comunque, per rendere onore al merito della vecchia Chiesa Cristiana, è qui di dovere una spiegazione un po’ più completa. La religione Cristiana fece la sua apparizione nel mondo Greco-Romano, che, benché completamente privo di moralità, si distingueva ancora per la sua alta civilizzazione e per il suo splendore artistico. Perciò, per poter opporre principio a principio, il Cristianesimo fu costretto in partenza a opporsi alla sopravvalutazione dell’arte allora dominante e con ciò bloccare la pericolosa influenza che il Paganesimo stava esercitando, nel suo ultimo sforzo, con il fascino del suo incantevole mondo. Perciò, finché il paganesimo combatteva per la vita o la morte, la relazione del Cristianesimo con la sua arte non poteva che essere una relazione di ostilità. Questo primo periodo fu seguito quasi immediatamente dall’influenza delle tribù Germaniche, quasi ancora barbariche, sull’altamente civilizzato Impero Romano. Dopo che esse furono velocemente battezzate, il centro del potere si spostò gradualmente dall’Italia al di là delle Alpi, dando così alla Chiesa, già nell’ottavo secolo, una supremazia quasi esclusiva sull’intera Europa. Grazie a questo raggruppamento, la Chiesa divenne per diversi secoli la tutrice di una più alta forma di vita umana, ed essa assolse questo importantissimo compito così nobilmente che nessun odio religioso e nessun pregiudizio di parte osano ancora mettere in discussione il glorioso risultato che essa raggiunse a quel tempo. Nel vero senso della parola, ogni sviluppo umano di quel periodo dipese interamente dalla Chiesa. Nessuna scienza e nessuna arte potevano prosperare se non sotto la protezione ecclesiastica. E di qui ebbe origine quell’arte specificamente Cristiana che, nella suo primo entusiasmo, cercò di racchiudere il massimo d’essenza spirituale nel minimo di forme, tinte e tonalità. Non fu arte copiata dalla natura, ma arte invocata dalla sfera celeste, che imprigionò la musica nei canti Gregoriani, la cui matita e il cui scalpello anelarono a creazioni a-cosmiche[4] e che raggiunsero il loro Sublime apice solo nella costruzione delle cattedrali, e acquisirono fama imperitura. Nel frattempo, ogni tutorato volto ad educare conduce alla propria dissoluzione. Un tutore sano di mente intende rendere il suo tutorato superfluo al più presto possibile, e chi cerca di prolungare il suo controllo anche dopo che il suo pupillo ha raggiunto la maturità, crea una relazione innaturale e rende il suo tutorato stesso un incentivo alla ribellione. Perciò, quando la prima educazione dell’Europa del Nord fu completata, e la Chiesa persistette ancora nell’impugnare il suo scettro assoluto per governare la vita in ogni suo campo, sorsero quattro grandi movimenti da altrettanti diversi lati, cioè, il Rinascimento nel campo dell’arte, il Repubblicanesimo dell’Italia in politica, l’Umanesimo nella scienza, e, di primaria importanza, nella religione, la Riforma.
Senza dubbio questi quattro movimenti trovarono il loro impulso da principi molto diversi ed in qualche caso in conflitto tra loro, ma tutti erano concordi su una cosa, e cioè, che essi cercavano di sfuggire alla tutela ecclesiastica, e di creare una vita propria, in accordo col loro stesso principio. Di qui, non deve sorprendere che, nel sedicesimo secolo, queste quattro forze agirono ripetutamente in concerto. Era una sola stessa vita umana che, stanca di ogni ulteriore tutela, affrettava in ogni modo uno sviluppo più libero, e perciò, quando il vecchio tutore cercò a viva forza di negare l’evidenza della maturità, fu naturale che queste quattro forze si siano sostenute l’una con l’altra per resistere fieramente, e per non desistere prima di aver ottenuto la libertà. Senza questa quadruplice alleanza la Chiesa non solo avrebbe preservato la sua tutela su tutta l’Europa, ma una volta sedata la ribellione, il suo governo sarebbe diventato ancor più soffocante ed intollerabile di prima. Grazie a questa co-operazione, l’audace impresa fu coronata di un successo duraturo, ed i combattenti, grazie all’unione delle proprie energie, guadagnarono l’eterna gloria di aver portato l’arte e la scienza, come la politica e la religione, al pieno godimento della maturità.
Sarebbe giusto dire in questo contesto che il Calvinismo ha liberato la religione e non l’arte, e che il merito di aver emancipato l’arte spetta solo al Rinascimento? Sono pronto ad ammettere che il Rinascimento abbia il diritto di reclamare la sua parte nella vittoria, specialmente poiché incitò l’arte a rivendicare la sua libertà con le sue magnifiche produzioni. Il genio estetico, se posso chiamarlo così, era stato infuso da Dio nel mondo Greco, e solo ripristinando, fra grandi elogi, le leggi fondamentali dell’arte che il genio Greco aveva scoperto, l’arte poteva giustificare la propria pretesa di un’esistenza indipendente. Questo, da solo, non avrebbe tuttavia potuto portare alla liberazione desiderata. Perciò, la Chiesa di quei giorni non si opponeva minimamente all’arte classica come tale. Al contrario, essa diede il benvenuto al Rinascimento, e l’arte Cristiana non esitò un momento ad arricchirsi col meglio che il Rinascimento avesse da offrire. Nel cosiddetto Cinquecento o alto Rinascimento, Bramante e Da Vinci, Michelangelo e Raffaello, riempirono le cattedrali Romane con tesori d’arte estremamente unici ed inimitabili, mai eguagliati. Così, il vecchio legame continuò ad unire la chiesa e l’arte, e questo portò da sé ad uno stabile patronato. La vera liberazione dell’arte richiese energie molto più evidenti. Da principio, la Chiesa doveva essere costretta a ritornare alla sua realtà spirituale. L’arte che fino ad allora si era auto-confinata nelle sfere sacre doveva fare ora la sua apparizione nel mondo sociale. Nella Chiesa, la religione doveva gettar via le sue vesti simboliche, in modo che, dopo esser ascesa a un livello spirituale più alto, il suo alito di vita potesse animare il mondo intero. Proprio come Von Hartmann osserva giustamente: “È la pura religione spirituale che con una mano priva l’artista della sua arte specificamente religiosa ma che con l’altra gli offre in cambio un intero mondo da animare religiosamente”. Ora, Lutero certamente desiderò tale religione puramente spirituale, ma il Calvinismo fu il primo a farla propria. Prima di tutto, sotto l’impulso trainante del Calvinismo i nostri padri ruppero con lo splendor ecclesiae, cioè con la sua lucentezza esteriore, e così anche con i suoi ampi possedimenti, con i quali l’arte veniva finanziariamente tenuta prigioniera. E benché l’Umanesimo si fosse ribellato a questo stato di cose oppressivo ed innaturale, non avrebbe mai potuto sperare di operare un cambiamento radicale se lasciato alle proprie risorse. Pensate solo ad Erasmo. Il trionfo nella lotta di quel tempo non fu ottenuto dall’uomo che guidò la contesa per la libertà religiosa attraverso il semplice criticismo ma solo da colui che trovandosi ad un più alto livello di sviluppo religioso sconfisse la religione simbolica come tale. E perciò, possiamo affermare con certezza che fu il Calvinismo ad ispirare l’ardente impulso col quale fu ottenuta la vittoria e a mettere fine, grazie alla sua infaticabile perseveranza, alla tutela ingiustificata della Chiesa su tutta la vita umana, arte inclusa.
Nel frattempo sono pronto ad ammettere che questo risultato sarebbe stato puramente accidentale, se il Calvinismo non avesse allo stesso tempo portato ad una più profonda interpretazione della vita umana e, così, dell’arte. Quando, sotto Vittorio Emanuele II, con l’aiuto di Garibaldi, l’Italia fu resa libera, il giorno della libertà arrivò anche per i Valdesi, nel Centro e Sud Italia, ma né il Re Galantuomo, né Garibaldi avevano pensato ai Valdesi. Allo stesso modo vi sarebbe la possibilità che nella sua lotta per la libertà umana anche il Calvinismo abbia tagliato il legame che fino a quel momento aveva tenuto l’arte prigioniera, ma senza aver minimamente inteso farlo in virtù del suo principio. E perciò devo ancora illustrare il secondo fattore che da solo risolve la questione. Io ho già richiamato più d’una volta la vostra attenzione all’importante significato della dottrina Calvinista della “grazia comune”, e naturalmente, in questa conferenza sull’arte mi devo riferire ad essa di nuovo. Ciò che dev’essere ecclesiale deve portare il marchio della fede, perciò l’arte autenticamente Cristiana può essere opera solo di credenti. Il Calvinismo, al contrario, ci ha insegnato che tutte le arti liberali sono doni che Dio impartisce insieme a credenti e a non credenti, anzi, che questi doni, come ci mostra la storia, si sono sviluppati persino in misura più ampia al di fuori dell’ambiente sacro. “Queste radiazioni di Luce Divina” egli scrisse “splendettero più brillantemente fra persone non credenti che fra i santi di Dio”. Questo certamente rovescia l’ordine proposto delle cose. Se limitate un più alto godimento dell’arte alla rigenerazione, allora questo dono è esclusivamente destinato al credente, e deve portare un carattere ecclesiale. In quel caso è il risultato della grazia particolare. Ma se con l’aiuto dell’esperienza e della storia vi persuadete che i più alti istinti artistici sono doni naturali, e perciò appartengono a quelle grazie eccellenti che, nonostante il peccato, in virtù della grazia comune, hanno continuato a risplendere nella natura umana, ne consegue per forza che l’arte può ispirare il credente e il non credente, e che Dio rimane Sovrano ad impartirla, a Suo buon piacere, a nazioni Pagane come a nazioni Cristiane. Questo non si applica solo all’arte ma a tutte le espressioni naturali della vita umana, ed è manifesto nel confronto fra Israele e le altre Nazioni ai tempi antichi. Per quel che concerne le cose sacre, Israele è il prescelto, e non solo è benedetto al di sopra di tutte le nazioni, ma anche, fra tutte le nazioni, si contraddistingue. Nella questione della religione, Israele non solo occupa una posizione di spicco, ma anche, esso solo ha la Verità, e tutte le altre nazioni, anche i Greci ed i Romani, sono sotto il giogo della falsità. Cristo non è in parte di Israele e in parte delle Nazioni: Egli è soltanto di Israele. La salvezza è dei Giudei. Ma proprio quanto più Israele era luce nella sfera religiosa, tanto meno era sviluppato se si confrontano le sue arti, scienza, politica, commercio e scambi con le nazioni confinanti. La costruzione del tempio richiese l’arrivo a Gerusalemme di Hiram da una nazione Pagana; e Salomone, nel quale dopo tutto si rispecchiò la Sapienza di Dio, non solo era consapevole che Israele fosse inferiore nell’architettura ed avesse bisogno d’aiuto dall’esterno, ma col suo operato dimostrò pubblicamente che, come Re dei Giudei, non si vergognò in alcun modo della venuta di Hiram, che egli interpretò come un ordine naturale di Dio.
Così il Calvinismo, basato sulle Scritture e sulla storia, è giunto ad ammettere che dovunque il Santuario si manifesti, tutte le nazioni miscredenti stanno al di fuori, ma che nonostante ciò, nella loro realtà secolare, esse sono chiamate da Dio ad una specifica vocazione, e costituiscono con la loro propria presenza un anello indispensabile nella lunga catena dei fenomeni. Ogni espressione di vita umana richiede una particolare predisposizione nel sangue e nella trasmissione ereditaria, e un particolare adattamento alla sorte ed agli avvenimenti come all’ambiente naturale ed agli effetti climatici che contribuiscono al suo sviluppo. In Israele tutto questo fu adattato alla sacra eredità che doveva ricevere nella Rivelazione Divina. Ma se Israele fu scelto per la religione, questo non impedì in alcun modo un’elezione parallela dei Greci nel campo della Filosofia e per le rivelazioni dell’arte, né quella dei Romani per lo sviluppo classico nel campo della Legge e dello Stato. Anche la vita dell’arte ha sia il suo sviluppo provvisorio sia le sue ulteriori aperture, ma per poter assicurare uno sviluppo più prospero ebbe prima di tutto bisogno di una precisa autocoscienza di base, in modo che l’immutabile fondamento della sua natura ideale potesse essere portato alla luce una volta per tutte. Un fenomeno quale l’arte arriva a questa auto-rivelazione solo una volta, e quella rivelazione, una volta data ai Greci, rimase esemplare, significativa e dominante per sempre. E benché un ulteriore sviluppo dell’arte possa cercare nuove forme e materiale più ricco, la natura della scoperta originale rimane la stessa. Così, il Calvinismo non solo fu capace, ma fu costretto ad ammettere che per la grazia di Dio i Greci furono la nazione di nascita dell’arte, che grazie a questo sviluppo classico greco l’arte conquistò il suo diritto ad un’esistenza indipendente, e che benché essa debba certamente propagarsi anche nella sfera della religione, non dovrebbe in alcun modo essere innestata come un ramo dipendente nell’albero ecclesiastico. Perciò, il Rinascimento, essendo un ritorno dell’arte ai suoi riscoperti canoni fondamentali, non si presentò al Calvinismo come uno sforzo peccaminoso, ma come un movimento divinamente ordinato. E come tale, il Calvinismo promosse il Rinascimento non per puro caso, ma con chiara consapevolezza e un preciso scopo, in accordo col suo più profondo principio.
Perciò, è fuori discussione che il Calvinismo abbia contemporaneamente condotto ad un’esortazione all’emancipazione dell’arte come pura conseguenza indiretta della sua opposizione alla gerarchia di Roma. Al contrario, esso richiese questa liberazione e fu costretto a metterla in atto nella sua cerchia come conseguenza della sua concezione del mondo e della vita. Il mondo dopo la caduta non è un pianeta perduto, ora destinato solamente ad offrire alla Chiesa un terreno su cui continuare i suoi combattimenti; e l’umanità non è una mucchio di persone senza senso che hanno la sola funzione di far nascere gli eletti. Al contrario, il mondo, ora come in principio, è il teatro per le potenti opere di Dio, e l’umanità rimane una creazione della sua mano, che, a prescindere dalla salvezza, completa con questa presente dispensazione, qui sulla terra, un importante processo, e che nel suo sviluppo storico ha la funzione di glorificare il nome di Dio Onnipotente. A questo scopo Egli ha decretato per questa umanità ogni sorta di espressione di vita, e fra queste, l’arte occupa un posto completamente indipendente. L’arte rivela ordinamenti della creazione che né la scienza, né la politica, né la vita religiosa e perfino nemmeno la rivelazione possono portare alla luce. Essa è una pianta che cresce e prospera dalla sua propria radice e senza negare che per questa pianta possa essere stato necessario l’aiuto di un sostegno temporaneo, e che nei suoi primordi la Chiesa abbia prestato questo sostegno in modo del tutto eccellente, eppure, il principio calvinista pretese che a lungo termine questa piantanel terreno acquistasse la forza di reggersi da sola e di far crescere i suoi rigogliosi rami in ogni direzione. Così, il Calvinismo riconobbe che dal momento che i Greci ebbero scoperto per primi le leggi dalle quali è governata la crescita della pianta-arte, essi continuarono perciò ad avere il diritto di aggiungere ogni ulteriore sviluppo ed ogni nuovo impulso dell’arte al loro primo, classico sviluppo, e non per fermarsi alla Grecia, o per adottare la sua forma pagana senza criticarla. L’arte, come la scienza, non può permettersi di arrestarsi alle proprie origini, ma deve sempre spingersi ad un maggior sviluppo, allo stesso tempo liberandosi di qualsiasi cosa si sia impropriamente mescolata con la pianta nella sua crescita. Solo la legge per la sua crescita e per la sua vita, una volta scoperta, deve rimanere per sempre la legge fondamentale dell’arte, una legge che non le è stata imposta dall’esterno, bensì è sgorgata dalla sua stessa natura. Così, allentando ogni legame innaturale e fondandosi su ogni legame che sia naturale, l’arte deve trovare la forza interiore richiesta per il mantenimento della sua libertà. Calvino, perciò, non separa l’arte, la scienza e la religione l’una dall’altra; al contrario, ciò che egli desidera è che tutta la vita umana sia permeata da queste tre forze vitali. Ci deve essere una scienza che non riposi finché non abbia scoperto l’intero cosmo; una religione che non possa trovar pace finché non abbia permeato ogni sfera della vita umana; e così anche ci dev’essere un’Arte che, senza disprezzare nessun singolo aspetto di vita, includa, nel suo mondo di splendori, la totalità della vita umana, religione inclusa.
Lasciamo che questo riferimento alla vasta estensione della sfera dell’arte introduca il mio ultimo punto, cioè che il calvinismo ha effettivamente ed in modo concreto fatto avanzare lo sviluppo delle arti. Non c’è bisogno di ricordare che nel mondo dell’arte il Calvinismo non fu capace di svolgere il ruolo di uno stregone e poteva operare solo con i dati naturali. Che l’italiano abbia una voce più intonata di quella dello scozzese e che il tedesco sia trasportato da una passione più grande per il canto che non l’olandese, sono pure e semplici realtà che l’arte dovette riconoscere, sotto la supremazia Romana come sotto quella del Calvinismo. Un fatto innegabile che spiega perché non sia né logico né onesto rimproverare il Calvinismo per ciò che è dovuto semplicemente alle differenze di carattere nazionale. Ed è altrettanto evidente la realtà che nei paesi del nord Europa il Calvinismo non fu capace di produrre, come per magia, marmo, porfido o pietre preziose, dal terreno, e perciò, le arti della scultura e dell’architettura che richiedono ricche pietre naturali furono maggiormente sviluppate in quei paesi dove abbondano le cave che in paesi come l’Olanda, dove il terreno consiste di creta e di fango. La poesia, la musica e la pittura possono essere a questo riguardo considerate come le tre arti libere che sono più indipendenti da tutti i fenomeni naturali. Questo non implica che i municipi Fiamminghi ed Olandesi non abbiano una propria posizione d’onore fra le creazioni dell’architettura. Lovanio e Middleburgo, Antwerp ed Amsterdam testimoniano tuttora ciò che l’arte olandese ha impresso nella pietra. E chi ha visto le statue ad Antwerp e sulla tomba di Guglielmo il Taciturno, scolpite da Quellinus e da De Keyzers, non mette in dubbio l’abilità dei nostri artisti nella scultura. Ma ciò è soggetto all’obiezione che lo stile dei nostri municipi si sviluppò molto prima che il Calvinismo facesse la sua apparizione in Olanda, e che anche nel suo successivo sviluppo, esso non esibisce una sola caratteristica che possa ricordare il Calvinismo. In virtù del suo principio, il Calvinismo non costruì cattedrali, non eresse palazzi né anfiteatri, e fu incapace di popolare le nicchie vacanti di queste gigantesche costruzioni con ornamenti scolpiti.
Certamente i meriti del Calvinismo, nel campo dell’arte, si dovranno cercare altrove. Non nelle arti oggettive ma esclusivamente in quelle più soggettive, che non dipendono dal sostegno della ricchezza e, senza il bisogno di cave di marmo, originano spontaneamente nella mente umana. A questo riguardo non posso prendere in considerazione ulteriormente la poesia. In quel caso dovrei dischiudervi i tesori della nostra letteratura olandese, poiché i considerevoli limiti entro i quali è confinata la nostra lingua hanno escluso la nostra poesia dal mondo esterno. Questo privilegio di fare della loro poesia un fenomeno mondiale è riservato solo a quelle nazioni più grandi la cui lingua, essendo parlata da milioni e milioni di persone, diventa un mezzo di comunicazione internazionale. Ma se il territorio in cui si parla il linguaggio delle nazioni più piccole è limitato, l’occhio è internazionale e la musica udita dall’orecchio è compresa da ogni cuore. Per poter quindi riscontrare l’influenza del Calvinismo sullo sviluppo e sul benessere dell’arte, dobbiamo limitarci in ambito internazionale alle due arti soggettive ed indipendenti, quelle della pittura e della musica.
Ora, di entrambe queste arti si deve asserire che, prima dei giorni del Calvinismo, esse si libravano alte sopra la vita comune delle nazioni, e che solo sotto l’influenza calvinista discesero nella più ricca vita popolare. Per quel che riguarda la pittura, basta ricordare la produzione dell’arte olandese con pennello e bulino nel sedicesimo e diciassettesimo secolo. Il solo nome di Rembrandt è qui sufficiente a richiamare alla vostra mente un intero mondo di tesori artistici. In musei di ogni paese e di ogni continente c’è ancora contesa e si tenta di tutto per ottenere qualche esemplare delle sue opere. Perfino i vostri mediatori hanno rispetto per una scuola artistica i cui guadagni rappresentano un capitale così vasto. Ed ancora ai nostri giorni, i “maestri” di tutto il mondo prendono in prestito i loro motivi più significativi e le loro migliori tendenze artistiche da ciò che a quel tempo ottenne l’ammirazione del mondo intero come una scuola di pittura totalmente nuova. Naturalmente, questo non significa che tutti questi pittori fossero personalmente calvinisti convinti. Nella più vecchia scuola artistica che fiorì sotto l’influenza di Roma anche i “buoni Cattolici” erano molto rari. Tali influenze non operano personalmente, ma lasciano la loro impronta nell’ambiente e nella società, nel mondo delleemozioni, delle rappresentazioni e dei pensieri; e come risultato di queste varie impressioni fa la sua apparizione una scuola artistica. Da questo punto di vista, la contrapposizione fra il passato ed il presente nella scuola artistica olandese è senza dubbio evidente. Prima di questo periodo non si prendeva affatto in considerazione la gente, erano considerati degni di nota solo coloro che erano superiori all’uomo comune, cioè la nobile realtà della chiesa e dei sacerdoti, dei cavalieri e dei principi. Ma da allora il popolo è divenuto maggiorenne, e sotto gli auspici del Calvinismo, l’arte pittorica, profetica di una vita democratica dei tempi a venire, fu la prima a proclamare la maturità del popolo. La famiglia cessò di essere un’appendice della Chiesaerivendicò il suo esistere come realtà indipendente. Alla luce della grazia comune fu compreso che anche la vita non di Chiesa aveva una grande importanza e un motivo artistico omnicomprensivo. Essendo stata messa in ombra per molti secoli da distinzioni di classe, la vita comune dell’uomo uscì dal suo nascondiglio come un nuovo mondo in tutta la sua sobria realtà. Furono l’estesa emancipazione della nostra ordinaria vita terrena e l’istinto per la libertà a catturare, perciò, i cuori delle nazioni, ed a infondere in loro il piacere nel godere di tesori così a lungo ciecamente trascurati. Perfino Taine ha cantato le lodi della benedizione che si ottenne dall’amore calvinista per la libertà del mondo dell’arte, e Carriere, che fu altrettanto lontano dall’essere un simpatizzante del Calvinismo, proclamò a gran voce che solo il Calvinismo fu capace di arare il terreno sul quale potè fiorire l’arte libera.
In più, è stato frequentemente osservato che l’idea dell’elezione per libera grazia ha contribuito non poco ad un interesse dell’arte per ciò che è apparentemente piccolo e insignificante. Se un uomo comune, al quale il mondo non presta alcuna attenzione, è considerato e perfino scelto da Dio come uno dei suoi eletti, questo deve condurre anche l’artista a trovare un motivo per i suoi studi artistici in ciò che è comune e quotidiano, a prestare attenzione alle emozioni ed ai problemi del cuore umano, per comprendere col suo istinto artistico il loro impulso ideale e, infine, a fornire con i suoi strumenti al mondo in generale un’interpretazione della preziosa scoperta che ha fatto. Perfino sciocche stravaganze diventano motivo di produzione artistica, semplicemente come rivelazioni del cuore umano e come manifestazioni della vita umana. All’uomo doveva essere mostrata anche l’immagine della sua follia in modo che potesse allontanarsi dal male. Fino ad allora l’artista aveva tracciato nelle sue tele solamente le figure idealizzate di profeti e di apostoli, di santi e di sacerdoti; ora però, quando vide che Dio aveva scelto il facchino e l’operaio, l’artista trovò interesse nel volto, nella figura e nell’intera personalità dell’uomocomune, e cominciò a raffigurare la vita umana espressa in ogni rango e condizione. E se fino ad allora gli occhi di tutti si erano rivolti costantemente e solamente alle sofferenze dell’“Uomo di Dolore”, qualcuno ora cominciò a capire che c’era una sofferenza spirituale anche nella generale miseria dell’uomo, svelando profondità del cuore umano fino ad allora sconosciute, e rendendoci così capaci di scandagliare molto meglio le ancor più abissali profondità delle misteriose agonie del Golgota. L’artista non fu più represso dal potere Ecclesiastico né fu più imprigionato con le catene dell’oro principesco. Come artista, era anche uomo, capace di confondersi in mezzo alla gente, scoprendo nella loro esistenza e oltre, qualcosa di completamente diverso da ciò che il palazzo ed il castello gli avevano fino ad allora offerto, qualcosa, anche, che risultò essere molto più prezioso di quanto l’occhio più preciso avesse mai sospettato. Come Taine così decisamente sostiene: “A Rembrandt la vita umana nascose il suo volto dietro le molte fosche sfumature, ma anche in quel chiaroscuro[5] la sua comprensione di quella vita fu profondamente reale e significativa”. Perciò, come risultato del riconoscimento della maturità del popolo e dell’amore per la libertà che il Calvinismo risvegliò nei cuori delle nazioni, la vita umana, comune ma ricca, dischiuse all’arte un mondo interamente nuovo e, accendendo l’interesse per il piccolo e l’insignificante, e aprendo il cuore ai dolori dell’umanità, dal ricco contenuto di questo mondo appena scoperto, la scuola artistica olandese ha riprodotto sulle tele quelle meravigliose opere artistiche che ancora immortalano la sua fama, e che hanno tracciato la via per nuove conquiste a tutte le nazioni.
Infine, in merito al significato che il Calvinismo attribuì alla musica, noi la riteniamo una delle sue eccellenze che, benché meno largamente conosciuta, è nondimeno di gran lunga importante, come il signor Douen ci insegnò dieci anni fa nei suoi due grossi volumi su Marot. La musica e la pittura corrono parallele. Proprio come nel periodo Ecclesiastico-Aristocratico fu solo il nobile ed il santo che interessarono i maestri della pittura, così nella musica fu il canto di Gregorio ad essere dominante, canto che abbandonò il ritmo, che disprezzò l’armonia, e che secondo un critico professionista, col suo carattere conservativo sbarrò la strada all’ulteriore sviluppo artistico della musica. A livelli molto più bassi di questo solenne canto fluivano le canzoni più libere del popolo, troppo spesso, ahimè, ispirate all’adorazione di Venere, che ai tempi delle cosiddette “feste asinine”, e in faccia al disgusto degli ufficiali ecclesiastici, oltrepassarono perfino i muri delle chiese e furono motivo di quei ripugnanti episodi che il Concilio di Trento riuscì a mettere al bando. Solo la Chiesa aveva il privilegio di fare musica, mentre ciò che il popolo produceva era schernito come incapace di essere degno di essere arte. Perfino nell’oratorio, mentre alla gente era permesso di ascoltare la musica sacra, era contemporaneamente loro proibito di aggregarsi al canto. In questo modo, la musica come arte fu privata quasi totalmente del suo carattere indipendente. Alla musica fu permesso di fiorire artisticamente solo per quanto poteva servire alla Chiesa. Qualsiasi sua autonoma espressione non riuscì ad andare oltre l’uso popolare. E come in ogni sfera di vita, il Protestantesimo in generale, ma il Calvinismo più consistentemente, frenò il controllo della Chiesa, così che anche la musica fu emancipata da essa e fu aperta la via al suo così meraviglioso moderno sviluppo. Gli uomini che per primi adattarono la musica dei Salmi al canto calvinista furono i coraggiosi eroi che spezzarono le catene che ci legavano al Cantus Firmus e selezionarono le loro melodie dal libero mondo della musica. Certamente, facendo questo, essi adottarono le melodie del popolo, ma come Douen giustamente osserva, solo in modo da poter restituire queste melodie al popolo purificate e battezzate nella serietà cristiana. Anche la musica sarebbe fiorita, di lì a poco, non dentro alle strette limitazioni della grazia particolare, ma nel terreno ampio e fertile della grazia comune. Il coro fu abbandonato; nelle chiese sarebbe stato il popolo a cantare, e perciò Bourgeois[6] e i virtuosi calvinisti che lo seguirono furono costretti a fare le loro selezioni dalle melodie popolari, ma in vista di ciò, e cioè, che ora il popolo non avrebbe più cantato nelle osterie o nelle strade, ma in chiesa, e di modo da far trionfare così, nelle loro melodie, la serietà del cuore sull’ardore delle passioni più ignobili.
Se questo è il merito generale del Calvinismo, o meglio, il cambiamento che portò in campo musicale, facendo in modo che l’idea del laicato cedesse il posto a quella del sacerdozio di tutti i credenti, l’accuratezza storica esige una delucidazione ancor più concreta. Se Bourgeois fu il grande maestro le cui opere gli assicurarono un posto d’onore fra i compositori più famosi dell’Europa Protestante, è giusto anche ricordare che Bourgeois visse e lavorò a Ginevra, proprio sotto gli occhi di Calvino, e perfino in parte sotto la sua direzione. Fu Bourgeois ad avere il coraggio di introdurre il ritmo e di sostituire gli otto modi Gregoriani con i due modi maggiore e minore della musica popolare; a santificare la sua arte in inni consacrati ed ad imprimere così un carattere glorioso a quell’arrangiamento musicale di toni, dal quale ebbe origine tutta la musica moderna. Allo stesso modo, Bourgeois introdusse l’armonia o il cantoa più voci distinte. Egli fu l’uomo che sposò la melodia al verso in ciò che fu chiamato espressione. Il solfeggio, vale a dire il cantare nota per nota chiamandola per nome, la riduzione del numero di corde, la più chiara distinzione delle diverse estensioni, ecc., scelte grazie alle quali la conoscenza della musica fu così tanto semplificata, sono tutte dovute alla perseveranza di questo compositore calvinista. E quando Goudimel[7], il suo collega calvinista, che fu un tempo, a Roma, l’insegnante del grande Palestrina, ascoltando il popolo cantare in Chiesa, scoprì che le voci più alte dei bambini superavano quella del tenore, che aveva fino ad allora tenuto la guida, egli diede per la prima volta la parte guida al soprano; un cambiamento di grande rilievo che da allora è sempre stato mantenuto.
Perdonatemi se per un momento vi ho trattenuti con questi particolari, ma i meriti del Protestantesimo, e più in particolare del Calvinismo, nella musica, sono di rilevanza troppo grande per sopportare ulteriormente il disprezzo senza protestare. Riconosco pienamente che il Calvinismo esercitò su alcune arti solamente un’influenza indiretta con il riconoscimento della loro maturità, e dando loro la libertà di fiorire nella loro indipendenza, ma nella musica, l’influenza del Calvinismo fu un’influenza molto positiva, dovuta al suo culto spirituale di Dio che non lasciò per nulla spazio alle arti più materiali, ma assegnò un nuovo ruolo al canto e alla musica con la creazione di melodie e di canti per il popolo. Qualsiasi cosa la vecchia scuola abbia fatto per adattarsi ai più nuovi sviluppi della musica, la musica moderna rimase incapace di adattarsi al cantus firmus, perché sorgeva da una radice completamente diversa. D’altro canto, il Calvinismo non solo si aggregò ad essi, ma sotto la guida di Bourgeois e di Goudimel diede loro il primo impulso, cosicché perfino gli scrittori Cattolico-Romani sono costretti a riconoscere che il nostro fiorente sviluppo della musica nei secoli passati e nel presente dovette la sua ascesa per la maggior parte ad inni di chiesa eretici.
Che in un periodo successivo il Calvinismo abbia perso quasi ogni influenza in questo campo non può essere negato. Per lungo tempo l’Anabattismo ci sopraffece con i suoi pregiudizi dualistici, e prevalse un insano spiritualismo. Ma quando a questo proposito, con intera noncuranza per il nostro considerevole passato musicale, il Calvinismo fu accusato da Roma di ottusità estetica, è bene ricordare che il grande Goudimel fu assassinato dal fanatismo romano nel massacro di San Bartolomeo. Questo fatto è indicativo; dato che ci viene naturale domandarci, con Douen: Un uomo ha forse il diritto di lamentarsi del silenzio della foresta se con le sue mani ha catturato ed ucciso l’usignolo?
[1] L’arte è stata definita come l’incarnazione del bello pensato in forme piacevoli ai sensi, come per esempio nelle sculture o nel linguaggio. In Calvinisme en Kunst, il Dr Kuyper dichiara: “Come portatore dell’immagine di Dio, l’uomo possiede sia la possibilità di creare qualcosa di bello, sia di deliziarsi in esso.” Nell’uomo questa “kunstvermogen” non è una funzione separata dell’anima, ma un’ininterrotta (continua) espressione dell’immagine di Dio.
[2] Dal Greco kalos kai agathos: bello e buono (in senso etico) N.d.T.
[3] L’Estetica può essere definita come la scienza del bello e del gusto; quella branchia della conoscenza che concerne le belle arti e la critica dell’arte. Non c’è un Estetica universalmente accettata. Ci sono tre scuole: quella Sensuale (Hogarth); quella empirica, (Helmholtz); quella idealista, che deve le proprie origini a Kant.
[4] Che da maggiore importanza e certezza alle cose celesti rispetto a quelle terrene. (n.d.T)
[5] Chiaroscuro indica il mescolarsi della luce e delle ombre nella pittura.
[6] Loys Bourgeois, nato a Parigi nel 1510 circa, nel 1541 seguì Calvino a Ginevra, dove divenne “chartre” della chiesa. Fu uno dei primi “psalmbewerkers”, ma poiché desiderava introdurre ulteriori salmi “meertemmige”, entrò in conflitto con Calvino e con il suo concistoro, e nel 1557 ritornò a Parigi. Pubblicò il suo Salterio “vierstemmige” a Lione (1547) e Parigi (1554). Scrisse pure “le Droit Chemin de Musique” 1550.
[7] Claude Goudimel, nato a Besancon, Francia, nel 1505 o 1510. Intorno al 1540 aprì una Scuola di Musica. È stato negato che il Palestrina sia stato ad un tempo suo allievo. Abbracciò la religione Riformata e si stabilì a Lione, dove fu assassinato durante la notte di S. Bartolomeo, nel 1572. Fornì la musica per i salmi e pubblicò melodie ancora in uso.